Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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mercoledì 23 dicembre 2015

MESSICO: IMMINIGRAZIONE NEGLI STATI UNITI: INVERSIONE DI TENDENZA


Contrariamente a quello che è emerso nel dibattito per la corsa alla Casa Bianca del novembre prossimo, i dati disponibili sulla immigrazione messicana smentiscano Donald Trump. Questo conferma che  il tema della immigrazione è affrontato con molta superficialità anche ai massimi livelli di discussione. Ne è un esempio gli ultimi dati, pubblicati da uno studio del Pew Reserch Center in tema, appunto, di immigrazione dal Messico.


Tra il 2009 ed il 2014 i Messicani che si sono trasferiti, legalmente o illegalmente, negli Stati Uniti sono stati 870.000. Nello stesso periodo i Messicani che hanno deciso di lasciare l’Unione sono più di un milione, compresi anche bambini nati sul suolo statunitense. Una della cause principale  di questa tendenza è la sempre più mascherata situazione economica reale degli USA, la cui crisi economica iniziata nel 2008 ancora, nonostante alcuni indici positivi, produce i suoi effetti. Gli oltre 50.000 milioni di poveri relativi o al di sotto della soglia della povertà sono ancora un gravissimo peso che impedisce varie forme di integrazione del nuovo venuto. A questa causa dominante, si aggiungo altre, come la volontà del singolo immigrato maschio di ricongiungersi con la famiglia di ordine lasciata in Messico e nella impossibilità di raggiungerlo negli Usa; cole le ferree politiche immigratorie e l’aumento dei controlli nei confini. 

Massimo Coltrinari
(geografia2013@libero.it) 

mercoledì 2 dicembre 2015

STATI UNITI:PIANO DI WASCHINGTON PER LA RIDUZIONE DEL GAS SERRA


Presentato dal Presidente Obama un piano di azione per ridurre le emissioni del gas serra.
Gli Stati Uniti sono conviti che questa è l’ultima generazione che 
può intervenire prima della catastrofe climatica. L’obiettivo generale di questo piano è quello 
di ridurre del 32 % le emissioni di carbonio entro il 2030. E’ un passo avanti in vista delle
 conferenza che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre dove i leader di 196
Paesi dovranno trovare un accordo legalmente vincolante per la riduzione del gas ad effetto serra con effetto dal 2020 e contenere così il riscaldamento globale entro i due gradi centigradi rispetto all’era preindustriale.

Massimo Coltrinari
(geografia2013@libero.it)e

venerdì 27 novembre 2015

USA: verso le presidenziali 2016

Usa 2016
Putin serve l’assist a Trump, Hillary fa gol
Giampiero Gramaglia
21/12/2015
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Vladimir Putin serve un assist a Donald Trump, ma manda in gol Hillary Clinton. Il presidente russo ha compiuto una vera e propria incursione nella campagna per l’elezione, l’8 novembre 2016, del nuovo presidente degli Stati Uniti: durante la conferenza stampa fiume di fine anno al Cremlino, ha reso un omaggio tanto plateale quanto gratuito al magnate dell’immobiliare che guida la corsa alla nomination repubblicana.

Ne ha, però, tratto beneficio la battistrada democratica, andata in gol in contropiede, sostenendo che ‘Donald il rosso’ compromette la sicurezza dell’Unione con le sue sortite e le sue amicizie.

Per Putin, Trump "è il leader assoluto" della campagna statunitenseed è "benvenuto" perché "vuole portare a un livello più profondo i rapporti con la Russia". Mosca, ha comunque aggiunto Putin, con un sussulto di prudenza, "collaborerà con chiunque sarà il nuovo presidente" degli Stati Uniti.

Trump lo showman
L’eco di Trump non s’è fatta attendere: "È sempre un grande onore ricevere complimenti da un uomo così rispettato, nel suo Paese e altrove", ha detto, facendo un comizio a Columbus, nell'Ohio. “Penso che Usa e Russia dovrebbero riuscire a lavorare bene insieme per battere il terrorismo e portare la pace nel mondo".

La mossa del presidente russo rischia di rivelarsi un boomerang: non lo aiuterà a migliorare i rapporti non idilliaci con il presidente Barack Obama, né glieli garantirà buoni con il successore, specie se non sarà Trump, lusingato dall’elogio, ma pure imbarazzato. Lo showman non fa mistero dell’ammirazione per l’autocrate russo e ne confronta spesso la determinazione in politica estera con le esitazioni di Obama.

L’elogio di Putin ha comunque distratto un po’ l’opinione pubblica dalle polemiche suscitate dalle battute dello showman: dalla proposta di chiudere internet a quella di mettere al bando dagli Usa i musulmani.

Trump resta largamente in testa nei sondaggi nazionali, davanti ai senatori Ted Cruz (Texas) e Marco Rubio (Florida).

Ben Carson, l’ex neurochirurgo nero, un neofita della politica come Trump, che a ottobre era spalla a spalla col magnate dell'immobiliare, è scivolato al quarto posto. Jeb Bush, favorito sei mesi or sono, viaggia sul 5%. Se si guarda però allo Iowa, dove le assemblee di partito apriranno la stagione delle primarie il 1o febbraio, Cruz è davanti a Trump o alla pari.

Due dibattiti in diretta televisiva hanno chiuso questa fase della campagna elettorale. A gennaio, si contano soldi in cassa e riserve d’energia; da febbraio, si contano i voti e i delegati.

Sanders e il data gate Dem
Clinton ha usato il terzo dibattito fra i candidati democratici per attaccare Trump più che i suoi innocui rivali interni.

Sul palco di Manchester, nel New Hampshire, dove le primarie si faranno il 9 febbraio, e in diretta televisiva sulla Abc, la Clinton e gli altri aspiranti democratici, il senatore del Vermont Bernie Sanderse l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley hanno anzi mostrato molto fair-play.

Hillary è parsa rilassata e a suo agio: ha scherzato su se stessa (“Tutti dovrebbero amarmi”) e sul ruolo che avrà il marito Bill, l’ex presidente; ha citato, in chiusura, la saga di Star Wars di cui è appena uscito l’ultimo episodio (“che la forza sia con voi”); e s’è pure presentata in ritardo alla ripresa dopo la pausa, scusandosi.

Il confronto s’è sviluppato su un doppio binario: sicurezza nazionale e lotta al terrorismo - la Clinton dice no a nuove guerra e sì ai controlli sulle vendite di armi -; e situazione economica - Hilary ripete di volere tassare di più i ricchi, mentre esclude maggiori tasse alla classe media.

Sanders arrivava al dibattito dopo un vortice di polemiche, perché la sua campagna aveva, pare per errore, sottratto dati a quella di Hillary. Il senatore, che ha appena avuto l’appoggio d’un grosso sindacato, s’è però subito scusato con la ex first lady e con i suoi sostenitori per il pasticcio combinato. Pace fatta e incidente chiuso, a dimostrazione dell’assenza di animosità in campo democratico.

Repubblicani, tutti contro Trump
Sul palco di The Venetian a Las Vegas, invece, era stato scontro senza quartiere tra i candidati repubblicani, ancora 15: tutti contro tutti sui temi caldi del momento, sicurezza e lotta contro il sedicente “stato islamico”.

Le ricette sono molto diverse, più o meno interventiste. A ricordarsi che l’avversario da battere, l’Election Day, sarà la democratica Clinton è praticamente solo Carly Fiorina, l’ex Ad di Hp, l’unica donna, che chiama in causa l’ex segretario di Stato e la accusa di essere, con Obama, responsabile della nascita dell’autoproclamato Califfato.

I senatori Cruz e Rubio, entrambi ispanici, ed entrambi in crescita, si scontrano praticamente su tutto, intervento militare, sicurezza interna, immigrazione, mentre Trump non rinnega, anzi rilancia, le più controverse delle sue posizioni: “Non stiamo parlando di isolamento, ma di sicurezza. Non stiamo parlando di religione, ma di sicurezza”.

