Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 27 gennaio 2017

USA. creare caos ai propri confini

Usa e Sudamerica
Messico e nuvole alla Casa Bianca
Carlo Cauti
26/01/2017
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Da mesi i messicani sanno che il 2017 non sarà un anno facile. I motivi principali sono due. Il primo è l'elezione di un presidente degli Stati Uniti che non si stanca di ripetere discorsi anti-messicani e bolla come “disastro” (minacciando di porvi fine) il Nafta, il North American Free Trade Agreement che è, da alcuni decenni, il maggiore motore dell’economia del Messico. Il secondo motivo è il crescente malcontento interno provocato dal progressivo deterioramento della situazione economica.

E se, da una parte, si attende per martedì 31 gennaio la visita del presidente messicano Enrique Peña Nieto alla Casa Bianca di Donald Trump (è il secondo leader straniero dopo la britannica Theresa May), dall’altra monta una crisi che da diverse settimane non fa altro che peggiorare. E che, purtroppo, è già costata diverse vite.

Gasolinazo e disorientamento 
L’improvviso annuncio da parte del governo di un aumento del 20% dei prezzi della benzina ha scatenato un’ondata di malcontento, con proteste - spesso violente - che hanno invaso piazze e strade in quasi tutto il Messico. Finora, il cosiddetto "gasolinazo" ha causato sei morti, l'arresto di oltre mille persone e centinaia di saccheggi registrati in 27 dei 32 Stati del Paese.

Ciò che ha più indignato la popolazione messicana, tuttavia, è stata la reazione debole e irresoluta del loro presidente. Durante un comunicato televisivo ufficiale, cercando di mostrare fermezza, Peña Nieto ha dichiarato che i problemi del Paese sono di natura "esterna", che un aumento di tali proporzioni della benzina era "l'unica alternativa per non tagliare piani sociali", e che la colpa di questa situazione ricade sull'eredità lasciata dai governi precedenti.

Il presidente messicano si è dimenticato di ricordare che è in carica ormai da oltre quattro anni e che il costo dei programmi sociali incide solo in percentuali risibili sulla spesa pubblica messicana. Il passaggio che lascia maggiormente sconcertati è tuttavia quello in cui chiede ai suoi connazionali: "Tu cosa avresti fatto al mio posto?".

Ora, è comprensibile che Peña Nieto possa essere confuso dalla complessa situazione che ha davanti a sé, ma lanciare una domanda del genere al popolo che lo ha eletto non è niente di meno che mettere in chiaro come lui, il capitano della nave, non abbia la minima idea di dove, né come, la sua imbarcazione navigherà nei prossimi anni.

Il rapporto con Trump
A riprova di ciò, basta rivedere le sue decisioni più recenti. Dopo aver rimosso Luis Videgaray, il collaboratore che gli aveva consigliato di invitare l’allora candidato repubblicano Trump in visita ufficiale in Messico - scelta che ha generato roventi polemiche nazionali ed un certo scherno internazionale -, il presidente lo ha semplicemente richiamato, nominandolo addirittura ministro degli Esteri.

E Videgaray, in una delle sue prime dichiarazioni, ha affermato che il rapporto con Washington "non sarà di sottomissione". Peña Nieto ha cercato di tappare la falla, esprimendosi sulla questione del muro alla frontiera che Trump vuole costruire e far pagare al Messico.

Dall’altro lato, però, il presidente tenta timidamente di elaborare una controproposta alle critiche al Nafta mosse dal nuovo omologo statunitense, nel tentativo di non far soccombere del tutto l’accordo. In tutte le opzioni avanzate finora, però, il Messico perde sempre, benché meno di quanto piacerebbe a Trump.

“Rivedere un trattato che ha già vent’anni di vita può essere una buona idea”, ha dichiarato Peña Nieto subito dopo il voto negli Usa. Un’arguzia che non traspirava chiarezza di intenti, e che non ha sicuramente giovato al suo Paese.

Tanto è vero che ancora prima dell’insediamento, Trump aveva già incassato un successo, riuscendo - con la sola forza della pressione - a far deviare gli investimenti delle case automobilistiche dal Paese latinoamericano al proprio territorio nazionale.

Dal 2011 al 2014, il Messico ha attratto oltre 10 miliardi di dollari di investimenti da parte di multinazionali statunitensi, diventando il maggior produttore di autoveicoli dell'America latina. Se le aziende automobilistiche se ne dovessero andare, verrebbero cancellati milioni di posti di lavoro e la disoccupazione esploderebbe.

Il governo ha risposto con l’annuncio di tagli delle spese dell’esecutivo e l’adozione di misure di austerità. Quanto di più lontano si possa immaginare dal concetto di “replica efficace ed orgogliosa”.

Peña Nieto a rischio 
L’assenza di prospettive e di chiarezza sui progetti da parte del governo ha esasperato i messicani e li ha portati a riversarsi per le strade e a chiedere le dimissioni del presidente.

È vero che lo scenario internazionale non offre un panorama generoso, ma il fatto che sia Peña Nieto sia i suoi collaboratori non abbiano neanche elaborato preventivamente una strategia chiara per affrontare una prospettiva del genere non solo è preoccupante, ma è prova evidente del fatto che non si aspettassero minimamente la vittoria di Trump.

