Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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mercoledì 28 gennaio 2015

Colombia: intralci sulla via del negoziato

La Colombia e le Farc: negoziati sospesi a causa del rapimento di un generale.

Giulia dal Fiume

I negoziati di pace avviati faticosamente nel 2012 tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, meglio conosciute come Farc, sono a rischio a causa del sequestro di un alto ufficiale dell’esercito, il generale Rubén Dario Alzate. Quest’ultimo è stato rapito ieri mentre visitava Las Mercedes, un villaggio a pochi chilometri da Quibdo, capoluogo della regione occidentale del Choco. Pare che insieme al generale siano stati sequestrati anche un altro militare e un consulente dell’esercito.
Il problema con le forze rivoluzionarie attanaglia lo stato colombiano da ormai una cinquantina d’anni; i primi segnali di distensione si sono avuti nell’ottobre 2012 quando, per la prima volta da dieci anni, vi è stato un incontro diretto tra esponenti del governo e del movimento rivoluzionario in Norvegia. Da allora non ci sono stati grossi passi avanti nelle trattative, ma nemmeno passi indietro, fino ad oggi. Il presidente Juan Manuel Santos, dopo una riunione con gli alti vertici militari di Bogotà, ha infatti annunciato la sospensione delle trattative che si tengono a Cuba. Le autorità ritengono quindi responsabili le Farc dell’accaduto, nonostante nella regione in cui è avvenuto il fatto operino anche altre varie bande criminali, tra cui l’Esercito di Liberazione Nazionale.
Nonostante il generale Alzate avesse “rotto tutti i protocolli di sicurezza, trovandosi in abiti civili in una zona rossa”, come afferma in un tweet il presidente Santos, non si riprenderanno i negoziati fino alla liberazione degli ostaggi. Inoltre, il sequestro è avvenuto poco dopo la cattura di altri due soldati durante i combattimenti nel nord del paese sempre ad opera del movimento rivoluzionario; sono stati dichiarati prigionieri di guerra ma le Farc si sono dichiarate pronte per trattarne la liberazione.


venerdì 23 gennaio 2015

ISAG: incontro sul VENEZUELa. Mercoledi 4 febbraio 2015



l'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) è lieto d'invitarvi alla conferenza La situazione attuale in Venezuela: "potere popolare in azione", che si svolgerà mercoledì 4 febbraio 2015, dalle ore 18, presso la sede di Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali) in Viale Regina Margherita 286, Roma.
La locandina col programma completo è disponibile cliccando qui.

 il convegno è organizzato dall'Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela presso la Repubblica Italiana in collaborazione con IsAG.
  
Interverranno come relatori: S.E. Julian Isaias Rodriguez Diaz (Ambasciatore del Venezuela in Italia), Daniele Scalea (Direttore Generale dell’IsAG), Luciano Vasapollo (Delegato del Rettore dell’Università Sapienza per le relazioni internazionali con i paesi dell’ALBA), Giulietto Chiesa (fondatore di “PandoraTV”), Fulvio Grimaldi (giornalista e documentarista).
  
L'incontro è pubblico con iscrizione obbligatoria rispondendo alla presente o scrivendo all'indirizzoeventi@istitutoisag.it. Indicare nome e cognome di ciascun partecipante. Le domande saranno accettate fino ad esaurimento dei posti a sedere.
  
Distinti saluti,
Tiberio Graziani, Presidente
Daniele Scalea, Direttore Generale

lunedì 19 gennaio 2015

Stati Uniti: se la Corea del nord dichiara la guerra informatica

Cyber war
The Interview, quando la guerra diventa informatica
Marco Roscini
14/01/2015
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Un gruppo di hackers, i ‘Guardiani della pace’ (Gop), penetra nei sistemi informatici della Sony Pictures Entertainment, una divisione statunitense della giapponese Sony, e causa la perdita di dati e la pubblicazione sul web di informazioni personali.

È successo alla fine dello scorso novembre e i motivi dell’attacco sarebbero riconducibili alla produzione, da parte della Sony,di ‘The Interview’ il film che racconta di un piano della Cia per uccidere l’attuale leader della Corea del Nord, Kim Jong-un.

A causa degli attacchi e delle minacce ricevute, la casa cinematografica ha ritirato dal mercato la pellicola, per poi tornare sui propri passi: il film è stato proiettato nel periodo natalizio in numerosi cinema statunitensi ed è stato reso disponibile su alcune piattaforme online.

I guardiani della pace di Pyongyang
Chi è responsabile per gli attacchi alla Sony? Secondo la versione fornita almeno inizialmente dall’Fbi, la Corea del Nord. Lasciando da parte il problema delle prove, le norme che determinano l’attribuzione della condotta di individui a uno stato sono contenute negli Articoli sulla Responsabilità degli Stati per atti illeciti adottati dalla Commissione del diritto internazionale (Cdi) delle Nazioni Unite nel 2001.

Se fosse dimostrato che i Gop non sono altri che la famigerata Unità 121, un corpo speciale di hackers inquadrati nel General Bureau of Reconnaissance delle forze armate di Pyongyang, si tratterebbe di organi dello stato le cui azioni sono attribuibili alla Corea del Nord in base all’articolo 4 degli Articoli della Cdi.

Se i Gop non fossero organi statali, la Corea del Nord sarebbe ugualmente responsabile qualora essi fossero abilitati ad esercitare prerogative di governo ed avessero agito in tale qualità (articolo 5 degli articoli della Cdi) O avessero agito sotto la direzione e il controllo delle autorità nordcoreane , ricevendone istruzioni specifiche al fine di condurre gli attacchi informatici contro la Sony (articolo 8).

Un’altra possibilità è che la Corea del Nord approvi pubblicamente le azioni dei pirati informatici e le assuma come proprie: in questo caso, similmente a quanto avvenne con l’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran da parte di studenti iraniani nel 1979, il comportamento di individui diverrebbe attribuibile allo stato che lo approva e lo fa suo (articolo 11 degli Articoli della Cdi).

Al di fuori dei casi sopra menzionati, gli attacchi rimarrebbero attribuibili soltanto ad attori non statali e come tali sarebbero inquadrabili più nell’ottica del crimine informatico che in quella della ‘cyber guerra’.