Bush è il più critico con lo showman, “bravissimo - concede - nelle frasi ad effetto”, ma che “è un candidato del caos e sarebbe un presidente del caos”: lui sarà “un comandante in capo, non un agitatore in capo”.

Anche il governatore del New Jersey Chris Christie si ritaglia uno spazio: vuole una ‘no fly zone’ sulla Siria e sarebbe pronto a fare abbattere un aereo russo, se la violasse. Il che conferma la confusione persistente tra amici e nemici in quella zona.

Su un punto, Trump ha un po’ tranquillizzato l’establishment repubblicano che vede una sua candidatura come fumo negli occhi, ma che teme ancor più una sua candidatura come indipendente; lui l’ha esclusa, smentendo le voci in tal senso.

E lo stesso ha fatto Carson, pure sospettato di tentazioni ‘indipendentiste’, ma forse ormai più tentato dal ritiro che altro.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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sabato 21 novembre 2015

Stati Uniti: il rapporto con gli alleati europei

lazioni internazionali 
Fare un check-up alle alleanze
Giuseppe Cucchi
17/11/2015
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Nella nuova epoca delle relazioni internazionali nulla può essere considerato come acquisito. Ecco perché l’Italia deve fare attenzione e maturare forti capacità di adattamento.

Visti dagli Stati Uniti
Gli Usa sono il nostro alleato indispensabile, ma quanto noi siamo necessari a loro? Solo poco tempo fa, a Washington, affermavano di preferire una "nuova” Europa, mostrando sprezzante ostilità versa la Russia, incuranti del danno che ciò poteva provocare ad una "vecchia” Europa di cui Mosca era un partner commerciale ed energetico importante.

Intanto si rafforzava lo spostamento dell'attenzione statunitense dall'Atlantico al Pacifico, con qualche problema per quel "legame transatlantico" che ha nella Nato la sua massima espressione.

La scoperta e lo sfruttamento intensivo dei grandi giacimenti nazionali di shale gas garantisce agli Usa (ma non all’Europa) la fine della dipendenza dal Medio Oriente per il rifornimento di energia.

Ed ecco che il Presidente Obama elabora una nuova dottrina strategica che abbandona alla prevalente responsabilità degli alleati europei la gestione di un "Mediterraneo islamico allargato" in cui focolai gravissimi di crisi si evidenziano, l'uno dopo l'altro.

Proseguono le trattative per il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che dovrebbe regolare il futuro degli scambi fra Ue ed Usa. Ma, al di là di alcuni vantaggi, c’è anche il timore che questo strumento aiuti a mantenere l'Unione nello scomodo ruolo di fratello minore.

Ce ne sarebbe abbastanza per porsi dei dubbi ed iniziare a chiedersi come gli Usa vedano veramente l'Unione europea e se la considerino come "il partner della mano destra", l’unico al mondo che condivide con l'America i suoi valori oltre che molti interessi. Oppure se la vedano come un possibile avversario, l'unico oltre alla Cina che possa sfidare a scadenza medio-breve il loro primato nel mondo.

Sono però dubbi e domande che per il momento stiamo accuratamente evitando di porci, forse per la paura di scoprire che stiamo vivendo in un mondo in cui non esiste più una chiara ed indiscutibile distinzione fra amici e avversari.

Una Turchia di caserme e moschee
La Turchia è considerata amica da più di sessant’anni, dal 1952, quando entrò nell'Alleanza Atlantica, divenendo il più solido pilastro del suo fianco meridionale. Alla diffidenza iniziale, perché era l'unico socio islamico in un club interamente cristiano e perché le sue Forze Armate mostravano una frequente propensione per i colpi di stato, era subentrato, dopo l'ultimo golpe del 1980, un clima di crescente fiducia.

Molti speravano nella conclusione positiva del negoziato per l’ingresso della Turchia nell’Ue. Di fatto ne siamo ancora lontani, ma sotto ogni altro aspetto la Turchia, sino ad oggi, è stata parte, a pieno titolo, del cosiddetto Occidente.

Eppure, ormai da più di dieci anni la Turchia sta cambiando radicalmente. Al regime dei Generali, che negli ultimi anni del loro potere avevano sostituito ai golpe reali i golpe virtuali - cioè la minaccia del golpe, rivelatasi sufficiente a rimettere in riga i reprobi della classe politica - conservando pelo e vizio, ma anche salvaguardando con efficiente ferocia l'eredità laica di Ataturk, si è progressivamente sostituita la presa del potere da parte di forze confessionali.

All'inizio, il cambiamento, che l'Ue ha indirettamente favorito, è stato salutato come un affrancamento democratico ed esaltato al punto che si è giunti a parlare di “modello turco” per l'islamismo moderato. Poi l'aspetto confessionale è diventato più forte e la gestione del potere più dura e personalizzata.

Oggi la Turchia, sta combattendo due guerre, o almeno due battaglie. Una è quella che oppone il mondo sunnita a quello sciita, e in questo quadro rientra l'atteggiamento equivoco che Ankara ha sino ad ora mantenuto nei riguardi dell'Isis. L'altra è il contrasto in atto per la leadership nel mondo sunnita, che la vede impegnata in un braccio di ferro trilaterale con Egitto e Arabia Saudita.

Sono battaglie completamente estranee all'Occidente e ciononostante, avvalendosi della sua membership nella Nato, la Turchia cerca di coinvolgerci, adducendo i più vari fra i motivi e giocando con abilità con almeno un paio di articoli del Patto Atlantico.

Siamo di fronte al tentativo di farci combattere battaglie che non sono nostre, in cui oltretutto gli oneri di una eventuale sconfitta ricadrebbero pressoché interamente sulle nostre spalle mentre quasi soltanto ai turchi andrebbero i vantaggi di una ipotetica vittoria.

Ce ne sarebbe abbastanza per iniziare a porsi dei dubbi e per chiedersi se la Turchia sia ancora da considerare come un paese amico o se invece non sia opportuno assumere nei suoi confronti un atteggiamento più distaccato, valutando ove realmente risieda il nostro interesse.

Sono però dubbi e domande che per il momento evitiamo accuratamente di porci, forse anche perché sollevare il problema della Turchia vorrebbe dire porre sul tavolo anche quello di una Nato che occorrerebbe rifondare ex novo. Una prospettiva che nessuno dei membri della Alleanza è ancora pronto ad affrontare.

Quando l’Egitto cambia i suoi interessi
Da quando il Presidente Sadat si liberò della pesante tutela sovietica, l'Egitto è stato considerato come il miglior amico dell'Occidente nel mondo arabo: il "custode di Suez ", assolutamente affidabile e forza trainante di moderazione e stabilità, capace, con il suo esempio, di far cessare il periodo dei conflitti panarabi contro Israele.

Il rapporto con l'Italia era divenuto col tempo molto forte, tanto che per un lungo periodo il nostro paese seguiva immediatamente gli Stati Uniti nella considerazione degli egiziani.

Da tempo però gli interessi dell'Occidente in generale, e quelli italiani in particolare, divergono da quelli del Cairo. Noi avremmo infatti bisogno di riuscire a superare la crisi libica, ricompattando il paese in un’organizzazione statale unica e rallentando, o facendo addirittura cessare, il flusso continuo di disperati che raggiungono le nostre rive dall'altra sponda.

Per l'Egitto invece questa è l'occasione buona per estendere, attraverso il cosiddetto Governo di Tobruk, la sua influenza all'intera Cirenaica. Un passo di portata non indifferente, considerato come la massa del petrolio libico proprio in Cirenaica venga estratto.

È logico, a questo punto, che Il Cairo si opponga all'ipotesi di un governo di compromesso che riporti il paese all’unità, una soluzione che invece piacerebbe molto all'Italia.

Naturalmente chi si oppone non è il governo del Cairo, bensì parte almeno di quello di Tobruk: una fazione che ora cerca di inasprire il contrasto lanciando ingiustificate accuse di violazione delle sue acque territoriali. Dietro il Generale Haftar si intravede però l’ombra del Generale Al Sisi.