Peggio ancora, la scommessa del governo su una politica di tagli di bilancio e sull'aumento dei prezzi del carburante, in un momento così delicato in cui c’è bisogno di conquistare - e non perdere - il sostegno popolare, è stata un vero e proprio suicidio politico. Non a caso, oggi meno del 25% dei messicani appoggia il presidente.

Per le strade, grida e slogan presentano i temi che Peña Nieto non ha menzionano nei suoi discorsi: gli scandali di corruzione in cui sono coinvolti diversi suoi collaboratori (compresa sua moglie), gli omicidi in aumento di oltre il 15% negli ultimi mesi, l'assenza dello Stato in diverse regioni, la latitanza di un ex governatore dello stesso partito del presidente, il crollo del cambio del peso con il dollaro.

Tutti fattori che preoccupavano i messicani molto tempo prima che Trump fosse eletto, e ai quali si sommano adesso i timori per una nuova recessione provocata dall’insediamento del quarantacinquesimo presidente Usa.

Con la situazione che diventa ogni giorno più difficile, i due anni di mandato presidenziale che restano iniziano a sembrare un'eternità, per Peña Nieto come per i messicani.

Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile.

giovedì 26 gennaio 2017

USA: inizia l'era Trump, un salto nel buio?

Inauguration Day
Usa: Trump si conferma uomo di rottura
Germano Dottori
21/01/2017
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Donald Trump ha finalmente giurato ed è da mezzogiorno del 20 gennaio presidente degli Stati Uniti. Com’è consuetudine, non appena entrato nell’esercizio della sua carica, il nuovo capo dello Stato americano si è rivolto alla sua Nazione.

Chi lo ha sostenuto finora e lo ha ascoltato, non sarà rimasto deluso. Chi lo temeva, avrà invece ottenuto una conferma ulteriore del fatto che è davvero entrato alla Casa Bianca un uomo di rottura, intenzionato a introdurre novità profonde nel modo in cui il potere esecutivo statunitense gestisce la politica interna e quella internazionale.

Lo ha fatto capire sin dalle prime battute del suo primo discorso da presidente, soffermandosi ancora una volta sulla natura del suo “movimento” e sottolineando senza risparmiare neanche il proprio partito le responsabilità di una classe dirigente che si sarebbe arricchita allontanandosi dalla gente. Il volto di Paul Ryan, frequentemente inquadrato dalle telecamere, tradiva un evidente imbarazzo, a malapena celato da sorrisi di circostanza.

Un presidente che fa sul serio
Trump fa sul serio ed è questa la novità. Il nuovo presidente ci ha detto che la sua America incentiverà l’acquisto di prodotti e l’assunzione di lavoratori statunitensi. Possiamo credergli e, del resto, Marchionne lo ha già fatto. Non distribuirà più, invece, risorse verso il resto del mondo. Perché negli Stati Uniti esiste una classe media che deve recuperare potere d’acquisto e va altresì risolto il problema del decadimento dell’intelaiatura infrastrutturale del Paese, di cui in effetti si scrive e si parla da almeno un quarto di secolo.

È peraltro un’altra la ragione più verosimile di questa svolta, in realtà cominciata da diverso tempo: sovvenzionare gli stili di vita degli amici e degli alleati dell’America non serve più, perché con la fine dell’Unione Sovietica ed il tramonto del comunismo è venuta meno l’esigenza di puntellarne gli equilibri politici interni. Cinesi e tedeschi sono avvertiti.

Eccezionalismo americano, parentesi chiusa
Dalla viva voce del nuovo presidente abbiamo anche appreso che la lunga parentesi dell’eccezionalismo americano, iniziata poco meno di cento anni fa, è probabilmente sul punto di concludersi.

Il credo dell’Amministrazione entrante, enunciato seccamente dal suo leader, non sarà più l’universalizzazione del libero mercato e della democrazia, ma il primato dell’interesse nazionale statunitense, declinato come ricerca del benessere dei singoli e delle famiglie, uniti dalla comune fede nel patriottismo, descritto a sua volta come il “sangue rosso” che scorre in tutti i cittadini della Repubblica, a prescindere dal colore della loro pelle.

Depurato da ogni incrostazione retorica, il messaggio di Trump non potrebbe essere più chiaro: gli Stati Uniti vireranno ancor più decisamente verso il realismo ed uniformeranno a questa concezione anche la loro narrativa ufficiale: per dirla alla maniera di Henry Kissinger, avremo la rivincita di Theodore Roosevelt su Woodrow Wilson.

Wilson e Obama gli sconfitti
Non che Barack Obama non fosse un realista, tutt’altro, ma negli otto anni appena trascorsi anche le scelte più attentamente calcolate dalla Casa Bianca avevano comunque continuato a essere giustificate facendo appello ad alti principi etici.

Quest’ambigua prassi dovrebbe ora venir meno, con l’effetto di accrescere la trasparenza politica dell’America, circostanza che paradossalmente farà ulteriormente lievitare la caratura morale della sua azione sulla scena mondiale.