Se la Corea del Nord viola la sovranità Usa
Usando una qualificazione fuori luogo, la Corea del Nord ha definito ‘The Interview’ un ‘atto di guerra’. C’è da chiedersi se gli attacchi informatici in questione non siano invece tali.

L’uso della forza armata nelle relazioni tra stati è proibito dall’articolo 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite. C’è accordo nel ritenere equivalenti a un uso della forza armata tradizionale quelle operazioni informatiche che causano, o intendono causare, danni materiali a persone o cose.

A queste possono probabilmente aggiungersi quelle operazioni informatiche che incapacitano in maniera significativa, per severità e durata, il normale funzionamento di infrastrutture critiche, interrompendo i servizi da esse forniti.

Non sembra che questo sia il caso dell’attacco alla Sony. Per quanto dati e informazioni siano andati persi o siano divenuti pubblici, nessun danno materiale si è prodotto né servizi essenziali sono stati interrotti in maniera significativa negli Stati Uniti o altrove.

Se gli attacchi contro la Sony non sono equiparabili a un uso della forza, a maggior ragione non possono qualificarsi come ‘attacco armato’ ai sensi dell’articolo 51 della Carta Onu.

Se fossero davvero imputabili alla Corea del Nord, gli attacchi alla Sony potrebbero piuttosto costituire una violazione della sovranità degli Stati Uniti consistente nella penetrazione non autorizzata nelle infrastrutture informatiche (governative o non) ivi localizzate e, ove fosse dimostrato un intento coercitivo sugli Stati Uniti, anche un intervento negli affari interni di questi ultimi, proibito come tale dal diritto internazionale.

Ritorsioni e contromisure Usa contro la Corea del Nord
Il presidente statunitense Barack Obama ha dichiarato che il suo paese reagirà “in maniera proporzionata” agli attacchi.

Gli Stati Uniti potrebbero cercare di assicurare alla giustizia Usa gli individui responsabili per gli attacchi contro la Sony. A tale proposito, si può ricordare il precedente del procedimento, iniziato dal Dipartimento di Giustizia statunitense nel maggio 2014, nei confronti di cinque militari cinesi presunti responsabili di spionaggio informatico contro compagnie statunitensi.

Come dimostra proprio quel caso, le possibilità di ottenere la collaborazione delle autorità straniere coinvolte sono più teoriche che reali.

Gli Usa potrebbero poi adottare ritorsioni e contromisure non militari contro la Corea del Nord (assumendo che questa sia davvero responsabile per gli attacchi).

Le prime sono semplicemente atti non amichevoli, ma leciti e potrebbero consistere, ad esempio, nel bloccare l’accesso a siti statunitensi da indirizzi Ip nordcoreani. Le seconde consistono in violazioni di obblighi internazionali nei confronti di uno stato, che perdono il loro carattere illecito in quanto costituiscono una risposta all’illecito altrui.

Oltre che adottare contromisure economiche (nei primi giorni del 2015 Obama ha in effetti annunciato un inasprimento delle sanzioni contro la Corea del Nord), gli Stati Uniti potrebbero lanciare contrattacchi informatici contro obiettivi nordcoreani, a condizione che essi non equivalgano a un uso della forza armata, cioè non causino danni materiali a persone o cose o non incapacitino in maniera significativa servizi essenziali di quel paese.

Le contromisure devono peraltro essere proporzionali al pregiudizio sofferto e hanno limiti stringenti: non possono avere carattere punitivo, occorre darne previa notifica allo stato che ne è oggetto e non possono consistere nella violazione di certi obblighi fondamentali, come quelli sui diritti umani.

Il problema è che la valutazione della proporzionalità di un cyber attacco è sempre difficoltosa a causa dell’alto rischio della propagazione incontrollata del malware.

Marco Roscini (Twitter: @marcoroscini) è Professore di Diritto internazionale all’Università di Westminster di Londra ed autore di Cyber Operations and the Use of Force in International Law (Oxford University Press, 2014).
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mercoledì 14 gennaio 2015

Stati Uniti: Elezioni Presidenziali del 2016

Usa 2016
Obama, l’anatra zoppa che spiazza i repubblicani
Giampiero Gramaglia
03/01/2015
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Per i repubblicani statunitensi, sembrava spianata la via della Casa Bianca dopo la larga vittoria del 4 novembre nelle elezioni di Mid-term.

Invece, dentro il partito s’è già scatenata la corsa alla candidatura, che accentua divisioni e rivalità, soprattutto in assenza d’un ‘campione’ forte e riconosciuto: una decina almeno i pretendenti alla ‘nomination’, nessuno dei quali ha per il momento una visibilità nazionale.

I democratici, invece, sono più compatti e partono da meno lontano: due, massimo tre, i contendenti già emersi, profili forti e solida notorietà, l’immarcescibile Hillary Clinton, lo stagionato Joe Biden, la grintosa Elizabeth Warren.

Poi, c’è il fattore Obama, un fattore a sorpresa. Dopo il voto di Mid-term, il presidente era divenuto un’ameba politica, condannato a fare l’ ‘anatra zoppa’ nell’ultimo biennio alla Casa Bianca. Pareva persino fosse perseguitato da una ‘legge di Murphy’ applicata alla sua Amministrazione sui fronti della politica interna degli Stati Uniti.

Invece, a dicembre Barack Obama ha preso l’iniziativa, deciso a dettare lui l’agenda al Congresso che s’insedierà a gennaio, con maggioranza repubblicana sia alla Camera che al Senato.

Obama, da ameba politica ad asso pigliatutto
Il presidente pareva ko, ma covava la metamorfosi. Prima, ha lanciato la riforma dell’immigrazione, con l’equivalente Usa d’un decreto legge, costringendo il Congresso, riluttante, ad occuparsene; poi, ha abbattuto il muro diplomatico delle relazioni con Cuba, passando al Congresso la patata bollente della fine dell’embargo.

L’opposizione repubblicana fa la voce grossa, ma su entrambi i fronti avrà problemi grossi a fare deragliare le iniziative presidenziali.

