lunedì 27 aprile 2015
Messico: l'ingresso di Petroball
Nota
Uno dei maggiori effetti della
riforma energetica varata in Messico è stata la nascita della prima compagnia
petrolifera privata. Tutto ha inizio alcuni decenni fa, grazie al colosso
energetico Pemex, il quale ha ormai aperto i contatti con gli stranieri,
soprattutto per merito dell'imprenditore messicano Alberto Baillares: egli è
considerato il secondo uomo più ricco del paese ed è a capo del gruppo Bal, minerario
siderurgico, oltre ad essere proprietario della miniera d'argento più grande
del mondo, situata nello stato di Zecatecas, in Messico. L'arrivo di Petrobal
coincide con un taglio di 4,17 miliardi di dollari, annunciato da Pemex, per
effetto della riduzione dei prezzi del petrolio. Una delle compagnie
internazionali più attive in Messico è L'ENI, il quale ha firmato, lo scorso
ottobre, un accordo di cooperazione per svolgere attività di esplorazioni di
gas naturale con la stessa Pemex, oltre ad altre attività petrolchimiche
Alessio Pecce
(alessio-p89@libero.it)
mercoledì 22 aprile 2015
Stati Uniti: nuove prospettive in politica estera
lunedì 13 aprile 2015
Stati Uniti: l'oleodotto Keystone, si dibatte.
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Sei anni dopo la prima richiesta di approvazione fatta daTrans Canada, l’oleodotto Keystone è ancora forse la questione ambientale più dibattuta negli Stati Uniti.
Il progetto è importante, ma non ha le dimensioni per giustificare un accanimento così forte da entrambe le parti. Rappresenta però un simbolo importante per quella transizione nell’energia e nella lotta al clima che sta chiaramente verificandosi negli Stati Uniti, ma che ancora non ha una direzione precisa. E in cui tutti, con le elezioni presidenziali previste per il 2016, vogliono dire la propria. La questione Keystone: dati e fatti Chiariamo subito un punto: il Keystone esiste già. Anzi, ne esistono tre. Il Keystone Pipeline System fu approvato dal presidente George W Bush nel 2008 e consiste in un sistema di oleodotti che connette le tar sands, sabbie bituminose da cui si estrae petrolio, nell’Alberta, fino alle raffinerie negli Stati Uniti sul Golfo del Messico. La discussione si concentra sulla quarta fase, il Keystone XL, che dovrebbe aumentare la capacità di trasporto dal Canada fino in Nebraska di circa 830.000 barili al giorno, raddoppiandola. Rappresenterebbe circa l’11% delle importazioni di greggio degli Stati Uniti nel 2014. L’opposizione al Keystone XL ha visto schierati gruppi ambientalisti a livello nazionale e locale, insieme ai democratici, contro il supporto del partito repubblicano e del governo canadese al progetto. Le motivazioni riguardano soprattutto l’ambiente: l’oleodotto dovrebbe infatti attraversare diversi corsi d’acqua e l’area delle Sand hills, il cui ecosistema è particolarmente fragile. Il punto principale interessa però le tar sands e le compagnie canadesi che vedono nel progetto l’occasione per espandere lo sfruttamento della risorsa. Questo metodo di estrazione non convenzionale è tra quelli con il più alto impatto ambientale: richiede lo spianamento di grosse aree, che in Alberta sono coperte per la maggior parte dalla foresta boreale. Per un barile di petrolio bisogna processare oltre due tonnellate di sabbia, con un grande impiego di acqua. Il greggio prodotto è poi estremamente denso e di bassa qualità, produce maggiori emissioni di gas serra, tende a depositarsi sul fondale dei corsi d’acqua, rendendone molto costoso il recupero, aumenta la corrosione delle condutture e quindi il rischio di sversamenti. Gli interessi di Canada, repubblicani e democratici Il presidente Obama era intervenuto nella questione nel 2010, quando il National Energy Board canadese aveva approvato il progetto, negandone l’accettazione per l’inadeguata valutazione ambientale. Di fronte al temporeggiamento della Casa Bianca, il Congresso ora a maggioranza repubblicana ha votato in febbraio una proposta di legge per far partire il progetto. Obama ha però posto il veto:una decisione rara per la sua amministrazione (è solo il terzo). Un tentativo di superare il veto presidenziale non ha raggiunto il quorum al Congresso sempre in febbraio e costringerà i repubblicani a cercare un ulteriore supporto dai democratici. Il progetto però è piccolo rispetto alla discussione che ha generato: costerebbe almeno tre volte in meno di quanto era previsto per South Stream, esponendo le aree coinvolte ad una pressione ambientale nettamente inferiore a quanto succede nell’estrazione di shale in Pennsylvania o West Virginia. La posizione ambientalista è poi forte nella forma, modesta nel contenuto: la discussione non ha toccato gli oleodotti interni agli Stati Uniti, la cui capacità è aumentata di 3,3 milioni di barili al giorno solo dal 2012, quattro volte quella prevista per il Keystone XL. Infine, l’oleodotto ha scarse possibilità di successo: i prezzi bassi del petrolio mettono fuori mercato le inefficienti tar sands, e i produttori americani non cercano altra offerta che metta pressione su quella domestica. La posta in gioco per le parti in causa Per il Canada, il Keystone XL è un altro passo verso il primato mondiale nello sfruttamento delle risorse naturali a cui il governo del premier Harper punta dal 2012, e che ha visto un forte abbassamento degli standard ambientali del paese. In questo, il Keystone rappresenta il pet project di Harper. Per i repubblicani, l’oleodotto è un modo semplice per attaccare Obama in un Congresso dove non ha più la maggioranza, puntando su temi su cui il loro elettorato ha sempre avuto molta attenzione: occupazione (la costruzione prevede 43.000 posti di lavoro) e indipendenza energetica. Per i democratici questa è una delle occasioni per potersi presentare alle elezioni presidenziali del 2016 come un partito veramente green, nonostante abbiano dovuto affrontare la catastrofe del Golfo del Messico e che molto del successo economico dell’amministrazione Obama sia dovuto allo sfruttamento delle risorse fossili shale dal forte impatto ambientale. Soprattutto però, la discussione sul Keystone XL è internazionale più che domestica, e rappresenta la scelta simbolica degli Stati Uniti di impegnarsi o meno nello sfruttamento di una risorsa fossile e altamente inquinante in un altro paese. In altre parole, potrebbe contribuire alla costruzione dell’immagine degli Stati Uniti come paese impegnato nella lotta al cambiamento climatico in vista della conferenza sul clima di Parigi 2015. Un proposito a cui Obama ha iniziato a lavorare con l’accordo sulla riduzione delle emissioni con il premier cinese Xi Jinping dello scorso novembre. È però una preparazione difficile per un paese in cui un quarto della popolazione non crede che il cambiamento climatico sia reale e per cui gli Stati Uniti dovranno affrontare i fallimenti delle scorse conferenze, Copenhagen e Doha in particolare, a cui loro stessi hanno ampiamente contribuito. Lorenzo Colantoni è consulente di ricerca dello IAI (Twitter: @colanlo). | ||||||||
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