Trump ha ribadito come nel perseguimento dei loro scopi gli Stati Uniti continueranno a servirsi delle alleanze esistenti, magari consolidandole. Non è quindi corretta la lettura di chi ha visto nelle dichiarazioni rese nei giorni scorsi dal nuovo presidente a proposito dell’obsolescenza della Nato l’annuncio del suo smantellamento. Ne diventa però sempre più probabile il riorientamento, anche perché Trump ha precisato che all’occorrenza l’America potrà cercare di stabilire nuove intese.

È in questa parte del suo discorso inaugurale che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha probabilmente inserito lo spunto di maggior interesse per il resto del mondo: abbracciando l’interesse nazionale come stella polare della propria azione internazionale, gli Stati Uniti di Donald Trump riconoscerebbero il diritto di fare altrettanto a tutti i Paesi del pianeta. Vedremo poi nei prossimi anni dove verranno pragmaticamente tracciate le nuove “linee rosse” da non oltrepassare.

La guida americana dovrà comunque esercitarsi soprattutto tramite l’esempio luminoso che gli Stati Uniti riusciranno a dare con i risultati del loro futuro buongoverno.

Non dovremmo più vedere, con Trump alla Casa Bianca, alcuna forma di esportazione militare della democrazia né tanto meno assistere a nuovi e pericolosi esercizi della Responsability to Protect, che invece avrebbero quasi certamente caratterizzato l’azione esterna di un’Amministrazione diretta da Hillary Clinton. In compenso, si andrà fino in fondo nella lotta al terrorismo jihadista.

I russi sono certamente tra i primi destinatari di questi passaggi dell’intervento di Trump. Ma sarebbe probabilmente un errore circoscriverne il significato, che è molto più ampio e chiama in causa anche noi. L’America “egoista” del nuovo Presidente sembra infatti determinata a restituirci quote di sovranità sostanziale.

Ci sarà chi accoglierà questa evoluzione con preoccupazione, perché nello scenario che si delinea saremo costretti ad assumerci maggiori responsabilità, correndo più rischi ma forse anche creando le condizioni di una lievitazione della nostra statura geopolitica.

Non è detto che ci riveleremo all’altezza della sfida, anche se l’Italia si sta muovendo nella giusta direzione. Che ci piaccia o meno, le prime parole pronunciate dal presidente Trump ci hanno comunque già resi di fatto più liberi: come inizio, non potevamo chiedere di più.

Germano Dottori è consigliere scientifico di Limes, cultore di Studi Strategici alla Luiss Guido Carli e consulente parlamentare.

USA. Il giuramento del 45° Presidente

Inauguration Day
Usa: Trump, missione compiuta, paura è fatta
Giampiero Gramaglia
21/01/2017
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Se Donald Trump voleva galvanizzare l’America che l’ha votato e spaventare quella, più numerosa, che non l’ha votato, oltre che tutta quella fetta di Mondo che si autodefinisce ‘libero’ e che guarda all’America con simpatia e magari con riconoscenza, c’è perfettamente riuscito.

E se voleva fomentare l’odio verso l’America di quella fetta di Mondo che già la considera un “satana”, c’è pure perfettamente riuscito. E se infine voleva dare il ‘libera tutti’ ai populismi nostrani e ai nazionalismi altrui, russi o cinesi o quali che siano, c’è pure perfettamente riuscito.

Missione compiuta!, Presidente Trump. Adesso, è chiaro: con lei al potere, lo Sbarco in Normandia non sarebbe mai avvenuto - al massimo, la guerra nel Pacifico perché i giapponesi se la tirarono proprio - e il Mondo sarebbe diviso tra Nazismo, Comunismo e America in perpetuo conflitto. Proprio come in ‘1984’. Sentirla è stato come andare al cinema e scoprire che lei ha ribaltato i finali di Quarto Potere e de Il Grande Dittatore; e che il passato può tornare, forse è già tornato.

Il conto alla rovescia: -1461
Trump ha fatto proprio il discorso che mi aspettavo facesse. E che, in qualche misura, speravo facesse. Non perché sia d’accordo con qualcosa che ha detto: neanche con una parola. Ma perché così Donald Trump non lascia spazio a chi continua a credere, o almeno a raccontare, che il Trump presidente sarà diverso dal Trump candidato: il primo discorso del Trump presidente è stato come un qualsiasi discorso del Trump candidato. Solo più agghiacciante, perché ora lui è il presidente.

Adesso, inizia il conto alla rovescia: -1461 all’alba della fine del suo mandato, nella speranza che, nel frattempo, lui e alcuni suoi ‘compagni di merenda’, da Putin a Erdogan, da al-Sisi a Duterte, magari da Farage a Marine Le Pen, non ci combinino guai irreversibili.

Lascio stare la cronaca e il resoconto, ché quelli li avete già vissuti in diretta - se volete sentire o risentire il discorso, lo trovate qui e altrove. Io mi limito alle impressioni, le mie, partendo dall’ammettere che questo discorso può davvero averlo scritto lui di suo pugno, come vuole la sua ‘agiografia’ mediatica.