Obama accetta un compromesso sul bilancio che rinvia il rischio di uno ‘shutdown’ dell’apparato pubblico federale; colora in rosa l’economia americana 2015/’16 (“La rinascita è una realtà); gioca in chiave anti-repubblicana il rapporto del Senato sulle torture della Cia nella lotta al terrorismo; bacchetta sia la Sony che la Corea del Nord nella vicenda del film censurato dopo attacchi hacker; soprattutto, decide il disgelo delle relazioni con Cuba, dopo oltre 50 anni; e, da ultimo, ribadisce che farà il possibile per realizzare una delle sue prime promesse elettorali, chiudere Guantanamo, dove restano 132 detenuti ‘nemici combattenti’.

Insomma, il presidente ha di nuovo l’iniziativa; e ‘Natale alle Hawaii’ non diventa un cine-panettone per seppellirlo di risate.

Cuba, un assist ai repubblicani di Florida
La ripresa delle relazioni con Cuba è, in proiezione delle elezioni presidenziali del 2016, un assist fornito ad alcuni potenziali candidati repubblicani, in particolare a quelli che vengono dalla Florida, lo Stato degli esuli cubani anti-castristi, Jeb Bush e Marco Rubio.

Figlio di presidente e fratello di presidente, Jeb ha subito fatto sapere che si opporrà alla svolta nelle relazioni tra Washington e l’Avana. E il senatore Rubio giudica l'accordo tra Obama e Raul Castro "inspiegabile" e dice che cambierà idea solo quando Cuba diventerà una democrazia.

"Userò ogni strumento a nostra disposizione", dice Rubio, pronto a ostacolare il finanziamento della futura ambasciata all'Avana e d’impedire la nomina dell'ambasciatore.

Nella corsa alla nomination, Rubio, di origini cubane e presto a capo della sottocommissione Esteri per l'Emisfero occidentale, è più indietro di Bush, ex governatore della Florida e moglie ispanica, che ha recentemente ammesso di riflettere alla candidatura per Usa 2016.

I segnali non mancavano. La resistenza della famiglia - scriveva la stampa Usa - si sarebbe allentata, i suoi consiglieri stanno assumendo nuovi collaboratori e – soprattutto - lui si è dimesso da tutti gli incarichi che ricopriva e ha perso nuotando sette chili in pochi mesi, perché la sua silhouette non ispirava dinamismo presidenziale.

Ma permangono incognite politiche: l’ultimo dei Bush si chiede se possa conquistare la nomination senza fare –troppe- concessioni all’ala più conservatrice del suo partito e restando il più possibile fedele alla sua linea, centrista e, quindi, potenzialmente capace di catturare l’elettorato moderato e indeciso. Jeb è, ad esempio, aperto al compromesso sulla riforma dell’immigrazione.

Identikit dei candidati Usa 2016
Nel tracciare l’identikit dei candidati alla nomination, bisogna proprio partire dalla loro capacità d’occupare il centro, tenendo al contempo unito e mobilitato il loro partito. Per i repubblicani è più difficile, perché loro sono una galassia di componenti, dove populismo del Tea Party e fondamentalismo degli evangelici hanno una forte capacità di mobilitazione, ma anche d’alienazione - dell’elettorato moderato.

Un altro fattore è che gli Stati Uniti si sono stancati d’un comandante in capo che tentenna più di quanto non decida. Nonostante la metamorfosi d’Obama, i democratici prenderanno sempre più le distanze dalla Casa Bianca nella corsa 2016.

I candidati potrebbero avere nomi antichi, se dovessero essere, com’è possibile, Hillary Rodham Clinton, ex first lady, ex senatrice dello Stato di New York, ex segretario di Stato, ma soprattutto candidata alla nomination democratica battuta nel 2008 da Obama; e appunto Jeb Bush, il ‘cocco di famiglia’ destinato alla Casa Bianca da papà George, ma che nel 2000 si fece bruciare dal fratellone su cui nessuno in casa scommetteva un cent.

Bush e Rubio a parte, i repubblicani sono alla ricerca d’un leader: l’usato - più o meno - sicuro conservatore se ne sta per ora al coperto.

Chris Christie, governatore del New Jersey, Ted Cruz, senatore del Texas, Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, Sarah Palin, candidata vice-presidente 2008, Rick Perry, ex governatore del Texas, Mitt Romney, candidato presidente 2012, Paul Ryan, candidato vice-presidente 2012, Rick Santorum, ex senatore della Pennsylvania, giocano a nascondino e hanno tutti scheletri nell’armadio.

Si espone di più, confermando che negli Usa la politica è anche un affare di famiglia, ‘Rand’ Paul, senatore del Kentucky, un ‘conservatore costituzionale’, figlio del deputato repubblicano del Texas Ron Paul, un libertario che nel 2012 fu l’ultimo ad arrendersi alla nomination di Romney.

Nei prossimi mesi fioccheranno nomi nuovi. Ai repubblicani, manca una donna credibile. Dubito che possa esserlo Shelley Moore Capito, neo-senatrice della West Virginia, un colonnello che, quand’era ragazza, scuoiava il maiale.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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Stati Uniti. eppure la Germania nazista con il terrore e le torture non ottenne nulla

Cia
Non voltiamo pagina sulle torture 
Antonio Armellini
18/12/2014
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Anche se il rapporto del Senato Usa sostiene che le torture sono irrilevanti per acquisire prove o aumentare la collaborazione dei detenuti, la Cia è convinta che questi metodi siano stati strumenti utili, per esempio per arrivare alla cattura di Osama Bin Laden.

Insomma: chi ricorre alla tortura riesce a catturare terroristi altrimenti imprendibili, come Osama bin Laden. Ma chi lo fa scende allo stesso livello di degrado morale dei terroristi che sta torturando e va contro l’essenza stessa dei principi etici che vuole difendere.

Non è una contraddizione nuova: zone grigie nelle guerre “sporche” come quella al terrorismo internazionale ce ne sono sempre state ed erano davvero in pochi a credere che a Guantanamo o nei carceri clandestini dove finivano le vittime delle renditions, vigessero le regole dello stato di diritto.

Un conto tuttavia è immaginarlo, sospettarlo, saperlo senza saperlo: un altro è vedersi porre dinanzi una realtà inaccettabile illustrata in molti, anche se non in tutti i suoi dettagli.

