Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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giovedì 25 maggio 2017

USA: Un presidente che ha bisogno di aiuto

Presidenza italiana
G7: salviamo l’alleato Trump
Stefano Silvestri
14/04/2017
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Le 30 pagine del comunicato approvato alla fine del G7 dei ministri degli Esteri si contrappongono all’assenza di accordo finale del G7 dei ministri dell’energia. Questo e altri segnali fanno pensare che il prossimo Vertice del G7, a Taormina il 26 e 27 maggio, potrebbe avere una grande importanza. Poiché molto probabilmente la parte economica dell’incontro sarà molto difficile, assume maggior rilievo la parte politica, che la riunione dei ministri degli Esteri doveva preparare.

Il G7, si diceva, ha perso la sua prominenza da che è stato inventato il G20, dove siedono anche le importantissime nuove potenze e l’Asia conta forse più dell’Europa. Certamente i Sette non possono più pretendere di rappresentare il mondo, o anche solo di poterlo guidare, senza la cooperazione degli altri.

Ma in compenso, da che la Russia è stata esclusa dal Vertice (che da 8 è tornato a 7), questa è nuovamente la riunione tra gli Usa e i loro maggiori alleati: quella in cui il vecchio, ma pur sempre importantissimo, ‘Occidente’ può decidere quali siano i suoi interessi comuni e se ha una strategia unitaria per affermarli.

Ancora alleati?, fin dove e come?
Questa insomma rischia di essere la riunione in cui scopriremo fino a che punto e come siamo alleati con Donald Trump.

Intanto sappiamo che sui dossier energetici non c’è accordo. Abbiamo ancora alcune settimane per vedere se al Vertice riusciremo a fare di meglio, ma tutto fa pensare che potrebbe essere più produttivo occuparsi di altro, a cominciare da quello che è stato discusso al G7 degli Esteri.

Il lungo comunicato contiene cose che piacciono di più agli alleati ed altre che piacciono di più agli americani. Così, ad esempio, i ministri hanno approvato senza riserve l’attacco americano contro la base aerea siriana di Shayat, definendolo “attentamente calibrato, limitato negli obiettivi e rivolto contro siti militari direttamente coinvolti nell’attacco chimico”.

Allo stesso tempo, hanno anche sottolineato più volte l’importanza delle Nazioni Unite e in particolare del Meccanismo investigativo congiunto dell’Onu e dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che ha più volte accusato il governo siriano di averne fatto uso e che ora è invitato a proseguire nella sua missione di indagine. Peccato che al successivo incontro tra Rex Tillerson e Sergey Lavrov a Mosca, questo tema si sia esaurito in uno sterile muro contro muro.

I paletti di un accordo con Trump
Nel complesso il G7 degli Esteri ha cercato di individuare alcuni paletti di un possibile accordo ‘occidentale’ con Trump. Tralasciamo molti punti che non sembrano contenere novità di grande rilievo e limitiamoci a sottolineare alcuni aspetti di maggiore interesse.

Tutto il comunicato è percorso dalla necessità di dare priorità alla lotta al terrorismo, anche al di là delle sezioni a ciò specificamente dedicate. Semmai una curiosità, che potrebbe nascondere qualche problema politico, deriva dal fatto che a parte il sedicente Stato islamico, cui è dedicata grande attenzione, nel comunicato non si fa mai riferimento diretto ad Al Qaida, neanche quando si tratta di Siria, di Yemen o di Africa, dove pure questa organizzazione terroristica svolge ruoli di rilievo.

Molto esplicite e ripetute sono invece le critiche alla Russia, nei cui confronti si riconferma il mantenimento delle attuali “misure restrittive” (sanzioni), per spingerla a “tornare all’interno di un ordine di sicurezza basato su regole” condivise.

Nel complesso, pur riconoscendo alla Russia di essere un importante protagonista internazionale e di condividere con Mosca molti comuni interessi, quali la lotta al terrorismo e la non proliferazione nucleare, i Paesi del G7 non accettano in alcun modo l’annessione della Crimea e ritengono che la Russia abbia grandi responsabilità sia in Ucraina che in Siria, che non usa come dovrebbe, o di cui, al contrario, abusa.