Ce ne sarebbe abbastanza per iniziare a porsi dei dubbi e per chiedersi se in effetti l'Egitto non abbia in realtà cessato di essere la nostra precisa controparte politica, il nostro interlocutore preferito, quando non privilegiato, sull’altra sponda del Mediterraneo.

Sono però dubbi e domande che evitiamo accuratamente di porci, forse anche perché ciò che risulterebbe necessario al termine di una realistica analisi sarebbe una completa revisione della nostra politica con il mondo arabo.

Usa, Turchia ed Egitto sono tre casi utilizzati come esempio di rapporti da non dare per scontati e da valutare invece volta per volta, in rapporto all'obiettivo che noi e loro vogliamo conseguire nella specifica contingenza.

Se poi si passa dai paesi amici a quelli che un tempo erano considerati nemici, la Russia, la Cina, l'Iran, la conclusione è assolutamente speculare. Ma se le cose stanno così, possiamo ancora accettare che i nostri interlocutori continuino a pensare che possono darci per scontati?

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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mercoledì 18 novembre 2015

L'anno elettorale si avvicina

Usa 2016
Repubblicani, è derby della Florida
Giampiero Gramaglia
11/11/2015
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A un anno dall’Election Day, l’8 novembre 2016, la partita per la nomination repubblicana sta diventando un “derby della Florida” tra l’ex governatore Jeb Bush e il senatore Marco Rubio: una partita aperta tra mentore e discepolo, dove l’allievo appare oggi favorito sul maestro.

Nei sondaggi, sono per ora nettamente avanti Ben Carson, neuro-chirurgo nero convinto che le piramidi non siano tombe di faraoni, ma depositi di grano fatti costruire da Giuseppe, e Donald Trump, magnate dell’immobiliare che accusa la Federal Reserve di essere in combutta con la Casa Bianca.

Verso le primarie
Ma è opinione diffusa che i due campioni dell’anti-politica usciranno di scena: entrambi sono già furiosi con i media, che ne mettono a nudo contraddizioni - uomo di scienza e di fede il primo, che non crede all’evoluzione - ed esagerazioni - lo showman, Trump, che si mette contro tutti, donne, ‘latinos’, giornalisti.

E quando si cominceranno a contare i delegati alle convention, con le assemblee nello Iowa il 1° febbraio 2015 e le primarie nel New Hampshire il 9 febbraio, verranno avanti i candidati politicamente più strutturati e che hanno l’appoggio dell’establishment del partito.

Ed è proprio qui che si gioca il duello tra l’ex governatore e il senatore. Fino a ora, Jeb Bush, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, era considerato l’uomo dell’apparato del partito, nel folto gruppo di aspiranti alla nomination repubblicana.

Ma Jeb è stato finora deludente: non mostra grinta e non ha vinto nessuno dei tre dibattiti televisivi già svoltisi, anzi è sempre andato male; e nei sondaggi naviga costantemente sotto il 10%, dietro non solo Carson e Trump, ma pure Rubio e Ted Cruz, senatore del Texas, il candidato preferito dal Tea Party. Sta al quinto posto, più o meno alla pari con Carly Fiorina, l’unica donna, ex ceo di Hp, che ha fiammate nei dibattiti e poi sparisce dai radar.

Alla conquista dei voti dei latinos
Di qui alle primarie, la strada è ancora lunga, ma c’è la sensazione che la corsa repubblicana, l’unica incerta - fra i democratici, Hillary Clinton non ha praticamente rivali - possa essere a una svolta decisiva: Rubio, infatti, ha innestato la quarta e messo la freccia per superare Bush come ‘candidato dell’establishment’. Secondo un rilevamento della Monmouth University, nel New Hampshire il senatore ha triplicato i consensi in poche settimane.

Rubio è pure insidioso per Bush sul fronte dei finanziamenti, dove l’ex governatore è finora il più forte, e ha appena ottenuto il sostegno di Paul Singer, il principale donatore repubblicano.

Di Jeb, si sa più o meno tutto: 62 anni, sposato con Columbia, di origini messicane, il potenziale Bush III punta sul sostegno dell’apparato e sul voto dei ‘latinos’. Proprio come fa Rubio, che è di origini cubane: nato a Miami da genitori emigrati dall’isola, 44 anni - è il più giovane fra gli aspiranti alla nomination -, avvocato, sposato, quattro figli. Eletto deputato dello Stato, a 35 anni era presidente del Parlamento di Tallahassee. Nel 2010, puntò a divenire senatore e vinse in rimonta con largo margine, grazie anche all’appoggio di Jeb.

Il rapporto tra i due è ormai teso. Nell’ultimo dibattito, l’ex governatore l’ha chiamato in causa su più temi; il senatore ha replicato: “Non è attaccando me che vincerai. Non sono in gara contro di te o altri, qui. Io corro per la presidenza perché non possiamo eleggere Hillary per continuare le politiche di Obama”.

Rischio “scontrino-gate”
Per Rubio, però, il cammino non sarà in discesa. Intanto, si profila il rischio d’una sorta di ‘scontrino-gate’ della Florida: il senatore si appresta a pubblicare gli estratti conto della carta di credito affidatagli dal partito tra il febbraio 2005 e il novembre 2008, dopo che suoi rivali hanno ripetutamente puntato il dito su alcune spese sospette.

Rubio avrebbe usato l'American Express del partito repubblicano per spese personali: voli aerei, riunioni di famiglia, lavori in casa. Accuse che il senatore ha sempre respinto, affermando d’avere regolarmente rimborsato il partito.

Del resto, c’era da aspettarselo che Rubio finisse sotto la lente d’ingrandimento della stampa, man mano che le sue chances di ottenere la nomination repubblicana crescevano.

E c’è chi avverte che, contro di lui, potrebbero scattare pratiche di denigrazione personale rivelatesi efficaci in passato, come quando, nel 2004, George W. Bush, un imboscato del Vietnam, riuscì a mettere in cattiva luce il candidato democratico John Kerry, che in Vietnam ci era andato e vi era stato ferito. L’operazione ebbe talmente successo da divenire un sostantivo, lo ‘swiftboating’.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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giovedì 29 ottobre 2015

Stati Uniti: emergono i candidati alla presidenza

Usa 2016
Democratici tutti con Hillary, repubblicani tutti contro Trump
Giampiero Gramaglia
27/10/2015
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A cento giorni dall’inizio delle primarie, con le assemblee dello Iowa il 1° febbraio, e a poco più d’un anno dall’Election Day, fissato per l’8 novembre, le campagne democratica e repubblicana vivono due momenti totalmente diversi.

Fra i democratici, Hillary Rodham Clinton ha straordinariamente rafforzato, nel giro di dieci giorni, il suo ruolo di favorita, al punto da figurare ora quasi come ‘candidata unica’. Fra i repubblicani, invece, il plotone degli aspiranti alla nomination resta nutrito - sono ben 15 - e molto sgranato nei sondaggi.

E comincia a delinearsi una mobilitazione di partito per frenare la corsa in testa del repubblicano Donald Trump: lo showman e magnate dell’immobiliare continua a inimicarsi fette dell’elettorato non indifferenti, come donne e ispanici, compiacendo qualunquisti e populisti (quelli che alle urne poi non ci vanno).

Democratici: la candidata c’è
La posizione di Hillary, che pareva vacillante, è stata successivamente rafforzata da tre fatti. Primo. la sua prestazione nel dibattito televisivo da cui è uscita vincitrice, anche grazie all’onestà intellettuale del suo principale rivale, il senatore del Vermont Bernie Sanders, un indipendente ‘socialista’, che ha smontato le polemiche contro l’ex first lady agitate dai repubblicani (“Basta con ‘sta storia delle email - ha detto -: parliamo di ciò che interessa gli americani, parliamo dei 27 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà”).

Secondo: la decisione del vice-presidente Joe Biden, forse pure influenzata dalla sua performance televisiva, di non scendere in lizza.

Terzo: la calma e convincente testimonianza resa per 11 ore davanti alla Commissione d’Inchiesta del Senato sui fatti dell’11 settembre 2011, quando lei era segretario di Stato. Quelli che costarono la vita all’ambasciatore Usa in Libia Christophere Stevens e ad altri cittadini americani.