Fare pulizia nella Cia
L’opinione pubblica statunitense ha reagito con un’indignazione collettiva che è stata a un tempo doverosa e sentita: posta ancora una volta dinanzi al problema di come una società aperta debba affrontare una minaccia che si collochi al difuori di qualsiasi regola riconosciuta, ha dimostrato di saper anteporre la salvaguardia della propria natura democratica alle esigenze meno confessabili della realpolitk.

O perlomeno lo ha fatto quella parte dell’opinione pubblica che si riconosce nei valori liberali e vota perlopiù democratico. E che in questa occasione - e su questo terreno - si è dimostrata essere maggioritaria.

Per l’amministrazione di Barack Obama la pubblicazione è stata l’occasione per fare una buona pulizia nella Cia - nei confronti della quale i rapporti non sono stati sempre idilliaci - e per regolare qualche conto: i fatti contestati risalgono per la gran parte al periodo dell’amministrazione Bush-Cheney.

Che tutto ciò basti ad assolvere Obama da vere responsabilità in materia è tutt’altro che certo: le operazioni clandestine sono continuate sino a poco tempo fa e non è molto credibile per il presidente cavarsela sostenendo che non sapeva, non era stato informato e non poteva immaginare.

Oltretutto una linea del genere dà fiato alle trombe repubblicane sulla inanità della sua presidenza, attenta all’immagine e al bling-bling, ma colpevolmente distratta sulla sicurezza, anche quando c’era da sporcarsi le mani.

Cheney rifarebbe tutto
George W. Bush è rimasto silenzioso, ma l’allora vicepresidente Dick Cheney non ha perso tempo nel farsi sentire, dichiarando alla televisione Nbc che “lo avrebbe rifatto senza esitazioni” di fronte a un pericolo paragonabile, aggiungendo di ritenere degli eroi gli agenti segreti implicati.

Egli sa bene che, rapporto Cia o non rapporto Cia, la maggioranza dell’opinione pubblica Usa sostiene senza riserve la lotta al terrorismo, percepita come una minaccia inafferrabile perché incomprensibile alla luce del sistema di regole della società statunitense.

C’è una linea sottile che separa l’indignazione per gli eccessi e la crudeltà dei waterboarding, delle “idratazioni rettali” e delle altre pratiche e l’accettazione - che spesso si straforma in appoggio esplicito - per le finalità ultime che esse perseguivano.

Sarebbe ingeneroso affermare che il discrimine è dato dalla quantità delle azioni e non dalla loro qualità, perché in molti casi la protesta è nata da un sentimento morale autentico.

Ma potrebbe fornire una chiave di lettura delle reazioni che sono arrivate a pioggia dal mondo, a opera di governi che - aldilà dei toni di ferma condanna - con le pratiche in questione hanno una confidenza decisamente maggiore.

Anti-americanismo 
Nel tentativo di recuperare per questa via un consenso interno, Obama ha dimostrato ancora una volta scarsa attenzione alle implicazioni di politica internazionale. A cominciare dai paesi che, più o meno di nascosto, a queste politiche avevano dato una mano, accogliendo e torturando a loro volta un po’ di terroristi spediti a questo fine dagli Stati Uniti.

Per arrivare ad alleati privilegiati come la Gran Bretagna, alla quale era stato promesso un segreto nel rapporto che è stato prontamente svelato.

Il vento di anti-americanismo che ha pervaso la questione è stato in molti casi strumentale: quale migliore occasione per gettare su Washington la colpa di nefandezze che avrebbero potuto avere un’eco non meno sanguinolenta in casa propria? Quando sento i toni accorati di certi commenti cinesi, per fare un solo esempio, mi sembra di trovarmi dinanzi a una versione sinistra del mago di Oz.

Detto ciò, non vorrei essere frainteso. La tortura praticata dalla Cia è abietta e non può in alcun modo essere tollerata. Essa esiste anche in molti altri luoghi e paesi e la giustificazione che viene data è sempre la stessa: non c’era altro modo per salvaguardare il bene comune. Definizione scivolosa quant’altri mai: per Pol Pot il bene comune era quello che lui stava facendo in Cambogia.

La protesta non porterà a una condanna universale delle sue pratiche, ma potrà servire a moderarne - in date circostanze e periodi ristretti - gli eccessi: varrebbe la pena di perseguirla con forza non foss’altro che per questo. Senza tuttavia farsi troppe illusioni sul genere umano, che buono proprio non è.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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Stati Uniti: una pagina non certo edificante per la democrazia

Cia
Le torture e la forza del sistema Usa
Massimo Teodori
16/12/2014
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La triste vicenda messa in luce dalla pubblicazione del rapporto senatoriale sulle torture effettuate dalle agenzie della sicurezza statunitense induce alcune riflessioni sulla natura del sistema politico-istituzionale americano.

I fatti sono noti: il comitato senatoriale presieduto dalla Democratica Dianne Feinstein, a conclusione di tre anni di lavoro, ha documentato le sistematiche violenze contro i prigionieri catturati dopo l’11 settembre 2001.

Il Presidente Barack Obama ha quindi deciso di rendere pubblico l’intero dossier degli atti indicibili commessi dalle agenzie federali.

I gravissimi comportamenti dalla pubblica immoralità sono stati difesi e giustificati dal vecchio gruppo dei bushiani nelle persone di Dick Cheney e Donald Rumsfield, ed ancor più dal direttore in carica della Cia, John Brennan, che ha invocato la ragion di Stato per “mantenere gli Stati Uniti forti e sicuri dopo lo shock dell’attacco a New York e Washington”.

Pesi e contrappesi 
Una prima notazione sulla vicenda riguarda la pluralità dei centri di potere che governano gli Stati Uniti. Il conflitto nel comportamento e nell’interpretazione che si è verificato tra la Presidenza e una parte del Congresso pronti alla trasparenza, e la potente Cia indirizzata alla copertura, mette in luce quanto complesso e talvolta contraddittorio sia il meccanismo che presiede al potere nazionale.

Tutte le volte che si imputa agli Stati Uniti - spesso a ragione - qualche comportamento eticamente riprovevole, si è soliti accorpare indebitamente in un sol fascio univoco strutture e organismi che invece sono distinti e separati in una architettura istituzionale che ha notoriamente come regola i pesi e contrappesi.