Quel che mancava nel discorso
È stato un discorso senza radici, senza storia, senza riferimenti. Trump non ha citato nessuno, tranne se stesso: non ha citato i suoi predecessori, né uomini di cultura o di scienza, a parte un paio di richiami (a modo suo, non precisi, un po’ per sentito dire) alla Bibbia.

E non ha neppure citato un qualsiasi Paese estero, né la Cina né la Russia, figuriamoci l’Europa, a meno che non ci siano fischiate le orecchie quando ha detto che gli Stati Uniti hanno sprecato le loro risorse per difendere altri Paesi - fossimo mai noi? - mentre non proteggevano se stessi.

È stato un discorso inquietante e arrogante: “Prospereremo di nuovo” e gli altri saranno “liberi di seguirci”, “sradicheremo dalla faccia della Terra il terrorismo integralista islamico”, “sconfiggeremo la droga e le malattie”, della serie ‘miracoli offrensi’.

È stato un discorso, come spesso i suoi, mirato a suscitare lo spirito di rivalsa dei perdenti d’America, illudendoli che lui, miliardario con il culto del profitto, sia il loro profeta. Ce n’erano a decine di migliaia assiepati sotto Capitol Hill e lungo il Mall fino al Washington Monument: neri, ispanici, donne, che lo hanno votato nonostante gli insulti e la minaccia del muro anti-immigrazione (che non è mai stata evocata).

È stato un discorso, come sempre i suoi, che partiva da presupposti totalmente falsi: descrive l’America lasciatagli in eredità da Barack Obama come un Paese in macerie che ha subito - letterale - “una carneficina”, una sorta di ‘Germania Anno Zero’ di Roberto Rossellini o di ‘The Day After’ d’un attacco atomico - il film si riferiva a una catastrofe ambientale, ma quella Trump non la contempla, semmai la facilita.

Bufale, nazionalismi e giacobinismi
È stato un discorso nazionalista e protezionista: America First, ‘comprate americano e assumete americano’. Questa l’abbiamo già sentita: è l’ennesima versione dell’autarchia italica, che non finisce mai bene, ma che dopo un po’ torna a piacere perché suona bene.

È stato un discorso senza concessioni alla cooperazione internazionale e alla solidarietà fra i popoli della Terra, come nessun presidente americano ha mai fatto, di sicuro da Roosevelt in poi - magari, qualcosa di simile erano i discorsi dei presidenti repubblicani degli Anni Venti, tra proibizionismo e charleston, che prepararono la crisi del ’29 e, senza né volerlo né rendersene conto, contribuirono ad avviare il Mondo verso la Seconda Guerra Mondiale.

Persino Bush jr, ‘rinato in Cristo’, voleva e vedeva l’America ‘compassionevole’ e ‘misericordiosa’, anche se poi invadeva Paesi a buffo e faceva torturare presunti terroristi.

È stato un discorso da Robespierre del XXI Secolo: sembrava di stare su una piazza insanguinata della Rivoluzione francese (e non solo perché l’ho seguito da Parigi).

Trump ha sommariamente processato in pubblico, sollecitando gli astanti e tutta la gente che lo seguiva alla tv a essere giurati, i presidenti suoi predecessori che sedevano dietro di lui e tutta la classe politica statunitense che assisteva al suo insediamento - tranne le decine di senatori e deputati che disertavano l’evento, non riconoscendone la legittimità o semplicemente non accettandone le scelte. Li ha accusati di fare solo chiacchiere, mentre adesso ‘è l’ora dei fatti’: d’ora in poi, voi, il popolo, decidete; ed io, Donald, faccio.

È stato il primo discorso del 45° presidente degli Stati Uniti. Che si è chiuso con l’inevitabile “Dio benedica l’America”. Ecco, su questo auspicio concordo: Dio, quale che egli sia, benedica l’America e l’aiuti, e ci aiuti, a superare i prossimi quattro anni senza guasti peggiori di una caterva di mediocri discorsi.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

USA. Le divisioni affiorano

L’America di Trump
Le donne in marcia al tempo di Donald
Arianna Farinelli
19/01/2017
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Il giorno dopo l’inaugurazione di Trump, centinaia di migliaia di persone prenderanno parte ad una marcia per i diritti delle donne in diverse città degli Stati Uniti, a cominciare da Washington.

Questa manifestazione che non ha come obiettivo immediato la protesta contro il nuovo presidente, ha lo scopo di tenere alta l’attenzione sui diritti delle donne e sui numerosi episodi di discriminazione che si sono verificati negli ultimi mesi.

Le donne marceranno per dire che sia i muri che i soffitti di cristallo si abbattono anzitutto con il dialogo e la solidarietà. “Non possiamo cambiare ciò che è stato ma possiamo e dobbiamo assicurarci che il futuro sarà diverso”, mi diceSheryl Olitzky, che tre anni fa ha fondato la Sisterhood of Salaam Shalom.

Questa organizzazione, che è unica nel suo genere e ha sedi sparse in tutto il paese, riunisce cinquemila donne americane di religione ebraica e musulmana. La loro missione è quella di favorire il dialogo interreligioso.