Sia nel dibattito che di fronte alla Commissione d’Inchiesta, Hillary è parsa molto presidenziale, fugando alcuni dubbi sulla sua tenuta insinuatisi durante l’estate. In lizza con lei, oltre a Sanders, troppo a sinistra per essere candidabile, resta solo un comprimario, l’ex governatore del Maryland Thomas O’Malley.

Con una punta d’invidia, il politologo repubblicano Fergus Cullen constata: “In due settimane, Hillary s’è trasformata da incerta battistrada in candidata quasi sicura”, da ‘ferro vecchio’ usurata dalla politica e dalle polemiche a indomita combattente.

La situazione non è però senza rischi, per la Clinton e per i democratici: senza Biden in campo, Hillary dovrà continuare a logorarsi facendo la corsa in testa, unico bersaglio di tutti gli attacchi; e se lei ‘fora’, o inciampa in qualche scheletro nell’armadio o in quella nemica perfida che è l’antipatia che suscita in parte dell’elettorato, i democratici non hanno una ruota di scorta pronta.

Repubblicani: candidato cercasi
Diversa, se non opposta, la situazione fra i repubblicani: c’è una pletora di aspiranti alla nomination e, in testa alla corsa, ci sono i campioni dell’anti-politica che il partito giudica votati alla sconfitta nelle elezioni.

Intanto, al Congresso i deputati gettano benzina sul rogo del qualunquismo, non riuscendo a decidere chi debba essere il nuovo speaker, dopo le brusche dimissioni di John Boehner, esasperato dalle divisioni intestine e dagli attacchi degli iper-conservatori e del Tea Party.

Le difficoltà di Jeb Bush, non solo nei sondaggi, ma anche economiche, indeboliscono la convinzione che alla fine l’ex governatore della Florida, il candidato preferito dall’establishment, riesca a emergere come vincitore: gli ci vuole un colpo d’ala alla Clinton - il terzo dibattito televisivo gliene offre l’opportunità a breve.

Campagna anti-Trump
E così c’è chi si mobilita per organizzare almeno una campagna anti-Trump, nel tentativo d’evitare che i danni fatti da ‘pel di carota’ Danny diventino irreparabili.

Secondo The Club for Growth, influente gruppo conservatore basato a Washington, che ha speso un milione di dollari in annunci contro Trump, recenti sondaggi nello Iowa mostrano che la leadership dello showman s’indebolisce. E molti pensano che la sua ascesa sia in stallo, che la sua corsa si sia fermata. Anche qui, il dibattito sarà una cartina di tornasole.

Secondo Fred Malek, un donatore repubblicano citato dall’Associated press, “a questo punto non c’è una singola alternativa a Trump”: nessuno dei presunti tenori repubblicani, come i senatori Marco Rubio e Ted Cruz o il governatore Chris Christie, senza dimenticare Bush, va in doppia cifra nei sondaggi.

Ci vorrebbe il balzo in avanti di qualcuno, magari al prossimo dibattito. Perché, se no, l’avversario di Trump è Ben Carson, un ex neuro-chirurgo nero, iper-conservatore e senza esperienza politica, che nei sondaggi si attesta attorno al 20% e che è capace d’attirare fondi.

Un po’ come saltare dalla padella sulla brace.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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mercoledì 14 ottobre 2015

Colombia: un accordo duraturo?

America Latina
Se Bogotà e le Farc fanno davvero la pace
Carlo Cauti
07/10/2015
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Da un lato un conflitto lungo 50 anni, con 220mila morti, 7,6 milioni di persone colpite direttamente o indirettamente dai combattimenti e una grande eredità di dolore, rabbia e violenza.

Dall'altro un’immagine del gesto per antonomasia contrario alla violenza: una stretta di mano. Quella avvenuta il 23 settembre a l’Havana tra il presidente colombiano, Juan Manuel Santos, e il comandante delle Farc, Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, Rodrigo Londoño Echeverri, nome di battaglia "Timochenko".

Un’immagine che suggella l’annuncio che in meno di sei mesi sarà raggiunto un accordo definitivo tra le due parti, permettendo alla Colombia di iniziare a pensare seriamente alla pace.

Non è la prima volta che il governo di Bogotà e le Farc dicono di aver raggiunto un accordo.

In tutte le occasioni precedenti gli impegni presi erano stati però sistematicamente violati da entrambe le parti. L’ultima stretta di mano era avvenuta nel febbraio del 2001, quando l’allora presidente colombiano, Andrés Pastrana, aveva incontrato il capo della guerriglia comunista, Manuel Marulanda, nel tentativo di portare avanti il dialogo di El Caguán.

Un compromesso che non aveva prodotto alcun risultato pratico, se non l’intensificarsi del conflitto e un irrigidimento del successivo governo colombiano, guidato da Álvaro Uribe, con Santos ministro della Difesa.

L’annuncio del 23 settembre rappresenta l’ultima tappa di un lungo percorso negoziale iniziato a Cuba nell’ottobre 2012.

Un’agenda basata su sei grandi punti: la riforma agraria, la partecipazione politica dei guerriglieri, la soluzione al problema della coltivazione, consumo e traffico di droga, la creazione di una “Commissione della Verità” a composizione mista, le modalità di deposizione delle armi, la realizzazione di un referendum sull’accordo di pace e alcune modifiche da apportare alla Costituzione colombiana.

Diversi punti hanno già trovato un accordo, gli altri dovranno essere discussi entro il marzo 2016.

Tempi chiari e accordo sulla punizione dei crimini di guerra
L’annuncio dell’accordo di pace è importante perché, per la prima volta, si pone un termine temporale preciso per il raggiungimento di un accordo di pace definitivo tra le Farc e il governo colombiano: il 23 marzo 2016.

In nessuno dei negoziati precedenti si era mai fissata una data ultima per il raggiungimento di un accordo finale. Se questa scadenza dovesse essere rispettata, si porrebbe definitivamente fine all’ultimo e più lungo conflitto non solo della Colombia, ma di tutto il continente americano.

In secondo luogo l’accordo è importante perché risolve uno dei punti più spinosi dell’intero negoziato di pace: la punizione dei crimini commessi da ambo le parti durante i cinque decenni di conflitto.

Sia i guerriglieri della Farc che i membri delle Forze armate colombiane, così come i civili che hanno preso le armi, saranno giudicati per i crimini eventualmente commessi. Una riduzione di pena sarà concessa a coloro che si impegneranno a deporre sul proprio ruolo all’interno del conflitto, che daranno informazioni utili alle autorità e che offriranno indennizzi alle vittime.

Si tratta di un passo storico per il processo di pacificazione nazionale colombiano, ma ha un risvolto non secondario anche a livello internazionale, rappresentando un importante precedente per la risoluzione di altri conflitti armati in tutto il mondo.

Cuba e Vaticano mediatori di pace
La foto che ritrae la stretta di mano tra Santos e Timochenko, con Raul Castro che unisce simbolicamente i due ha infine un innegabile impatto mediatico perché rafforza l’azione degli esponenti del governo e dei leader della guerriglia che vogliono il raggiungimento effettivo di una pace duratura, mettendo in luce anche la mediazione di Cuba.

E a mediare è stato anche il Vaticano. Seppur indirettamente, attraverso discorsi e omelie, papa Francesco è stato molto importante per il raggiungimento dell’accordo. A dimostrazione di ciò, i vertici vaticani erano stati informati con tre giorni di anticipo dell’annuncio dell’Havana.

Un futuro ancora incerto
La fine del conflitto e la stabilizzazione definitiva della Colombia potrebbero rappresentare un trampolino di lancio formidabile per una delle economie più dinamiche dell’America Latina.

Nell’ultimo decennio, pur dovendo far fronte alla guerriglia e al narcotraffico, il Paese ha vissuto un momento di forte crescita economica. Negli ultimi anni la classe media colombiana è raddoppiata, arrivando al 30% della popolazione e il tasso di povertà è stato ridotto dal 50% al 35%.