Potere di inchiesta del Congresso
La seconda osservazione, non di poco conto da un’ottica italiana, riguarda il potere che il Congresso, o almeno la sua parte maggioritaria (che fino al nuovo anno è dei Democratici) esercita nei confronti di una potentissima agenzia di intelligence, penetrando senza limiti anche negli ambiti più reconditi dei suoi atti.

Non è la prima volta che ciò accade, anzi si può affermare che il potere di inchiesta della Camera alta non si arresta di fronte ad alcun “segreto di Stato”, anche il più dannoso per gli interessi e l’immagine nazionale come certamente è stato l’uso sistematico delle torture durato almeno per i due mandati del Presidente George W.Bush.

Lo stesso Obama, di fronte alle proteste di una parte dell’apparato della sicurezza e dell’intero partito repubblicano, ora maggioritario nei due rami del Congresso, ha esercitato in maniera decisa i suoi poteri smentendo di fatto chi lo giudica un presidente dimezzato dopo le elezioni di mezzo temine.

Riconoscere gli errori
Ma il punto più significativo della cultura istituzionale e dello spirito statunitense è stata la capacità della politica di riconoscere e rivelare i propri errori e le proprie responsabilità dimostrata sia dal ramo esecutivo che da quello legislativo, prevenendo e oltrepassando gli elementi terzi come la magistratura e i mass media.

Questa mi sembra essere una caratteristica ricorrente della storia Usa soprattutto nell’ultimo secolo. I potenti Stati Uniti, che in ragione della enorme forza economica e militare commettono abusi all’interno e all’estero, sono talvolta pronti a fare ammenda quasi si trattasse di un vero e proprio ribaltamento dell’ipocrita uso della retorica del bene contro il male.

Questa volta il contrappasso è stato provocato dal presidente Obama e dai senatori democratici contro la tortura invocata come “mezzo necessario al raggiungimento di un fine”, ma analoghe svolte si sono verificate in diversi altri momenti cruciali della vicenda nazionale.

Si ricordi, ad esempio, il risarcimento decretato dopo molti anni dalla Corte suprema per l’abuso commesso da Franklin D. Roosevelt contro i cittadini americani Nisei, sbattuti da un giorno all’altro in campi di concentramento dopo Pearl Harbor.

Si richiami l’atteggiamento del Congresso che decretò la fine di Joseph McCarthy e del maccartismo dopo anni di pavido sostegno.

Si pensi al disvelamento della natura strumentale dell’incidente del golfo del Tonchino ai tempi della guerra del Vietnam. E, più recentemente, si consideri la stessa diffusione delle immagini “scandalose” di Abu Ghraib.

Tutto ciò induce a pensare che la politica democratica statunitense, nonostante tutto, funziona soprattutto per quell’aspetto che rappresenta il punto debole di molti stati occidentali, e cioè la forza del sistema politico-istituzionale di correggere se stesso senza ricorrere ed attendere l’intervento di agenti esterni.

Massimo Teodori, storico e americanista (m.teodori@mclink.it).
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martedì 13 gennaio 2015

Stati Uniti: cambia la mappa elettorale

Usa
Louisiana, la roccaforte democratica che crolla
Daniele Fiorentino
11/01/2015
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Con la vittoria del repubblicano Bill Cassidy in Louisiana sembra davvero che il tradizionale dominio democratico del sud sia definitivamente svanito.

È vero d’altronde che il partito sta attraversando una crisi più generale che ha messo in discussione anche stati più sicuri nel nord e nell’ovest del paese. Nel Novecento però i democratici hanno fatto del Sud la loro roccaforte per decenni, tanto da mettere in difficoltà non pochi presidenti del partito, spesso costretti a limitare le loro scelte in considerazione delle aspettative degli elettori bianchi di stati tradizionalmente segregazionisti e rurali.

A dicembre, la clamorosa sconfitta della senatrice democratica Mary Landrieu in Louisiana sembra aver fatto crollare l’ultimo bastione di un fortilizio ormai collassato, chiudendo definitivamente un ciclo iniziato con il cosiddetto compromesso del 1876.

All’indomani della Guerra civile e della Ricostruzione, i democratici concessero la vittoria nella contesa per la presidenza a Rutherford Hayes, sulla base di circa 20 voti elettorali contestati e nonostante Samuel Tilden avesse riportato il 50,9 % del voto popolare, a patto che il governo federale ritirasse il proprio controllo politico e militare.

Molti di quei voti erano del Sud e avevano consentito ai democratici di prendersi il Congresso con 178 rappresentanti a 106. Si chiudeva così l’epica contesa che aveva visto in Lincoln il convinto assertore di un’unificazione che faceva del partito repubblicano il campione dei diritti civili.

Dixiecrats
Da allora il partito dell’asinello dominò per un lungo periodo le elezioni nel Sud creando una “consituency” tanto resistente da limitare le opzioni di apertura e desgregazione prese in considerazione in successione da Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman e John Kennedy.

Addirittura, non soddisfatti delle scelte a loro avviso troppo aperte alle sollecitazioni del movimento dei diritti civili e della politica economica dei presidenti del loro partito, i “Dixiecrats”, i democratici del Sud, presentarono un loro ticket alle presidenziali del 1948 e del 1968.

Strom Thurmond nel ’48 prese più di un milione di voti aggiudicandosi quattro stati, mentre George Wallace, il governatore noto per la sua strenua difesa della segregazione, venti anni più tardi ne prese quasi dieci come indipendente, conquistando cinque stati. In entrambe le contese la Louisiana andò al terzo candidato.

I “Dixiecrats” rientrarono poi nel partito e lo stesso Thurmond rimase senatore per il South Carolina dal 1954 al 2003. Perfino due stati che in qualche modo hanno fatto eccezione sulla fedeltà agli organi centrali e sull’andamento delle sorti del partito, come la Louisiana e la Florida, hanno visto i propri rappresentanti democratici perdere progressivamente incarichi.

Tra il Sud e il Midwest
Dal 1877 il Partito Democratico ha vinto 31 delle 35 elezioni per governatore della Louisiana e quasi tutte le sfide al Congresso. Che cosa è successo dunque?