Poche novità anche per quel che riguarda la Corea del Nord, dove però si riconosce che la sfida lanciata dal regime nord-coreano ha raggiunto nuovi livelli e richiede quindi una “reazione decisa ed efficace”. Poiché sembra impossibile che quel regime si adegui alle richieste di apertura, disarmo e rispetto dei diritti umani avanzate dai paesi del G7, rimane aperta la questione di quale dovrebbe essere la “reazione” di cui sopra.

Più tranquilla la posizione sull’Iran dove si conferma l’importanza dell’accordo raggiunto sul nucleare (che dovrà però essere integralmente attuato) e ci si limita a deplorare i test di missili balistici effettuati da Teheran.

Piuttosto decisa, anche se di tono nettamente diverso rispetto a quello usato con Mosca, anche la reazione alle rivendicazioni marittime cinesi, ad Est e a Sud. Ci si riferisce ad esempio al giudizio emesso dal Tribunale arbitrale il 12 luglio 2016, sfavorevole alle tesi cinesi, come ad una “utile base” per andare avanti pacificamente, e si ribadisce l’opposizione a iniziative unilaterali.

Il comunicato tocca molti altri punti: ad esempio, è interessante una sezione sul cyber (anche se insiste sulla ricerca di regole non obbligatorie), ed è importante una sezione sulla opportunità di rafforzare il sistema Onu di gestione delle crisi. Ma complessivamente questo testo sembra soprattutto voler offrire un ramoscello d’ulivo da parte degli alleati alla nuova Amministrazione americana. Esso suggerisce un possibile compromesso che può consentire all’Occidente di proseguire insieme: salviamo l’alleato Trump (per la nostra stessa tranquillità). Vedremo come andrà a Taormina.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.

venerdì 19 maggio 2017

USA: un bilancio per un tour

Presidenza italiana
G7: Trump, ‘gran finale’ di prima missione 
Giampiero Gramaglia
15/05/2017
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Il Vertice del G7 a Taormina sarà, per Donald Trump, il ‘gran finale’ della sua prima missione all’estero da presidente degli Stati Uniti. Il viaggio comincerà fra una settimana in Arabia Saudita e proseguirà – il 22 e 23 maggio - in Israele e nei Territori palestinesi. La mattina del 24, Trump sarà in Vaticano e a Roma e incontrerà Papa Francesco e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – è quello che il consigliere per la Sicurezza nazionale H.R. McMaster ritiene “un omaggio al popolo italiano”.

Fascino per gli uomini forti
Basta uno sguardo all’agenda del presidente statunitense per rendersi conto dell’incertezza e dell’imprevedibilità delle relazioni internazionali dell’attuale Amministrazione.

Il viaggio di Trump - la mappa del tour presidenziale

Prima di partire, Trump incontrerà, questa settimana a Washington, il presidente turco RecepTayyipErdogan, uno degli uomini forti – come il presidente egiziano Abd al-Fattahal-Sisi, già ricevuto alla Casa Bianca – per cui mostra una certa fascinazione. Si sono raffreddati, invece, gli entusiasmi per il presidente filippino dai modi spicci Rodrigo Duterte, che fa sapere che potrebbe non andare negli Stati Uniti perché ha “troppi impegni”.

Il primo faccia a faccia col presidente russo Vladimir Putin non è invece stato ancora annunciato: reso più ostico dal colpo di freno al miglioramento dei rapporti tra Washington e Mosca legato al Russia-gate sul fronte interno e alla Siria su quello esterno, l’incontro potrebbe avvenire a margine del G20 di Amburgo a luglio, anche se un anticipo non è escluso, almeno secondo fonti di stampa russe.