L’Alt-Right al potere
Subito dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, si sono verificati centinaia di episodi razzisti in tutto il paese. Alcune moschee sono state incendiate o attaccate con lanci di oggetti. Donne musulmane che indossavano il velo sono state aggredite sui mezzi pubblici. Sono comparse svastiche ed insulti antisemiti in molte città degli Stati Uniti.

Nelle scuole, gli studenti bianchi hanno gridato “Build the wall!” all’indirizzo dei loro compagni immigrati. Persino nel meltingpot di Manhattan può accadere che, se passeggi per strada parlando in italiano con i tuoi figli, un gruppo di ragazzi bianchi si senta libero di dirti di tornare nel tuo Paese (sono cittadina americana da molti anni).

Una delle prime decisioni prese da Trump dopo aver vinto le elezioni è stata quella di nominare Steve Bannon consigliere e capo stratega della Casa Bianca. Prima di diventare manager della campagna elettorale del magnate, lo scorso agosto, Bannon ha diretto Breitbart News, sito internet noto per le sue posizioni misogine, antisemite e islamofobiche. Lo stesso Bannon ha dichiarato la scorsa estate che Breitbart News è la voce della Destra Alternativa americana (nota anche come Alt-Right).

Dopo le elezioni, la Destra Alternativa si è riunita a Washington per festeggiare la vittoria di Trump. L’ideologo del movimento, Richard Spencer, ha incitato la folla dicendo che “l’America appartiene ai bianchi”. Alcuni dei presenti hanno risposto con il saluto nazista al grido “Hail Trump!”.

Gli appartenenti all’estrema destra americana sono in maggioranza giovani, bianchi e maschi, criticano il multiculturalismo e le politiche dell’immigrazione che hanno favorito le minoranze e gli stranieri rispetto a quelli che loro chiamano “i veri americani”.

Spencer coltiva il sogno di una “pulizia etnica pacifica” a seguito della quale i non-bianchi lasceranno definitivamente il Paese. Gli esponenti dell’Alt-Right sono grati a Trump per aver incentrato la sua campagna elettorale sulla questione dell’identità dei bianchi. Per loro “rendere l’America di nuovo grande” significa renderla di nuovo bianca.

Ebree e musulmane unite nella paura 
L’elezione di Trump suscita molta preoccupazione soprattutto tra le donne americane che appartengono alle minoranze etniche e religiose. Sheryl Olitzky, che è stata anche invitata alla Casa Bianca da Michelle Obama, crede che in questo tempo in cui l’islamofobia e l’antisemitismo sono tornati in auge e i valori della tolleranza e del rispetto sono messi in discussione, la missione della sua sorellanza sia diventata ancora più importante.

Come dice Sheryl, “Se impari a conoscere chi è diverso da te, è difficile che tu possa odiarlo. Se poi impari ad amarlo, odiare diventa praticamente impossibile.” Queste donne sono determinate ad aiutarsi a vicenda.“Molte donne ebree che appartengono a questa organizzazione hanno giurato che se le loro sorelle musulmane dovessero essere registrate, come promesso da Trump in campagna elettorale, allora anche loro si faranno schedare”.

Lo spirito è alto, così come la voglia di fare, ma nell’incertezza del futuro che le attende dopo l’inaugurazione di Trump, alcune di loro hanno già aperto un conto in banca in Israele o progettano di comprare casa in Canada.

Orientamento politico e appartenenza di genere
Alle elezioni dello scorso novembre, il 42% delle donne americane (e il 53% di quelle bianche) ha votato per Donald Trump. Evidentemente, la campagna di Hillary Clinton - che pure aveva insistito molto sul ruolo delle donne e sull’uguaglianza di genere - non è riuscita ad unire l’elettorato femminile.

Al contrario, le dichiarazioni sessiste e misogine di Trump non hanno impedito a molte donne di votare per il candidato repubblicano. Storicamente, l’orientamento politico dell’elettorato femminile ha sempre prevalso sull’appartenenza di genere. Ed anche in questa elezione in cui per la prima volta una donna era candidata, le donne non si sono unite in nome della solidarietà femminile ma hanno votato prima di tutto per il partito.

Gli episodi razzisti di questi mesi però hanno convinto molte donne ad unire le forze e a far sentire la propria voce.

Arianna Farinelli, City University of New York.

mercoledì 25 gennaio 2017

USA. La Transizione Due

Usa, transizione
Obama lascia, Trump ci manda un tweet
Giampiero Gramaglia
15/01/2017
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Gli americani devono ancora scoprire che cosa significa una cerimonia d’insediamento “a sensualità soft”, come l’ha sibillinamente promessa Tom Barrack, il responsabile dell’organizzazione dell’evento.

Ma hanno già scoperto che cos’è una transizione “accidentata”, che ti mette a disagio come un viaggio aereo quando ci sono turbolenze, senz’altro la meno liscia del dopoguerra. E anche se il presidente uscente Barack Obama ritrova la calma e lo stile nelle ultime battute, una settimana di proteste precede l’Inauguration Day, venerdì 20 gennaio, sul Campidoglio di Washington.