In realtà si è verificato un progressivo e più ampio spostamento delle fedeltà di partito tra il Sud e il Midwest, un tempo avanguardie della riforma, dove il progressismo e il New Deal attecchirono con maggiore efficacia, e dove il partito democratico finì per rappresentare speranze andate poi deluse.

Se a inizio Novecento i democratici rappresentavano ancora gli interessi agrari di certe regioni del paese, gradualmente quell’identificazione è andata perdendosi soprattutto grazie a un primo spostamento verso Nixon nel 1968 e in modo definitivo con Reagan e con l’affermazione di una nuova destra cristiana. Questo anche grazie al ruolo giocato dai cosiddetti telepredicatori nella seconda metà degli anni Ottanta.

A favorire questo passaggio da un voto massicciamente democratico al dominio dei repubblicani sono stati poi: la questione dei diritti civili, il peggioramento della bilancia economica in agricoltura e una progressiva marginalizzazione di quella che viene spesso definita America profonda e che coincide in buona misura con la “Bible Belt”.

Elettori etnici 
Nelle ultime elezioni di mid-term anche alcuni gruppi di “elettori etnici” hanno preferito, almeno in parte votare repubblicano o rimanere a casa a seguito della delusione verso le politiche di Barack Obama e di un partito mostratosi troppo esitante di fronte alla determinazione delle frange più radicali del Grand old party, ovvero i repubblicani.

Questa è comunque una tendenza diffusa un po’ su tutto il territorio nazionale con picchi più evidenti nel meridione. Il futuro dei democratici in queste aree rimane potenzialmente nelle mani di minoranze, il cui numero è in crescita e che, se non troveranno risposte dal partito che tradizionalmente ne protegge gli interessi, potrebbero nuovamente allontanarsi o cercare riscontri nei repubblicani.

Anche se la stragrande maggioranza dei rappresentanti e dei senatori afro-americani, ispanici e asiatico-americani votano ancora democratico, senatori come Tim Scott, un afro-americano del South Carolina, e Marco Rubio, cubano-americano della Florida, rappresentano un segnale importante di un possibile cambiamento delle tendenze.

Daniele Fiorentino è docente di storia degli Stati Uniti presso l’Università “Ro
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Venezuela: il calo del petrolio mette a rischio la stabilità venezuelana