Il percorso in Medio Oriente
Prima tappa della prima missione all’estero di Donald Trump sarà, dunque, l’Arabia Saudita: scelta che suscita subito sorpresa e interrogativi, perché si tratta sì di un tradizionale alleato degli Stati Uniti, ma anche di un Paese dal ruolo non limpido nella lotta contro il terrorismo e divisivo nella regione, nella chiave del persistente confronto tra le monarchie sunnite e il regime teocratico sciita iraniano, che si riflette anche nelle situazioni in Iraq e in Siria, oltre che nel conflitto nello Yemen.

Ma la tappa più attesa nella regione è quella tra Israele e Palestina; un passo – per alcuni esperti – verso la nuova iniziativadi pace degli Stati Uniti per la soluzione del conflitto israelo-palestinese annunciatada Trump il 3 maggio scorso, dopo aver ricevuto il presidente palestinese Abu Mazen. L’iniziativa, che pareva azzardata, improvvisatae in contrasto con l’approccio apertamente filo-israeliano fino ad allora tenuto dalla sua Amministrazione, potrebbe dunque concretizzarsi.

I palestinesi anzi cavalcano - e forse mettono alla prova - la disponibilità statunitense, prospettando addirittura nell’occasione un vertice a tre. Gli israeliani sono più riservati e fanno sapere che Trump, appena sbarcato in Israele, andrà al Muro del Pianto con la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner, entrambi ebrei religiosi – Kushner è pure suo consigliere per il Medio Oriente -. Non si attendono, invece, sviluppi nel tormentone dello spostamento dell’ambasciata degli Usa a Gerusalemme.

Cruciale nella missione potrebbe diventare il discorso che Trump farà alla Rocca di Masada, antica e fascinosa fortezza ebraica sul Mar Morto: il discorso di Masada starà alla politica mediorientale dell’Amministrazione Trump come il discorso del Cairo del 4 giugno 2009 stette a quella dell’Amministrazione Obama. Resta da vedere se, contrariamente a quello di Obama, sarà poi seguito da fatti concreti.

A Bruxelles tra Ue e Nato
Nel pomeriggio del 24, Trump sarà a Bruxelles, dove sarà ricevuto da re Filippo nel Palazzo Reale, nel cuore della capitale belga. Il 25, il presidente americano incontrerà nell’Europa Building i leader delle istituzioni Ue, specie il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. A seguire, Trump parteciperà al Vertice Nato: un’occasione per riaffermare l’importanza dell’Alleanza, che da obsoleta è ora ritenuta essenziale nella lotta contro il terrorismo, ma anche per ribadire che i partner devono fare di più – leggi, pagare di più – per la sicurezza comune.

La tappa di Bruxelles è segnata, in qualche misura, almeno nella sua preparazione, dal fatto che, durante i suoi primi cento giorni, ormai abbondantemente superati, Trump s’è ‘dimenticato’, o ha semplicemente trascurato, di nominare i rappresentanti permanenti degli Stati Uniti presso la Ue e la Nato. Alla Nato, l’ambasciatore Douglas Lute, un ex generale nominato da Barack Obama e insediatosi nel 2013, ha lasciato la guida della delegazione all’incaricato d’affari Earle Litzenberger. All’Ue, l’ambasciatore Anthony Gardner s’è dimesso a gennaio e la Rappresentanza è attualmente retta dall’incaricato d’affari Adam Shub.

S’era parlato, all’Ue, di Ted Malloch, uno che dovunque spara a zero contro l’Unione e l’euro, suscitando reazioni piccate al Parlamento europeo e nelle capitali dei 27. In una lettera pubblicata dalla rivista londinese ‘The Parliament Magazine’, Malloch sostiene che l’Ue “è diventata non democratica, gonfia di burocrazia e di anti-americanismo rampante”; e afferma che “gli Usa dovrebbero praticare con l’Europa maggiore commercio bilaterale e dichiarare la propria ferma opposizione a un’Europa federale, dicendo un preciso ‘no’ a un unico euro-governo”. E, prima, intervistato da ‘Der Spiegel’, Malloch aveva definito l’euro “un esperimento imperfetto” – “se sedessi al tavolo d’una banca d’investimenti, ci punterei contro” – e la Brexit la prima di altre uscite. Perchégli Usa devono “collaborare in bilaterale coi singoli Stati Ue”? Perché così “ci troveremmo in vantaggio”.