Il tutto accompagnato da un’inflazione sotto controllo, un elevato flusso di investimenti diretti esteri e un “business environment” che la Banca Mondiale colloca in 34° posizione (l’Italia è al 56° posto). La fine del conflitto potrebbe essere l’inizio di un periodo di grande prosperità economica per la Colombia.

Tuttavia, rimangono ancora importanti incognite. Innanzitutto se, a differenza del passato, all’annuncio seguiranno fatti concreti. Le sole Farc contano con oltre 8.500 guerriglieri, e non è da escludersi che non tutti siano favorevoli all’accordo.

Inoltre, il governo di Bogotà dovrà riuscire a spiegare ai cittadini colombiani i vantaggi di questo processo di riconciliazione con la guerriglia, affrontando lacerazioni sociali difficilmente sanabili.

Infine, rimane aperto il fronte con i paramilitari dell’Esercito di liberazione nazionale, che pur essendo in numero inferiore rispetto alle Farc - circa 4.000 uomini - non rientrano nei negoziati di pace e potrebbero approfittare del disarmo dei guerriglieri comunisti per occuparne le posizioni e i territori.

Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile. Collabora regolarmente condiverse testate italiane e brasiliane.
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venerdì 9 ottobre 2015

Stati Uniti: le parole di Bergoglio

Vaticano
Blitz di Francesco nella politica Usa 
Aldo Maria Valli
29/09/2015
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Sbarcato negli Usa a circa quattrocento giorni dalle elezioni che porteranno alla Casa Bianca il successore di Barack Obama, papa Francesco ha toccato tutti i temi caldi al centro del dibattito statunitense: immigrazione, cambiamenti climatici, armi, pena di morte, Cuba, matrimoni gay, aborto. E a conti fatti si è schierato più dalla parte dei democratici che dei repubblicani.

Davanti al Congresso, a maggioranza repubblicana, il papa è stato tutto sommato sbrigativo su aborto e famiglia, mentre ha calcato molto di più la mano quando ha chiesto di abolire la pena di morte e ha tuonato contro il commercio e l’uso delle armi.

Inoltre, se a proposito di ingiustizie sociali, capitalismo, finanza e globalizzazione ha usato accenti più morbidi del solito, è stato invece esplicito a proposito di immigrazione, specie quando ha ricordato di essere “come molti tra di voi, figlio di immigrati” e quando ha chiesto di “considerare i migranti come persone, guardando i loro visi, ascoltando le loro storie, cercando di rispondere al meglio ai loro bisogni”.

Bergoglio in sintonia con i democratici 
Anche se è sempre fuori luogo giudicare gli interventi di un papa in base alla logica della contrapposizione politica, è indubbio che la sintonia tra Francesco e i democratici è risultata piuttosto marcata.

Le figure che Francesco ha scelto come esempi di autentica vita ispirata al sogno americano (Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day, Thomas Merton) appartengono al mondo democratico molto più che a quello repubblicano. E, parlando di loro, il papa non ha esitato a usare espressioni tipiche del vocabolario democratico come pace, dialogo, diritti, lotta per la giustizia, causa degli oppressi.

Il passaggio nel quale Francesco ha chiesto di guardarsi da ogni forma di fondamentalismo è stato applaudito da tutta l’assemblea, ma quando, subito dopo, ha esortato a non dividere il mondo in modo semplicistico tra giusti e peccatori è sembrato pensare a certi atteggiamenti di casa soprattutto nell’universo repubblicano. Idem per quanto riguarda la politica (che non deve essere al servizio dell’economia e della finanza), la lotta alla povertà, la difesa dell’ambiente.

Francesco, in ogni caso, comunica anche con i gesti e quindi sono state altamente significative le sue visite ai più deboli ed emarginati, ai poveri, ai senza casa, ai migranti, ai detenuti (dove ha ricordato con forza che scopo della pena deve sempre essere il reinserimento sociale, non una sorta di vendetta).

“Papa Francesco ci sta mostrando e insegnando che si può ottenere molto più di quel che pensiamo possibile. Sto cercando di seguire il suo esempio”, ha commentato pieno di entusiasmo il sindaco democratico di New York, Bill De Blasio, mentre da parte repubblicana (dove ci sono cinque candidati alla Casa Bianca dichiaratamente cattolici: Bush, Rubio, Christie, Kasich e Jindal) si possono registrare al più le lacrime dello speaker (anche lui cattolico) del Congresso, John Boehner, seguite dalle dimissioni in polemica con l’ala destra del suo partito.

I repubblicani prendono le distanze da Bergoglio 
Tra i repubblicani solo l’uomo nuovo del partito, il neurochirurgo afroamericano Benjamin Carson, non si è schierato apertamente contro il discorso di Francesco al Congresso, mentre Ted Cruz, rappresentante della destra cristiana, noto per i suoi frequenti riferimenti a Dio, ne ha preso le distanze.

In generale Francesco ha espresso la convinzione che un’alleanza tra pensiero cristiano e modernità è non solo possibile, ma necessaria. Anche in questo caso la sua linea si scontra con quella di buona parte dello schieramento repubblicano che punta piuttosto alla conservazione e al recupero di alcuni sacri principi.

Il soft power di Bergolio
Al di là delle contrapposizioni politiche, Francesco ha colpito buona parte dell’opinione pubblica statunitense con la sua autorevolezza fatta di semplicità è umiltà.

Il suo è un ‘soft power’, ha sostenuto David Ignatius sul Washington Post, che esercita un certo fascino su una società ormai abituata ai toni esasperati: “Questo papa è forte perché è umile. In un mondo complesso, il suo messaggio ha risonanza perché è semplice”. “Se tu hai un problema con papa Francesco vuol dire che hai un problema con Cristo” è arrivato a scrivere un non cristiano come il giornalista e scrittore Fareed Zakaria.

“Mi ha sorpreso il calore della gente”, ha detto Bergoglio conversando con i giornalisti durante il volo di rientro. Il papa si è detto colpito “dalla bontà, dall’accoglienza, dalla pietà, dalla religiosità”, e “si vedeva pregare la gente”.

A questa America il suo messaggio è sicuramente arrivato. E la condanna decisa, reiterata, accompagnata da scuse esplicite, per tutti i casi di abusi e pedofilia, permette alla Chiesa cattolica statunitense di rialzare legittimamente la testa.

Il che non è poco considerata la “grande tribolazione” (parole di Francesco) attraverso cui è passata negli ultimi anni.

Aldo Maria Valli è vaticanista di Rai1.
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mercoledì 23 settembre 2015

USA: il sacrificio di colore rosa

Guerra al terrorismo
Usa, il sangue delle donne soldato, 161 cadute
Stefano Latini
08/09/2015
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La guerra comporta, sempre, delle perdite. Il rituale statunitense, come del resto in altri Paesi, prevede la visita d’un ufficiale in alta uniforme, accompagnato da un sottoposto, che si reca presso la residenza del militare caduto per informare la famiglia della perdita con gli onori dovuti.

Generalmente le immagini di rito riproducono la moglie o i figli in lacrime. Questo rituale ha resistito a lungo, ma la realtà della guerra globale al terrorismo ingaggiata dagli Stati Uniti oramai da un quindicennio - ma il primo tassello si può fare coincidere con l’operazione Desert Storm, in Kuwait - racconta una storia diversa.

Sempre più spesso, infatti, ad aprire le porte agli ufficiali o a ricevere gli onori e i ringraziamenti di prassi non sono più le donne, le mogli, ma gli uomini, i mariti, i compagni d’un numero crescente di donne soldato impegnate sui diversi fronti della guerra al terrorismo internazionale, quasi 300mila.

I numeri delle donne in armi
I dati trasmessi recentemente dagli uffici della Difesa al Congresso hanno ridestato un tema che le emergenze, economiche e finanziarie, avevano retrocesso fin dentro la categoria del “fuori agenda”.

I numeri hanno rivelato che le donne soldato non solo sono attive e presenti in aree di combattimento, ad alto rischio, ma partecipano largamente ad operazioni dirette e mirate durante le quali il contatto con il nemico è non solo inevitabile, ma cercato.