di Filippo Romeo
31/12/2014
Il calo del petrolio mette a serio rischio la stabilità venezuelana
È ormai stato acclarato da più parti che il crollo del prezzo del petrolio si innesta all’interno della contrapposizione geopolitica in atto tra Russia e Stati Uniti, questi ultimi supportati dai loro stretti alleati sauditi. Secondo autorevoli osservatori, infatti, tale repentino collasso rientrerebbe in una strategia elaborata nel corso dell’incontro tenutosi in una località segreta sulle coste del Mar Rosso tra John Kerry e il Re saudita Abdullah e finalizzata a colpire l’economia russa, che si basa fortemente sulle esportazioni di petrolio e di gas1.
Non è infatti peregrino ipotizzare che l’intento finale di tale strategia, unita al peso delle sanzioni, consista nella creazione di una pesante crisi economica dello Stato russo, tale da compromettere seriamente il ruolo stesso del suo establishment. Peraltro, alcuni analisti, e fra questi F. William Engdahl, ritengono che tale politica provocherà certamente delle conseguenze anche sulla produzione statunitense che verrà, anch’essa, colpita duramente da questo gioco al ribasso. Engdahl, in particolare, sostiene che la strategia arabo-statunitense danneggerà le compagnie che hanno investito nello Shale Oil dal momento che, laddove il prezzo si stabilizzasse sotto la soglia degli 80 dollari al barile, l’attività di perforazione non sarebbe più conveniente.
In altri termini, secondo questa tesi, la nuova situazione prodotta dall’attuale ribasso dei prezzi starebbe offrendo all’Arabia Saudita la ghiotta opportunità di riassumere il controllo globale del mercato del petrolio permettendo, più in particolare, al vecchio establishment saudita di regolare i conti con la nuova guardia che è andata ad investire in USA nello Shale Oil2. Lo Stato saudita, infatti, detenendo ormai il coltello dalla parte del manico, sta ricavando notevoli vantaggi dallo sfruttamento di greggio e sta cercando di far abbassare ulteriormente i prezzi, incentivando al contempo una produzione stabile per poter spremere la quota di mercato degli USA, la cui produzione di petrolio è recentemente aumentata. Da questa valutazione andrebbe dedotta la scelta, adottata dai sauditi in ambito OPEC nella riunione del 27 novembre 2014, di non tagliare la produzione.
Tale linea, sposata anche dai Russi (che non sono membri OPEC), ha suscitato lo stupore di molti, tra cui il ministro del petrolio venezuelano Rafael Ramirez che cercava proprio nei Russi una sponda politica. La scelta dei Russi, infatti, potrebbe essere stata dettata dalla paura di perdere quote di mercato considerato che negli ultimi tempi si è registrato un calo della domanda energetica, anche per via della crisi che ha sancito un drastico calo della produttività, mentre l’offerta continua ad aumentare. A tal proposito basti pensare che economie sviluppate come quella giapponese, o quelle delle maggiori nazioni europee, hanno rallentato il proprio consumo mentre quelle dei nuovi paesi emergenti, bisognosi di energia come la Cina, si sono impegnati a sviluppare energie alternative migliorando la propria efficienza energetica3.
La nuova situazione potrebbe inoltre portare ai Sauditi dei vantaggi anche sullo scacchiere regionale, dal momento che anche l’Iran ovviamente potrebbe subire dei notevoli contraccolpi dal crollo dei prezzi del petrolio.
L’impatto del crollo dei prezzi del petrolio sta tenendo sul filo del rasoio anche le economie di altri paesi produttori tra cui quelle dell’America Latina che, dopo il Medio Oriente, è l’area che detiene il maggior numero di riserve petrolifere su scala globale. In particolare, Venezuela, Brasile e Messico – i tre principali produttori – sono i Paesi della regione che ne stanno maggiormente risentendo; il Venezuela più degli altri dal momento che la sua economia, diversamente da Messico e Brasile che hanno delle economie diversificate, dipende quasi esclusivamente dal mercato petrolifero in ragione del mancato completamento del processo di diversificazione economica che il governo di Hugo Chávez, prima, e quello di Nicolás Maduro, poi, sono stati incapaci di completare.
La sua economia, infatti, si regge al 95% sulle esportazioni petrolifere4 e il dato diventa ancor più cruciale se si tiene conto del fatto che circa l’80% della spesa pubblica viene finanziata dagli introiti derivanti dalla vendita del petrolio e che detta dipendenza comporta una spesa di circa 30-40 miliardi di dollari per coprire i costi di importazione. È chiaro, dunque, che nonostante il Venezuela abbia superato l’Arabia Saudita in termini di riserve di greggio, un’economia così esclusivamente dipendente da tale risorsa non può considerarsi solida nel lungo periodo, soprattutto per la rilevanza di altri fattori, quale per l’appunto l’attuale oscillazione dei prezzi del greggio. Le stime, infatti, pronosticano che quest’anno le entrate del Governo potrebbero già diminuire di 10 miliardi di dollari, mettendo in seria difficoltà i conti pubblici. A ciò si aggiungano i seri problemi economici e sociali che hanno interessato il Paese nel corso dell’ultimo anno che, seppur enfatizzati da certa stampa che sperava di ottenere nel breve periodo un regime change, erano comunque tali da far ritenere che l’economia non versasse in buone acque. La situazione descritta potrebbe altresì peggiorare per via della drastica riduzione delle entrate in valuta estera necessarie a pagare i debiti contratti sui mercati e a garantire l’importazione di beni primari, quali quelli alimentari.
Per quanto concerne il Messico, secondo produttore di petrolio su scala regionale, si osserva che il persistente calo dei prezzi potrebbe mettere a rischio i presunti benefici della riforma energetica intrapresa5, dal momento che non attirerebbe l’interesse di eventuali capitali stranieri poiché, come è ovvio, il petrolio a buon prezzo di mercato gioca un ruolo fondamentale sull’attrazione degli investimenti stranieri. Così il Messico, che sperava attraverso la riforma energetica di migliorare il suo PIL, potrebbe essere costretto a ridimensionare le sue attese.
Il Brasile, invece, è il terzo produttore regionale e la sua produzione viene per la maggior parte reimpiegata nel mercato interno con la conseguenza che il Paese non dipende dai proventi derivanti dalla vendita del petrolio, grazie anche al fatto di avere un’economia diversificata. Nonostante ciò, anche il Brasile è danneggiato (ancorché in modo lieve) da questo calo del prezzo dell’oro nero poiché sarà costretto a posticipare i suoi piani di esplorazione del giacimento “Pre Sal”, situato nelle acque profonde dell’Oceano Atlantico e scoperto nel 2007, dal momento che le esplorazioni sono eccessivamente costose e quindi poco convenienti in un periodo come quello attuale.
In definitiva, si osserva come per il Venezuela la crisi in corso potrebbe tuttavia rappresentare la giusta occasione per fare un decisivo balzo in avanti sulla strada della diversificazione economica. Secondo alcune stime economiche del 2013 il Paese potrebbe ancora beneficiare di circa 21,7 miliardi di dollari che la Banca Centrale detiene come riserve, oltre ad altri 15 miliardi detenuti da varie agenzie governative, per un totale di 36,7 miliardi di dollari6 che potrebbero permettergli di concludere la diversificazione del comparto produttivo. È ovvio che Nicolás Maduro non può perdere altro tempo, dovendo, al contrario, accelerare i tempi al fine di impedire che un eventuale ulteriore peggioramento della situazione vanifichi tutti gli sforzi effettuati da Hugo Chavéz nel corso degli anni, compreso quello di ridurre la povertà. La crucialità di questa fase si coglie maggiormente se si considerano le conseguenze che una crisi economica venezuelana potrebbe comportare a catena a livello regionale. Per un Venezuela indebolito sarebbe difficile, infatti, portare avanti i programmi di assistenza sociale con l’effetto che vi sarebbe il pericolo di uno sfaldamento dei progetti bolivariani portati avanti nell’ultimo decennio.7

NOTE:
Filippo Romeo è Ricercatore Associato dell'IsAG, Programma "America Latina".

1.- F. William Engdahl, "The Collapse of Oil Prices: Has Washington Just Sthot Itself in the Oily Foot?" [On line] http://www.globalresearch.ca. Consultato il 20.12.2014.
2.- F. William Engdahl, "Oil War on Russia: Ridiculous People and Unintended Consequences" [On line]http://journal-neo.org. Consultato il 20.12.2014.
3.- La crescita della domanda di petrolio rimane bassa. Negli ultimi due anni, l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), l’Amministrazione USA per l’Informazione Energetica (EIA) e l’OPEC hanno abbassato con successo le attese su un incremento globale della domanda. Secondo l’ultimo rapporto della IEA, le previsioni sulla domanda globale di petrolio nel 2014 e nel 2015 sono state inferiori di, rispettivamente, 91,56 e 92,96 milioni di barili a giorno. Zhang Dan, "Why do oil prices keep falling?" [On line]http://english.cntv.cn. Consultato il 20.12.2014.
4.- Sul punto cfr. [On line] http://www.cepr.net. Consultato il 20.12.2014.
5.- Sul punto cfr. Filippo Romeo, "La riforma energetica messicana", [On line] http://www.geopolitica-rivista.org. Consultato il 20.12.2014.
6.- I dati si riferiscono a delle stime effettuate dalla Bank of America e riprese da Mark Weisbrot all'interno di un articolo apparso sul The Guardian, il 07/11/2013, dal titolo: "Ci dispiace per voi che odiate il Venezuela: Questo Paese non è la Grecia dell'America Latina".
7.- Alcuni analisti sostengono che la recente svolta tra Cuba e Stati Uniti è stata determinata anche dal fatto che a Cuba sono diminuiti gli aiuti economici da parte venezuelana.