Un G7 ‘gente che va, gente che viene’
Il giorno dopo, il presidente raggiungerà la Sicilia, dove, a Taormina, si svolgeranno i lavori del G7. Fra i temi controversi, la libertà degli scambi – un valore che l’Amministrazione Trump subordina all’interesse commerciale degli Stati Uniti – e il rispetto degli accordi di Parigi del 2015 sul clima, per rallentare il riscaldamento globale.

Sui cambiamenti climatici, le ultime indicazioni sono che gli Stati Uniti non prenderanno posizione fin dopo il G7: “Il presidente continuerà ad ascoltare i pro e i contro”, sul rispetto o meno dell’accordo di Parigi, per arrivare a definire “quel che è il miglior interesse degli Stati Uniti”, fa sapere il suo portavoce Sean Spicer. Un modo anche per evitare che Taormina si trasformi in una ‘sfida all’Ok corral’ ambientale.

Un Vertice degli esordienti – ben quattro, oltre a Trump il presidente francese Emmanuel Macron, la premier britannica Theresa May e il padrone di casa e presidente di turno, il premier italiano Paolo Gentiloni – e, nello stesso tempo, di leader che potrebbero essere alla loro ultima esperienza: la May l’8 giugno e Gentiloni tra l’autunno e la primavera sono attesi da scadenze elettorali, come pure l’indiscussa decana di questi Vertici, Angela Merkel – il 23 settembre.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

mercoledì 3 maggio 2017

USA: Cento giorni di incertezza

Luna di Miele
Trump, minacce e lusinghe nei Cento Giorni
Adriano Metz
28/04/2017
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Minacce e promesse, per i cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca: tamburi di guerra - l’espressione è del New York Times - con la Corea del Nord; e miraggi fiscali per i cittadini, ma soprattutto gli imprenditori, americani. Le minacce - per fortuna - e le promesse restano per ora parole: i fatti della luna di miele del magnate presidente con i suoi elettori sono relativamente pochi.

Ma Trump si conferma maestro nello ‘spostare la palla’: se una sua iniziativa s’arena o si rivela controproducente agli occhi dell’opinione pubblica, passa ad altro; e lo fa con spregiudicatezza rispetto ad affermazioni precedenti e con un’unica costante: “La colpa è dei media”. Ad alleati vicini e rivali chiede essenzialmente di pagare di più, militarmente, commercialmente o economicamente.

Corea del Nord: giochi di guerra pericolosi
In inglese, le manovre militari si chiamano ‘war games’, giochi di guerra. E ‘giochi di guerra’ sono le schermaglie verbali, incessanti da settimane, tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord: un po’ come se Trump considerasse Kim Jong-Un un bersaglio da esercitazione, per addestrarsi a future eventuali prove analoghe. Ma, con due leader così impulsivi e imprevedibili, il rischio non è mai marginale.

Nell’ennesima intervista sui Cento Giorni, alla Reuters, Trump avverte che “la tensione è alta” e ammette che “un grande, grande conflitto con la Corea del Nord è possibile”; fa l’elogio della Cina, che cerca di tenere a freno il riottoso alleato, ma dubita degli esiti della diplomazia di Pechino. E, intanto, fornisce missili-antimissili alla Corea del Sud e mantiene in acque coreane il gruppo navale della portaerei Vinson e un sommergibile nucleare.

Esperti del Dipartimento di Stato e del Pentagono, che seguono da decenni le ricorrenti crisi coreane, confidano ai giornalisti che la retorica e il flettere dei muscoli rendono la minaccia più imminente di quanto non sia: “Vogliamo che Kim ritrovi il buonsenso, non vogliamo metterlo in ginocchio”. Tutto bene, purché il magnate presidente e il dittatore nord-coreano sappiano dove fermarsi, mentre Cina ed Ue lavorano per riaprire i canali di negoziato chiusi dal 2008.