Nel suo ultimo video-discorso del sabato mattina, Obama esorta gli americani a essere “guardiani” della loro democrazia: “Non possiamo darla per scontata”. C’è, nel messaggio, un’eco del discorso di commiato fatto martedì a Chicago: “Yes we can” e “Yes we did”, ma non tutto, non abbastanza. Il giorno che Obama venne eletto la prima volta, fu un’alba radiosa di speranza per tutto il Mondo. Adesso che se ne va, è una notte d’angoscia e di incubi, non solo perché gli succede Trump.

Al doppio mandato del presidente uscente, un 8 pieno non glielo dà nessuno degli esperti che fanno le pagelle sulle tv americane: qualcuno glielo riconosce per l’impegno, il carisma e, magari, l’impatto simbolico del primo nero alla presidenza degli Stati Uniti.

Ma quando si tratta di giudicare i risultati conseguiti, i più generosi si fermano a un 7+ standard, qualcuno non va oltre il 6-. Perché Obama non ha mantenuto tutto quello che faceva sperare: è stato migliore come candidato che come comandante-in-capo.

Una settimana di manifestazioni (e di tweet)
C’è un’America che raccoglie la raccomandazione del presidente: un fiume di persone confluisce sul Mall di Washington a una manifestazione indetta in occasione del Martin Luther King Day e organizzata dal National Action Network del reverendo Al Sharpton.

Anche perché fa freddo e c’è la neve, il colpo d’occhio non è quello che aveva di fronte il reverendo King quando, sulla gradinata del Lincoln Memorial, fece il discorso del Sogno: un milione di persone fino e oltre il Washington Monument. Ma il segnale è chiaro e duplice: la gente è lì per tutelare il sogno di MLK e l'eredità d’Obama.

In polemica con l’insediamento di Trump, è anche stata la Marcia delle Donne, con in prima linea star dello spettacolo, Scarlett Johansson, Cher, Julianne Moore, Katy Perry, Amy Schumer e altre. Meryl Streep ha fatto il suo, brandendo il Golden Globe appena ricevuto contro il presidente eletto.

Intanto, Obama distribuisce onorificenze al merito liberal: premia il vice-presidente Joe Biden, cui Trump fa perdere le staffe (“Diventa adulto!, una buona volta”), dopo avere attribuito Medaglie della Libertà a Bruce Sprigsteen e a una serie di stelle progressiste dello show-bizz americano. Che lo ricambiano: c’era la fila il 7 gennaio, per andare alla festa d’addio degli Obama; e ora c’è la corsa per sottrarsi alla cerimonia d’insediamento il 20 gennaio.

Il presidente eletto reagisce a colpi di tweet: l’America e il Mondo ci hanno ormai fatto l’abitudine, la sua sarà una presidenza a misura di Twitter. La comunicazione della Casa Bianca sarà costruita sulle dinamiche del suo social preferito, dov’è più efficace una battuta che un pensiero.

Con il tatto che lo caratterizza, Trump non trova di meglio che attaccare - con la parola che per lui è un insulto fra i peggiori, “triste” - un eroe americano, il deputato nero John Lewis, un superstite della marcia di Selma nel 1965. Lewis, come altri parlamentari, boicotterà le cerimonie di venerdì, perché considera “illegittima” l’elezione avvenuta l’8 Novembre, causa ingerenze esterne.

Le frontiere dell’Unione già calde
Il clima politico dell’Inauguration Day sarà caldo, come lo è stato quello della transizione: l’avvio d’una commissione d'inchiesta sugli hackeraggi russi sulle elezioni presidenziali e varie ipotesi mediatiche anti-Trump tutte fantasiose - impeachment, tradimento, etc.

L’indagine del Senato sugli hacker s’intreccia con le inchieste di stampa sull’attendibilità, o meno, di un dossier che presta a Trump comportamenti disdicevoli, sessuali e d’affari. E l’Fbi ha pure avviato un’inchiesta interna sul comportamento in campagna elettorale del direttore James B. Comey, che potrebbe avere deliberatamente agito per danneggiare Hillary Clinton.

Le ultime decisioni dell’Amministrazione Obama, nei confronti di Israele e contro la Russia, sono trappole sugli esordi del magnate alla Casa Bianca (ma danno pure a Trump l’opportunità di fare vedere che la musica è cambiata).

Ma anche l’attualità internazionale dissemina di mine il terreno: l’inasprimento della guerra in Afghanistan non consente di progettare un rapido disimpegno, come sarebbe forse piaciuto fare; e lo schieramento di truppe della Nato in Polonia, con 4mila carri armati Usa, uno sforzo inaudito dal crollo del comunismo in Europa, crea una situazione imbarazzante (se ce li lasci, deludi la Russia; se li togli, deludi - e spaventi - la Polonia e i Baltici).

Il presidente eletto, in dichiarazioni attribuitegli ed in un’intervista al WSJ, si dice pronto a cassare le sanzioni alla Russia (e il WP rivela che il presidente russo Vlaidmir Putin l’ha invitato a fare sedere gli Stati Uniti al tavolo dei negoziati sulla Siria in Kazakhstan) e rifiuta di prendere impegni sul rispetto della tradizionale linea Usa di ‘una sola Cina’.