E così i numeri raccolti ed elaborati per il Congresso dal Dipartimento della Difesa hanno esibito una lunga lista di nomi di donne cadute in combattimento nel corso delle operazioni condotte in Iraq e in Afghanistan.

Non si tratta di perdite dettate dal caso, ma di donne cadute in azioni aperte di combattimento, gestite dai vertici dei comandi. Ad andarsene sono state ben 161 donne in uniforme, e di queste 51 hanno perso la vita nel quadro delle operazioni Enduring Freedom, mentre 110 nel quadro di Iraqi Freedom. E non è tutto.

Le donne che hanno riportato gravi ferite in combattimento sono state 1.015. Dato quindi che ridisegna la cornice dell’impegno militare delle donne statunitensi sui teatri di guerra a più alto rischio e, allo stesso tempo, rivela come a discapito delle norme che fino al 2013 hanno comunque impedito del tutto l’impiego di personale femminile in zone di combattimento, escludendole dal poter accedere a determinate posizioni in specifiche unità d’intervento e quindi precludendo anche avanzamenti di carriera, la realtà ha invece finito per includere comunque le donne in episodi e aree di aperto conflitto sopravanzando le norme vigenti.

Alcuni organi di controllo hanno rilevato come all’apice dello scontro e della guerra al terrorismo internazionale fossero ben 14mila le donne di stanza in Iraq e in Afghanistan in possesso d’un Combat Action Badge che di fatto autorizza il militare ad essere impiegato in aree di combattimento, con un rischio elevato di scontro.

Dunque, a dispetto della legge le donne sono state ampiamente dispiegate in zone di guerra e non confinate presso le unità e i servizi logistici, medici o di coordinamento e di comunicazione.

Quando la realtà supera la legge
Il Congresso ha così appreso che le sue leggi non sono state rispettate alla lettera. Il perché è stato spiegato nei rapporti trasmessi dai responsabili dei diversi fronti. Gli interventi in Iraq e in Afghanistan, e più in generale la guerra al terrorismo globale, non ammettono più un limes di combattimento predefinito o comunque flessibile ma sempre identificabile geograficamente.

Al contrario, le zone ad alto conflitto mutano e si diversificano senza alcun preavviso, tanto da generare un confine frazionato e frammentato, osservando il quale diventa anche difficile comprendere e aver ben chiaro da dove proviene la minaccia e chi ne è il responsabile primario.

Dato questo nuovo scenario, confinare in via indefinita le donne che prestano il loro servizio entro applicativi e procedure militari schematiche e tradizionali avrebbe cozzato con le esigenze sul terreno derivanti dalla nuova realtà di guerra. Di qui il ricorso, comunque condizionato, all’attribuzione dei Combat Action Badge anche alle donne.

Le figure delle donne soldato
Se questo è lo scenario non stupisce che tra i militari che hanno ricevuto in questi anni alte decorazioni per la condotta tenuta in combattimento, due Silver Star Medal siano state assegnate a delle donne, mentre altre 160 abbiano comunque ricevuto encomi e medaglie varie, sempre per il comportamento tenuto in azione, cioè in combattimento.

Donne in armi quindi che i mutamenti reali, come già avvenuto durante le lotte per l’Indipendenza, nel corso della Seconda Guerra mondiale e ora, hanno spinto entro i confini militari tradizionalmente di competenza degli uomini.

Durante la guerra che nel 1776 affrancò le colonie dalla Gran Bretagna l’eroina donna fu Margaret Cochran Corbin, che l’anno successivo fu la prima donna a ricevere una pensione di guerra negli Stati Uniti. Poi fu la volta della guerra contro il nazi-fascismo che vide impegnate, anche questa volta in parte a discapito delle norme vigenti, ben 400mila donne in diversi corpi e unità sia militari che civili.

Ora la storia si ripete con la guerra al terrorismo internazionale che ha già visto mobilitate e impegnate su fronti disparati quasi 300mila donne soldato e che, a differenza di quanto accaduto in passato, ha riscritto alcune norme fondanti l’esercito degli Stati Uniti, dischiudendo alle donne anche la possibilità di poter essere assegnate ad unità di combattimento e dando così impulso alla carriera e ad una partecipazione sempre più crescente delle donne tra i quadri militari.

La loro percentuale oggi ha raggiunto il 15-16%del totale dei militari censiti. Anche tra gli ufficiali le percentuale di donne è la stessa, il 16% per l’esattezza.

Come muta la storia, Mikayla Bragg
Mikayla Bragg, arruolata e trasferita con la sua unità in Afghanistan aveva 21 anni. La sua vicenda riassume un mutamento forte della società americana. Le donne guardano all’esercito, nonostante i rischi che comporta: una soluzione di vita, un progetto, idee per uscire dalla palude delle cornici personali che ogni individuo porta con se. Mikayla Bragg fu colpita durante un assalto ad un posto di guardia che lei stessa pattugliava ai confini con il Pakistan.

La sua morte ha un rilievo simbolico per le ragioni che la condussero ad optare per l’esercito. La prima, necessità economiche generali. La seconda, il college cui ambiva richiedeva un forte impegno finanziario, denaro, liquidità che l’arruolarsi e partire per l’Afghanistan avrebbe potuto garantire, a rischio della vita.

Ecco, il punto è questo: dopo aver cambiato la normativa e aver aperto le porte dell’esercito alle donne, in cerca di una neutralità di genere in fatto di armi, ora in molti iniziano a interrogarsi sul limite accettabile delle ragioni che motivino una donna, o un uomo, ad imbracciare le armi. Difficile che il Congresso conosca la risposta.

Stefano Latini, Ufficio stampa, Agenzia delle Entrate.
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giovedì 17 settembre 2015

VERTICE SULLA SALVAGUARDIA DELLE FORESTE LATINOAMERICANE


Organizzato dal Servizio nazioale forestale e dalla fauna silvestre peruviana, con il patrocinio dell’Organizzazione dell’ONU per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) e dall’Organizazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica (Otca) si è svolto nel mese di giugno un incontro a Tarapoto, Perù, per definire criteri e indicatori di sostenibilità per le foreste amazzoniche.
L?obiettivo è di contribuire ad un uso non distruttivo ma ecocompatibile delle risorse naturali boschive.
 Sono stati messi alo studio appositi indicatori per monitorare e valutare i progressi compiti al fine di favorire alcune concrete azioni da parte degli enti interessati, nonché delle comunità indigene. Tali strumenti aiuteranno a prevedere gli effetti degli interventi nelle aree boschive. In particolare dovranno monitorare l’estensione delle risorse forestali, le biodiversità. La salute e la vitalità dei boschi, le funzioni produttive dei boschi, i benefici socioeconomici ed i quadri legali, politi ed istituzionali.


A margine dell’incontro il Perù, primo paese latinoamericano ha annunciato il suo piano di azione per ridurre le emissione di gas nocivi contenente le azioni previste e determinate a livello nazionale, che presenterà al più presto alla Convenzione Quadro dell’Onu sul Cambio Climatico.

Massimo Coltrinari

sabato 5 settembre 2015

USA: la corsa alla Casa Bianca

Corsa alla nomination
Usa 2016: è l’estate di Trump, ma conta poco
Adriano Metz
26/08/2015
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Ha un’estate di vantaggio sui rivali, ma è l’estate sbagliata: questa serve solo a riempire i giornali, la prossima riempirà di voti le urne. Spendendo a dismisura e sparandole grosse, Donald Trump, magnate dell’edilizia e showman, balla l’agosto 2015 in testa ai sondaggi fra la pletora di candidati alla nomination repubblicana, anche se nessuno gli presta chances di ottenerla.

Lui ci sta dando dentro a fondo; gli altri misurano le forze, e i denari, perché la gara è lunga, di qui all’Election Day dell’8 novembre 2016: mancano 150 giorni all’inizio delle primarie. Una corsa così faticosa che rischi di finire in apnea. Ma Donald il rosso (per via dei suoi improbabili capelli) non se ne cura: a corto di soldi, lui non rischia di restare; e deve invece acquisire politicamente notorietà e credibilità.