Russia, Iran e altri fermenti tra politica e affari
La Corea del Nord non è l’unico cruccio di politica estera, in queste ore. Washington sta valutando la possibilità di ristabilire le sanzioni contro l’Iran, a dispetto dell’accordo sul nucleare concluso con Teheran nel 2015: una mossa che rischia di favorire il ritorno al potere dei conservatori nelle presidenziali del 19 maggio.

E la Russia, dopo lo strappo sulla Siria, è terreno di grattacapi e complicazioni sul fronte interno. Suona male che la Exxon Mobil, di cui era ceo l’attuale segretario di Stato Rex Tillerson, chieda l’esenzione dalle sanzioni per la joint venture con Rosneft e le trivellazioni nel Mar Nero. E intanto si aggrava la posizione dell’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, che avrebbe illegalmente ricevuto somme di denaro da governi stranieri (leggasi: Russia).

Ma non c’è ancora un bandolo nella matassa d’affari e illegalità del Russia-gate, l’indagine dell’Fbi e del Congresso innescata dalle presunte ingerenze dell'amministrazione russa durante la scorsa campagna elettorale americana. La locandina dei personaggi in commedia s’infittisce: secondo l’Ap, Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale del candidato Trump, avrebbe segretamente collaborato con Oleg Deripaska, magnate russo dell’alluminio e uomo di fiducia di Putin. E sarebbe pure emerso che l’intelligence russa cercava dal 2013 d’ingaggiare il businessman Carter Page, poi divenuto consigliere di Trump - durante la campagna, andò a Mosca a fare un discorso.

Meno tasse, meno soldi, più debiti
Dopo che la revoca dell’Obamacare s’era bruscamente arenata in Congresso e che i giudici federali avevano bloccato due volte il bando all’entrata negli Usa di rifugiati e cittadini di Paesi musulmani, il presidente aveva spostato l’attenzione sua e dell’opinione pubblica sulla politica estera: l’attacco alla Siria, le tensioni con Mosca, il confronto con la Corea del Nord.

Ma pure lì Trump è finito in stallo - per fortuna!, ché non sempre una raffica di missili resta senza conseguenze. E, allora, a compimento dei Cento Giorni, ecco spuntare fuori un pezzo forte dell’agenda elettorale: la riforma fiscale, presentata con molta enfasi, ma già destinata ad avere vita non facile in Congresso.

Ridurre le tasse alle aziende piace ai repubblicani; e semplificare le aliquote piace agli americani, anche se non ci guadagnano molto. Ma l’equazione “meno tasse = più crescita e meno evasione”, (quindi, a conti fatti, più soldi nelle casse dell’erario) è tutta da dimostrare. L’operazione può tradursi in un aumento del debito, che non piace ai repubblicani, e in una riduzione delle prestazioni dello Stato ai cittadini, che non piace ai democratici.

La riforma non dà garanzie di successo, sul piano finanziario ed economico; e, su quello politico, rischia di rivelarsi un boomerang. Della riforma, che per ora è una ‘lista dei desideri’ più che un piano preciso e dettagliato, gli elettori potrebbero soprattutto ricordare che il presidente Trump ha fatto un regalo all’imprenditore Trump e all’1% dei Paperoni d’America.

Vero o falso?, il nuovo Monopoli
Non c’è pace tra i media e il presidente, pur se le polemiche sono meno virulente che Cento Giorni or sono (e i tweet meno accidiosi). Il New York Times, ad esempio, non ha per nulla abbandonato la pista delle cerimonie d’insediamento, dove - ha recentemente ‘intignato’ - “la gente era poca, ma giravano soldi in abbondanza”. Le donazioni a caccia di benemerenze o per sanare divergenze hanno infatti fruttato a Trump 107 milioni di dollari, il doppio che qualsiasi altro suo predecessore.