Trump colleziona critiche internazionali: il premier canadese Justin Trudeau contesta le sue priorità; il presidente palestinese Abu Mazen da Roma e il presidente francese François Hollande deprecano il progettato trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme; la cancelliera tedesca Angela Merkel auspica un approccio multilaterale Ue/Usa, mentre Trump vorrebbe trattare da Stato a Stato; e il presidente messicano Enrique Pena Nieto ripete che il muro lungo il confine lui non lo pagherà.

I ministri in dissenso con il presidente: gioco delle parti?
A stemperare gli allarmi, ma pure a suscitare interrogativi, c’è il fatto che, nelle audizioni in Senato, i futuri ministri designati da Trump sono più cauti del loro boss e tendono a collocarsi in una linea di continuità con l’Amministrazione uscente. In particolare il segretario di Stato in pectore Rex W. Tillerson è misurato su rapporti con la Russia e cambiamento climatico. E il segretario alla Difesa, il generale James N. Mattis, avalla l’intesa sul nucleare con l’Iran.

Altri punti di contrasto tra le affermazioni di Trump e le audizioni dei suoi ministri sono il ripristino della tortura contro i terroristi, la messa al bando dei musulmani, l’erezione di un muro al confine con il Messico.

L’uomo scelto per guidare la Cia, Mike Pompeo, assicura che l’Agenzia indagherà sugli hacker russi e sui possibili legami con la squadra di Trump. Continuano a suscitare perplessità l’affidamento delle aziende di famiglia ai figli del magnate e non a un ‘blind trust’ e la designazione del genero Jared Kushner, uomo d’affari ebreo, marito di Ivanka, a consigliere per il Medio Oriente.

I repubblicani in Congresso bruciano le tappe nello smantellare l’eredità di Obama: hanno già messo mano allo sventramento dell’Obamacare, la riforma sanitaria. E Trump distribuisce, ovviamente via Twitter, elogi e rimbrotti all’industria dell’auto a seconda che s’adegui - la Ford - o meno - la GM - alla sua direttiva principe, produrre negli Usa.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

lunedì 16 gennaio 2017

USA. La transizione


Usa, transizione
Obama lascia, Trump ci manda un tweet
Giampiero Gramaglia
15/01/2017
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Gli americani devono ancora scoprire che cosa significa una cerimonia d’insediamento “a sensualità soft”, come l’ha sibillinamente promessa Tom Barrack, il responsabile dell’organizzazione dell’evento.

Ma hanno già scoperto che cos’è una transizione “accidentata”, che ti mette a disagio come un viaggio aereo quando ci sono turbolenze, senz’altro la meno liscia del dopoguerra. E anche se il presidente uscente Barack Obama ritrova la calma e lo stile nelle ultime battute, una settimana di proteste precede l’Inauguration Day, venerdì 20 gennaio, sul Campidoglio di Washington.

Nel suo ultimo video-discorso del sabato mattina, Obama esorta gli americani a essere “guardiani” della loro democrazia: “Non possiamo darla per scontata”. C’è, nel messaggio, un’eco del discorso di commiato fatto martedì a Chicago: “Yes we can” e “Yes we did”, ma non tutto, non abbastanza. Il giorno che Obama venne eletto la prima volta, fu un’alba radiosa di speranza per tutto il Mondo. Adesso che se ne va, è una notte d’angoscia e di incubi, non solo perché gli succede Trump.

Al doppio mandato del presidente uscente, un 8 pieno non glielo dà nessuno degli esperti che fanno le pagelle sulle tv americane: qualcuno glielo riconosce per l’impegno, il carisma e, magari, l’impatto simbolico del primo nero alla presidenza degli Stati Uniti.

Ma quando si tratta di giudicare i risultati conseguiti, i più generosi si fermano a un 7+ standard, qualcuno non va oltre il 6-. Perché Obama non ha mantenuto tutto quello che faceva sperare: è stato migliore come candidato che come comandante-in-capo.

Una settimana di manifestazioni (e di tweet)
C’è un’America che raccoglie la raccomandazione del presidente: un fiume di persone confluisce sul Mall di Washington a una manifestazione indetta in occasione del Martin Luther King Day e organizzata dal National Action Network del reverendo Al Sharpton.

Anche perché fa freddo e c’è la neve, il colpo d’occhio non è quello che aveva di fronte il reverendo King quando, sulla gradinata del Lincoln Memorial, fece il discorso del Sogno: un milione di persone fino e oltre il Washington Monument. Ma il segnale è chiaro e duplice: la gente è lì per tutelare il sogno di MLK e l'eredità d’Obama.

In polemica con l’insediamento di Trump, è anche stata la Marcia delle Donne, con in prima linea star dello spettacolo, Scarlett Johansson, Cher, Julianne Moore, Katy Perry, Amy Schumer e altre. Meryl Streep ha fatto il suo, brandendo il Golden Globe appena ricevuto contro il presidente eletto.