La popolarità di Trump trae vantaggio dall’appannamento dei due favoriti per Usa 2016: Jeb Bush, repubblicano, rispettivamente figlio e fratello del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, e Hillary Rodham Clinton, democratica, già first lady, senatore dello Stato di New York e segretariodi Stato.

Jeb patisce la prestazione scolorita nel dibattito coi rivali repubblicani del 6 agosto, che gli ha fatto perdere punti. Hillary subisce un’erosione di popolarità per lo scandalo Emailgate – quand’era segretario di Stato, usava un account privato, anziché quello ufficiale.

Inoltre, essendo, di fatto, l’unico serio candidato democratico, gli attacchi dei repubblicani si concentrano tutti su di lei. Senza contare che l’ex first lady comincia a fare i conti con l’antipatia che buona parte dell’opinione pubblica degli Stati Uniti nutre per lei.

Al punto che l’ipotesi, sempre più probabile, di una discesa in campo del vice-presidente Joe Biden, un politico esperto e rispettato, ma non certo un trascinatore, viene letta in modi opposti. C’è chi vede in Biden una ruota di scorta democratica, su cui puntare se la Clinton non decolla e/o inciampa; e c’è chi lo considera, invece, una sorta di frangiflutti, che, attirando su di sé parte degli strali dei repubblicani, lascerebbe Hillary meno esposta alle critiche.

Il puzzle degli aspiranti alla nomination repubblicana alla Casa Bianca non perde per ora i pezzi, ma si sfilaccia, dopo il dibattito televisivo in prima serata su Fox News.

Il confronto a Cleveland nell’Ohio, uno degli Stati chiave per la Casa Bianca, è stato il primo di sei, con regole di selezione dei candidati ciascuno diverse: il prossimo andrà in onda sulla Cnn il 16 settembre da SimiValley, in California, dove c’è la biblioteca presidenziale di Ronald Reagan. Gli altri saranno il 28 ottobre sulla Cnbc e, poi, uno al mese a novembre, dicembre, gennaio, tutti prima dell’inizio delle primarie, il 1° febbraio nello Iowa e il 9 febbraio nel New Hampshire.

Sui rivali di partito, Trump fa pure valere il fattore soldi, senza peritarsi di aprire fronti di polemica a raffica, alcuni dei quali alla fine gli si ritorceranno contro: gli immigrati, le donne, gli avversari. Esprime posizioni controverse, come l’abolizione dello ‘ius soli’ e l’erezione di un muro al confine tra il Messico e il Texas; usa un linguaggio volutamente “scorretto”; insulta ‘latinos’ e giornaliste; colleziona gaffes: conquista elettori, ma molti se ne aliena.

Pare Gastone, di questi tempi: i contrattempi diventano colpi di fortuna. Una corte di New York l’aveva convocato come potenziale giurato: un fastidio per tutti, figuriamoci per lui, che, a marzo, aveva già avuto un’ammenda di 250 dollari per non avere risposto a cinque convocazioni dal 2006 - inviate all’indirizzo sbagliato, è la tesi difensiva.

Stavolta, Trump è andato e, davanti a una selva di telecamere, s’è detto pronto a fare il suo dovere di cittadino. Ne è uscito uno spot; e manco l’hanno preso.

Gli fanno pure gioco le ‘rivelazioni’, poco suffragate dai fatti, in verità, del Sunday Times, secondo cui Trump sarebbe stato tra i corteggiatori della principessa Diana: dopo il divorzio con Carlo, l’avrebbe ‘bombardata’ di mazzi di fiori da centinaia di sterline l’uno. Un portavoce del magnate, interpellato dal Sunday Times, ha detto che "i due si piacevano molto”, ma che “tra loro non c'è stato mai nulla".

Trump è pronto a spendere, se necessario, anche un miliardo di dollari della sua fortuna personale: lui, a differenza degli altri, non ha bisogno di finanziamenti e non è condizionabile dai lobbisti.

Ma c’è chi giudica apriori la spesa uno spreco, perché, tanto, non gli varrà la nomination. E l’esibizione della ricchezza può pure essere un handicap: l’imprenditore, che dispone di una flotta aerea, preferisce muoversi in auto nello Iowa, per non urtare la parsimonia degli abitanti.

Fra i suoi rivali, invece, c’è chi non ha più un dollaro in tasca o quasi: l’ex governatore del Texas Rick Perry non paga più lo staff della sua campagna, che continua a lavorare per lui per volontariato. Fino a quando?

Le possibilità che Trump possa diventare presidente e attuare il suo programma sono infime: ha contro l’establishment del partito e ha l’handicap di polarizzare l’opinione pubblica. Se un conservatore su quattro è con lui, tre su quattro non lo vogliono proprio. E, se dovesse presentarsi da indipendente, come ha già ipotizzato, non avrebbe la forza di vincere - ma condannerebbe alla sconfitta il candidato repubblicano.

L'elettorato qualunquista e anti-politica apprezza le dichiarazioni senza peli sulla lingua - ormai il suo marchio di fabbrica - di ‘Donald il rosso’, uscito dal dibattito di Cleveland sempre più in testa al gruppo, con quasi un quarto delle preferenze della platea repubblicana(23%).

Invece, il dibattito non ha giovato a Bush e neppure al governatore del Wisconsin Scotto Walker. Bene i senatori del Texas Ted Cruz e della Florida Marco Rubio, il neurochirurgo Ben Carson, l’unico nero, e la manager Carly Fiorina (ex ceo di Hp), l’unica donna.

Fra i democratici, Hillary Rodham Clinton continua a contare su oltre il 50% dei consensi, davanti al senatore indipendente Bernie Sanders (17%) e all'attuale vice-presidente JoeBiden (13%), che non è ancora sceso in lizza. In un ipotetico match con Trump, l'ex segretario di Stato è nettamente in vantaggio in tutti i rilevamenti, ma lo showman ha ridotto il distacco a meno di 10 punti.

Adriano Metz è giornalista freelance.


Usa 2016: nomination, in corsa 17 repubblicani e 3 democratici / SCHEDA
È ridotta all’osso la lista dei concorrenti alla nomination democratica per Usa 2016, finora solo tre, forse perché Hillary Rodham Clinton toglie ossigeno ai rivali. È numerosa come non mai, invece, quella dei repubblicani, 17, perché nessuno la fa da padrone nei pronostici.

Fra i repubblicani, hanno già ufficialmente annunciato la loro candidatura, quattro senatori e un ex senatore, quattro governatori e cinque ex governatori, una manager - Carly Fiorina, che è stata amministratore delegato della Hewlett/Packard ed è l’unica donna -, un famoso neuro-chirurgo - Ben Carson, iper-conservatore e l’unico di colore in corsa nei due schieramenti -, e l’eccentrico notissimo miliardario Donald Trump.

I senatori, tutti esordienti nella competizione, sono, in ordine di candidatura, Ted Cruz, del Texas, vicino al Tea Party; Rand Paul, del Kentucky, libertario; Marco Rubio, della Florida, cubano d’origine; e Lindsey Graham, della South Carolina, esperto di sicurezza e difesa. L’ex senatore è Rick Santorum della Pennsylvania, un reduce della corsa, cattolico integralista.

Gli ex governatori sono, sempre in ordine di candidatura, Mike Huckabee, Arkansas, il veterano per antonomasia delle primarie, che frequenta dal 2008, oggi ben piazzato nei sondaggi; George Pataki, Stato di New York, sceso in lizza in punta di piedi; Rick Perry, Texas, che ci riprova dopo il flop del 2012, ricordando d’avere guidato per tre mandati la 12° economia mondiale; Jeb Bush, Florida, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti; e Jim Gilmore, Virginia, l’ultimo a scendere in lizza in assoluto.

I governatori, tutti esordienti, si sono tutti svegliati tra giugno e luglio: quello del New Jersey, Chris Christie, la cui popolarità s’è un po’ appannata, causa scandali e chiacchiere, è un ‘pezzo grosso’, non solo per la stazza, dello schieramento repubblicano meno conservatore; quello della Louisiana, Bobby Jindal, di origine indiana, la cui popolarità è alta solo nel suo Stato; quello del Wisconsin Scott Walker, uno che la ce la può fare; e quello dell'Ohio John Kasich, che nessuno attendeva.