Nel panorama mediatico americano, Trump ha intanto perso un amico e un alleato: Bill O’Reilly, popolare conduttore della Fox News, è stato accantonato, dopo ripetute accuse di molestie sessuali. Il presidente l’ha pubblicamente difeso e i malpensanti pensano che O’Reilly possa presto entrare nello staff della Casa Bianca, che ha già accolto esuli dai media con trascorsi da molestatori.

Adriano Metz è giornalista freelance.
 
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Usa: Trump, i record dei suoi primi Cento Giorni, Giampiero Gramaglia

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USA: la politica estera palestra di voltafaccia

Luna di Miele
Usa: Trump, i record dei suoi primi Cento Giorni
Giampiero Gramaglia
26/04/2017
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Ha cominciato con largo anticipo a celebrare i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca, che cadono a fine aprile. Quando non aveva ancora compiuto tre mesi nell’esercizio dei suoi poteri, annunciava su Twitter, la lavagna virtuale di tutti i suoi proclami: “I primi 90 giorni della mia presidenza hanno mostrato il totale fallimento degli ultimi otto anni di politica estera. Com’è vero!”.

Ed ha poi dato una lunga intervista all’Ap, in cui batte con insistenza proprio su questo tasto: la differenza tra lui e il suo predecessore, quel ‘mollaccione’ di Barack Obama, che non frenò il flusso degli immigrati, non cacciò dal potere il presidente siriano Bashar al-Assad e non convinse gli alleati Nato a pagare di più per la sicurezza comune.

A dire il vero, neppure Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti, insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio, è finora riuscito a fare almeno una di quelle cose. Però, sta litigando con il Congresso per farsi dare i soldi per alzare il muro al confine con il Messico, ha lanciato una gragnola di missili su una base siriana e sta ‘mobbizzando’ tutti i leader europei che vanno a incontrarlo a Washington – ultimo, il premier italiano Paolo Gentiloni – con l’impegno di spendere di più nella Nato, centrando l’obiettivo del 2% del Pil per la sicurezza.

I primati che lo distinguono dai suoi predecessori
A Trump, comunque, i primati non mancano, per distinguersi dai suoi predecessori: è il presidente con l’indice di gradimento più basso durante la ‘luna di miele’ con il popolo americano, da quando esistono sondaggi del genere, anche se, dopo fuochi d’artificio e pugni sul tavolo, la sua popolarità è un po’ cresciuta; ed è il presidente che ha firmato più ‘ordini esecutivi’ – l’equivalente americano dei nostri decreti legge – nei suoi esordi, più di John F. Kennedy che era finora il recordman con 23; ed è anche il presidente che passa più tempo sui campi di golf (gioca una volta ogni cinque giorni, in media, secondo i calcoli di Market Watch, un sito di finanza, il doppio di quanto non giocasse Obama – una volta ogni quasi dieci giorni -). Eppure, Trump criticava spietato l’‘etica del lavoro’ di Obama, che non gli impediva di giocare a golf “con tutti i problemi che gli Usa hanno” – e che lui, per ora, non ha risolto.

Ma dove nessuno lo batte davvero è nell’uso di Twitter: ‘cinguettii’ strategici, a notte o all’alba, che dettano l’agenda dei media – lo strumento, però, è recente e il confronto può solo essere con Obama -. Quanto ai ‘cancri’ dell’informazione del XXI Secolo, ‘fake news’, ‘alternative facts’, ‘post-truth’, Trump ne è un untore. Ma spesso i politici lo sono stati, usando gli strumenti di cui disponevano.

Partenza in quarta, poi freno a mano tirato
Partito in quarta, nelle primissime settimane alla Casa Bianca Trump pareva un turbo-presidente: non passava giorno senza che, con una firma e un tratto di penna, non cancellasse qualche decisione dell’amministrazione Obama. Via il Tpp, il patto di libero scambio dell’area pacifica: basta negoziati sul Ttip, l’analogo patto trans-atlantico; un colpo di freno alla parità dei diritti per Lgtbq; niente fondi per le ong che includono l’aborto fra i metodi per controllare le nascite; drastici tagli alle norme per la tutela dell’ambiente e abbandono di fatto degli obiettivi dell’accordo di Parigi contro il riscaldamento globale.