Intanto, Obama distribuisce onorificenze al merito liberal: premia il vice-presidente Joe Biden, cui Trump fa perdere le staffe (“Diventa adulto!, una buona volta”), dopo avere attribuito Medaglie della Libertà a Bruce Sprigsteen e a una serie di stelle progressiste dello show-bizz americano. Che lo ricambiano: c’era la fila il 7 gennaio, per andare alla festa d’addio degli Obama; e ora c’è la corsa per sottrarsi alla cerimonia d’insediamento il 20 gennaio.

Il presidente eletto reagisce a colpi di tweet: l’America e il Mondo ci hanno ormai fatto l’abitudine, la sua sarà una presidenza a misura di Twitter. La comunicazione della Casa Bianca sarà costruita sulle dinamiche del suo social preferito, dov’è più efficace una battuta che un pensiero.

Con il tatto che lo caratterizza, Trump non trova di meglio che attaccare - con la parola che per lui è un insulto fra i peggiori, “triste” - un eroe americano, il deputato nero John Lewis, un superstite della marcia di Selma nel 1965. Lewis, come altri parlamentari, boicotterà le cerimonie di venerdì, perché considera “illegittima” l’elezione avvenuta l’8 Novembre, causa ingerenze esterne.

Le frontiere dell’Unione già calde
Il clima politico dell’Inauguration Day sarà caldo, come lo è stato quello della transizione: l’avvio d’una commissione d'inchiesta sugli hackeraggi russi sulle elezioni presidenziali e varie ipotesi mediatiche anti-Trump tutte fantasiose - impeachment, tradimento, etc.

L’indagine del Senato sugli hacker s’intreccia con le inchieste di stampa sull’attendibilità, o meno, di un dossier che presta a Trump comportamenti disdicevoli, sessuali e d’affari. E l’Fbi ha pure avviato un’inchiesta interna sul comportamento in campagna elettorale del direttore James B. Comey, che potrebbe avere deliberatamente agito per danneggiare Hillary Clinton.

Le ultime decisioni dell’Amministrazione Obama, nei confronti di Israele e contro la Russia, sono trappole sugli esordi del magnate alla Casa Bianca (ma danno pure a Trump l’opportunità di fare vedere che la musica è cambiata).

Ma anche l’attualità internazionale dissemina di mine il terreno: l’inasprimento della guerra in Afghanistan non consente di progettare un rapido disimpegno, come sarebbe forse piaciuto fare; e lo schieramento di truppe della Nato in Polonia, con 4mila carri armati Usa, uno sforzo inaudito dal crollo del comunismo in Europa, crea una situazione imbarazzante (se ce li lasci, deludi la Russia; se li togli, deludi - e spaventi - la Polonia e i Baltici).

Il presidente eletto, in dichiarazioni attribuitegli ed in un’intervista al WSJ, si dice pronto a cassare le sanzioni alla Russia (e il WP rivela che il presidente russo Vlaidmir Putin l’ha invitato a fare sedere gli Stati Uniti al tavolo dei negoziati sulla Siria in Kazakhstan) e rifiuta di prendere impegni sul rispetto della tradizionale linea Usa di ‘una sola Cina’.

Trump colleziona critiche internazionali: il premier canadese Justin Trudeau contesta le sue priorità; il presidente palestinese Abu Mazen da Roma e il presidente francese François Hollande deprecano il progettato trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme; la cancelliera tedesca Angela Merkel auspica un approccio multilaterale Ue/Usa, mentre Trump vorrebbe trattare da Stato a Stato; e il presidente messicano Enrique Pena Nieto ripete che il muro lungo il confine lui non lo pagherà.

I ministri in dissenso con il presidente: gioco delle parti?
A stemperare gli allarmi, ma pure a suscitare interrogativi, c’è il fatto che, nelle audizioni in Senato, i futuri ministri designati da Trump sono più cauti del loro boss e tendono a collocarsi in una linea di continuità con l’Amministrazione uscente. In particolare il segretario di Stato in pectore Rex W. Tillerson è misurato su rapporti con la Russia e cambiamento climatico. E il segretario alla Difesa, il generale James N. Mattis, avalla l’intesa sul nucleare con l’Iran.

Altri punti di contrasto tra le affermazioni di Trump e le audizioni dei suoi ministri sono il ripristino della tortura contro i terroristi, la messa al bando dei musulmani, l’erezione di un muro al confine con il Messico.

L’uomo scelto per guidare la Cia, Mike Pompeo, assicura che l’Agenzia indagherà sugli hacker russi e sui possibili legami con la squadra di Trump. Continuano a suscitare perplessità l’affidamento delle aziende di famiglia ai figli del magnate e non a un ‘blind trust’ e la designazione del genero Jared Kushner, uomo d’affari ebreo, marito di Ivanka, a consigliere per il Medio Oriente.

I repubblicani in Congresso bruciano le tappe nello smantellare l’eredità di Obama: hanno già messo mano allo sventramento dell’Obamacare, la riforma sanitaria. E Trump distribuisce, ovviamente via Twitter, elogi e rimbrotti all’industria dell’auto a seconda che s’adegui - la Ford - o meno - la GM - alla sua direttiva principe, produrre negli Usa.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.