Caraibe: inizio di una nuova fase

Disgelo tra Cuba e Stati Uniti


“Todos somos americanos” –  con  quest’espressione, il 17 dicembre, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha lasciato una forte impronta sul cambio di rotta in politica estera, preannunciando cambiamenti significativi per riformare i rapporti con Cuba. Le misure da implementare prevedono: la regolarizzazione del dialogo attraverso relazioni diplomatiche sane e la conseguente riapertura delle reciproche ambasciate; la cancellazione di Cuba dalla lista dei paesi che fiancheggiano il terrorismo; una parziale rimozione delle restrizioni relative agli spostamenti e al commercio, quindi il via libera dell’export dagli Usa, con viaggi e transazioni di denaro più facili. Barack Obama e Raul Castro stanno inaugurando un’era di cambiamenti per milioni di cubani dopo cinquant’anni di ostruzionismo statunitense. Il contenuto ideologico della politica castrista, nel corso dei decenni, si è progressivamente affievolito. Negli ultimi anni Cuba ha mostrato capacità di equilibrio diplomatico nelle forme di mediazione tra Farc e governo colombiano. Le recenti riforme economiche rendono il paese una meta allettante per gli investimenti degli Stati Uniti. Obama non ha alcun margine di manovra in un congresso in cui domina l’ala repubblicana, quindi sceglie la via degli ordini esecutivi, come nel caso cubano. Inoltre aprire a una politica distensiva e di collaborazione con l’Havana significa conquistare voti in Florida, uno stato che ha da sempre rappresentato l’ago della bilancia nelle presidenziali. Nell’immediato il governo cubano ha rilasciato un agente dei servizi segreti statunitensi prigioniero da metà anni Novanta e Alan Gross, in carcere all’Avana dal 2009. Mentre gli Stati Uniti hanno liberato tre spie cubane che hanno trascorso quasi quindici anni in prigione. Lo scambio effettuato segna l’inizio di una nuova fase e la strada intrapresa da Obama potrebbe rivelarsi la sua mossa più significativa in politica estera.


Alessandro Ugo Imbriglia 
(ugo1990@hotmail.it)

Il Messico: tra le fiamme

NOTA
La scomparsa di 43 studenti, avvenuta a Iguala, nello stato di Guerrero, lo scorso 24 settembre, è il caso più eclatante di una lunga serie di  misfatti che attanaglia il Messico negli ultimi anni. Il 5 giugno 2009 quarantanove bambini hanno perso la vita nell’incendio dell’asilo ABC di Hermosillo. Nella dichiarazione dello scorso 7 novembre, il procuratore Jesús Murillo Karam ha affermato che molto probabilmente i 43 studenti scomparsi nello stato di Guerrero sono stati bruciati vivi su un rogo. Qualche giorno dopo, un esiguo numero di “anarchici” ha incendiato il portone del Palacio nacional, che stranamente era presidiato da un solo generale in borghese. Il 12 novembre il parlamento dello stato di Guerrero è stato incendiato. La rassegna di questi fatti ci consente di analizzare brevissimamente le reazioni delle istituzioni a questi eventi. Nel caso dell’incendio dell’asilo ABC di Hermosillo i responsabili non sono stati identificati, le vittime non sono state onorate e le loro famiglie non hanno ottenuto alcun tipo di supporto. Riguardo alla scomparsa dei 43 studenti, il procuratore Karam ha confermato il 7 novembre ciò che padre Solalinde aveva già rivelato il 17 ottobre. Questo ritardo, congiuntamente alla partenza per la Cina del presidente Peña Nieto, nel giorno in cui Karam rilasciava le sue dichiarazioni ufficiali, ha provocato lo sdegno della popolazione. Dunque il presidente messicano appare ormai estraneo a tutto ciò che accade nella vita reale delle persone. Il distacco tra popolo e istituzioni  non può essere certo colmato col solo presenzialismo mediatico. Tutti questi indizi lasciano presagire che le istituzioni intendano invogliare la popolazione a compiere azioni sovversive, così da criminalizzare, in maniera pretestuosa, qualunque forma di malcontento.

Alessandro Ugo Imbriglia


Messico: manifestazioni contro Pena Nieto

NOTA

In Messico, il 20 novembre 2014, nello stato di Guerrero, si è verificata una manifestazione volta a trovare delle risposte riguardo la scomparsa di 43 studenti, avvenuta a Iguala il 26 settembre. Lo scrittore Fabrizio Mejfa Madrid, in una sua dichiarazione, ha affermato che tale forma di protesta rappresenta una dura presa di posizione nei confronti del governo di Enrique Pena Nieto, accusato di essere spesso estraneo alle vicende nazionali. Del resto in un paese come il Messico, popolato da 106.700.000 abitanti e una capitale come Città del Messico, considerata una delle più popolate al mondo, il ruolo e soprattutto la presenza sul territorio da parte delle massime istituzioni, deve essere costante e concreta. Dopo ore di marcia pacifica per le strade della capitale, in cui il presidente è stato uno dei principali slogan di protesta, si sono verificati dei durissimi scontri di fronte al Palazzo Nazionale, terminati con l'arresto di undici persone. Quando una manifestazione pacifica, col passar dei minuti, sfocia in una rappresaglia, il malcontento generale risulta essere allo stremo e purtroppo le informazioni riguardo gli studenti tardano ad arrivare e di conseguenza non aiutano a rasserenare gli animi. Il  malumore è amplificato dalle parole della giornalista  e direttore del “Tijuana weekly magazine Zeta, Adela Navarro Bello, la quale conferma l'inadeguatezza e l'incompetenza nel ruolo di presidente da parte di Pena Nieto.


Alessio Pecce

venerdì 9 gennaio 2015

ISAG: studio sul Quebec

ISAG: Quaderno di Geopolitica:

Nel 1965 il Québec, provincia del Canada, inaugurava un suo ufficio di rappresentanza a Milano, cui sarebbe poi seguita una Delegazione a Roma. Quello stesso anno, infatti, il ministro quebecchese Paul Gérin-Lajoie aveva lanciato la propria dottrina, secondo cui tutto ciò che è di competenza del governo provinciale in Québec, lo è anche all’estero. Oggi la provincia francofona del Canada ha numerose rappresentanze nel mondo, ma il rapporto con l’Italia rimane tra i più stretti, ...


per ulteriori informazioni:geografia2013@libero.it