Pareva tutto facile. Poi, però, le cose si sono complicate. Il provvedimento di blocco dell’ingresso negli Stati Uniti dei rifugiati e dei cittadini di sei Paesi musulmani s’è urtato a due riprese contro giudici federali e lì s’è incagliato – l’Amministrazione non ha scelto la via della Corte Suprema, riconoscendo di fatto la partita persa.

E la revoca dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama, punto focale di tutte le promesse elettorali, è naufragata in Congresso, nonostante i repubblicani controllino sia la Camera che il Senato. Quanto alla riforma fiscale e al programma per il rilancio delle infrastrutture, più facile annunciarli che farli: la riforma sta per essere presentata in fanfara, ma ci vorrà poi del tempo per perfezionarla.

Le nomine e la squadra: rose e spine
Se la nomina e l’insediamento del giudice mancante della Corte Suprema sono ‘andati in buca’ – Neil Gorsuch ha superato l’esame Senato, ma solo perché i repubblicani, che altrimenti non avevano i numeri, hanno forzato la consueta procedura –, la composizione della squadra di governo s’è rivelata una corona di spine. E molti posti restano vacanti, compromettendo l’ordinaria gestione della cosa pubblica.

Il riflusso post-elettorale del Russia-gate – con l’intreccio delle interferenze russe nella campagna, sempre a danno di Hillary Clinton, e dei magheggi dei consiglieri di Trump con emissari di Putin – ha costretto quasi subito a dimissioni catartiche il generale Michael Flynn, scelto come consigliere per la sicurezza nazionale, mentre le gerarchie nel ‘cerchio magico’ intorno al magnate-presidente andavano assestandosi, con la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner a guadagnare posizioni e invece il suprematista Steve Bannon a perderne, dopo l’infelice esito di alcune sue iniziative.

La politica estera palestra di voltafaccia
La politica estera pareva una cosa semplice semplice: pappa e ciccia con la Russia; unghie in fuori con la Cina; divido l’Europa e non le bado; combatto il terrorismo, ma sto fuori dal Medio Oriente. Invece, non è proprio stata una passeggiata. Anzi, è su questo terreno che Trump presidente, tale quale il Trump candidato, ha esercitato un tratto saliente dei suoi primi ‘cento giorni’: il voltafaccia.

Faccio la pace con la Russia; anzi no, ci litigo. Il futuro della Siria non è una priorità; anzi no, bombardo al-Assad e voglio che se ne vada perché ha usato i gas contro i suoi nemici che improvvisamente scopro essere miei amici. Bisticcio con la Cina; anzi no, le chiedo di tenere a bada la Corea del Nord, ché, altrimenti, ci penso io con portaerei e sottomarini nucleari. La Nato è obsoleta; anzi no, è utile contro il terrorismo – e se gli alleati pagano la loro quota.

Elemento costante – e mai tradito – è stato la indubbia fascinazione per gli uomini, o le donne, forti: riceve il presidente egiziano, l’autoritario generale al-Sisi; si congratula con il presidente turco, l’altrettanto autoritario Erdogan, per il successo di misura nel referendum che instrada la Turchia verso un regime presidenziale semi-dispotico; e non mostra repulsione per la candidatura in Francia di Marine Le Pen, che prende i soldi a Mosca, ma è alfiere di quel processo di smembramento dell’Unione che a Trump – l’uomo della Brexit – piace tanto.

L’isolazionista diventa interventista. Con la tentazione di aggiustare le cose del mondo assestando qualche martellata, visto che quelle dell’America non vanno a posto da sole. I suoi metodi gli hanno già valso un altro record: le ricerche su Google su Terza Guerra Mondiale e su Guerra Nucleare non sono mai state così numerose dal 2004, da quando cioè ne esistono statistiche.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.