A fronte di questa legione, i tre democratici: Hillary Rodham Clinton, ex first lady, ex senatore dello Stato di New York, ex segretario di Stato, candidata alla nomination nel 2008, quando fu battuta da Barack Obama, e gli outsiders Bernie Sanders, senatore del Vermont che si autodefinisce ‘socialista’ e l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley. A loro starebbe per aggiungersi l’attuale vice-presidente Joe Biden, politico di lungo corso, a più riprese senatore del Delaware.
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giovedì 13 agosto 2015

Stati Uniti: accordi cn la Turchia contro ISIS

Tra curdi e jihadisti
Usa-Turchia in Siria: nulla di strategico
Roberto Aliboni
04/08/2015
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Nello scorcio di luglio Stati Uniti e Turchia si sono accordati per la costituzione di un’area di esclusione del sedicente Stato islamico (Is o Isis) alla frontiera turco-siriana.

L’area in questione è quella a strisce grigie e verdi nella cartina dell’Institute for the Study of War. Sarà lunga circa 68 miglia lungo la frontiera. Non pare ancora definita la sua profondità: si parla di circa 20 miglia. La cartina dello Isw fa l’ipotesi che arrivi a comprendere al-Bab e al- Manbij, attualmente due piazzeforti dell’Is - dalle quali perciò quest’ultimo dovrà essere sloggiato.

L’accordo è stato presentato dai due governi in un’ottica anti-Stato islamico. La Turchia e gli Usa assicureranno una forte copertura aerea alle forze siriane non radicali o moderate che combatteranno l’Isis sul terreno onde respingerlo e strappargli territorio.

Un accordo dalle motivazioni in chiaroscuro
Perché questo accordo? Gli Stati Uniti ottengono dalla Turchia l’accesso alla base aerea di Incirlik. Ciò indubbiamente allarga dalla Siria occidentale e centrale a quella nord-orientale il raggio d’azione dell’aviazione americana e della coalizione anti-Isis e quindi rafforza la lotta all’Isis.

Meno chiare sono le motivazioni del governo turco, che notoriamente ha come nemico numero uno Assad, non gli jihadisti, e ha sin dall’inizio guardato ai qaedisti e poi all’Isis come a un contributo oggettivamente utile alla lotta contro il regime di Damasco.

Ovviamente il grave attentato di Suruç attribuito all’Isis ha toccato la sicurezza interna turca, ha sollevato critiche al governo per la sua cattiva prassi filo-jihadista e ha reso necessaria una risposta. Ma dalle prime operazioni turche nella costituenda zona di sicurezza si è subito capito che l’obiettivo reale e primario dei turchi sono i curdi.

Per Erdoğan, l’obiettivo sono i curdi
Da una parte, il governo Erdoğan è preoccupato dai successi militari dei curdi siriani, proprio alla frontiera con la Turchia, sotto la guida del Partito di Unione Democratica (Pyd), cugino primo del Pkk.

Se si guarda la cartina dello Isw, si nota che la zona di sicurezza non a caso si incunea fra le due zone curde (nell’estrema punta nord-occidentale della Siria e a nord di Aleppo), onde impedire qualsiasi possibile congiungimento.

Dall’altra, il successo del partito curdo Chp alle recenti elezioni costringe Erdoğan a un governo di coalizione che egli non vuole: la minaccia alla sicurezza che si è manifestata a Suruç e quella che viene dalla prodezza militare curda possono essere utilmente unite per convincere la nazione di un sovrastante pericolo curdo e della necessità di una leadership nazionale forte, per rifiutare quindi ogni coalizione di governo e rifare le elezioni in un’atmosfera favorevole ai disegni di solitaria grandezza del leader turco.

L’incognita dell’opposizione siriana moderata
A tutto questo si deve aggiungere che non è affatto chiaro quali sarebbero le forze siriane moderate o non radicali che attuerebbero sul terreno la zona di sicurezza. Queste forze praticamente non esistono: sono state ripetutamente battute e annientate da quelle radicali nei mesi passati.

Solo nella zona di Deraa si è radicata una costellazione di forze con sembianze moderate. Nel resto della Siria tali forze non ci sono o sono irrilevanti. È noto che i ribelli addestrati dall’apposito programma americano in Giordania dovevano costituire una forza di 5400 uomini che si è ridotta a 54 elementi. Proprio qualche giorno fa, infine, alcuni ufficiali di questa forza minimale sembra che siano stati catturati, un po’ ignominiosamente, da Jabath al-Nusra.

In considerazione di queste diverse circostanze, la maggior parte dei commenti degli analisti e della stampa ritiene l’iniziativa della zone di sicurezza in alleanza con la Turchia sbagliata e dannosa dal punto di vista degli Usa.

L’alleanza sembra servire gli obiettivi anti-curdi, anti-Assad e di politica interna di Erdoğan e dell’Akp, obiettivi che restano diversi da quelli di Washington e che potrebbero danneggiarli.

Un’iniziativa contro gli interessi degli Usa?
Gli Usa hanno come nemico l’Isis e non Assad. Hanno infatti escluso che la zona di sicurezza sia anche una “no-fly zone” - come i turchi hanno sempre desiderato che debba essere - lasciando così aperta la porta ad interventi aerei di Damasco.

Inoltre, e forse soprattutto, non è chiaro come gli Usa possano essere da un lato alleati dei curdi contro l’Isis e, dall’altro, alleati della Turchia che invece colpisce i curdi. Queste circostanze invece di aiutare la coalizione anti-Isis infliggerebbe un duro colpo alla coalizione e agli Usa.

Nel teatro siriano l’ambiguità è la regola. Tuttavia, alcuni cambiamenti recenti nella regione possono dare della politica americana una prospettiva diversa e giustificarla.

In primo luogo, la politica Usa è sempre più concentrata sulla missione contro il terrorismo e subordina sempre più spietatamente a questo ogni altro obiettivo. La politica siriana degli Usa punta all’uscita personale di Assad dalla scena ma non al collasso del regime, perché, essendo assente ogni significativa forza moderata di opposizione, questo collasso metterebbe semplicemente la Siria nelle mani dei jihadisti.

La posizione americana si è avvicinata a quella russa ed è possibile che l’amministrazione veda questo avvicinamento come un’utile carta sul piano più generale dei rapporti fra l’Occidente e la Russia.

Dunque, i turchi agiranno nella convinzione di strumentalizzare gli americani contro Assad. Ma gli americani resteranno certamente fermi nel valutare l’importanza del regime per la stabilità della Siria e, diversamente dall’Akp, hanno in questo forti alleati che sosterranno in Siria il loro pragmatismo piuttosto che gli obiettivi di Ankara.

La vicinanza di Washington ai curdi
Metteranno a repentaglio gli interessi Usa anche nei riguardi dei curdi? Gli Usa sono vicini ai curdi sin dalle vicende immediatamente successive alla guerra del 1990-91. Nelle vicende in corso, la stampa e l’opinione pubblica occidentale hanno fortemente simpatizzato con i curdi che sono del restro emersi come il più efficace alleato degli Usa nella lotta all’Isis.

Masoud Barzani nella sua recente visita a Washington ha fatto trasparire l’indipendenza di un nuovo stato in Medio Oriente e i vantaggi che ne deriverebbero all’Occidente.

Ma a Washington non ne possono certo sapere sui curdi meno dell’ultimo rapporto dell’International Crisis Group, che mette crudamente in rilievo le loro profonde divisioni e come tutto questo abbia aperto la porta all’influenza dell’Iran attraverso il contatto con il partito rivale di Barzani, il Puk (l’Unione patriottica curda).

Nella disunione e nelle rivalità interne la confusa e scoordinata politica europea di fornitura degli armamenti ai curdi ha giocato un ruolo importante. Gli Usa hanno cercato di incanalare gli approvvigionamenti attraverso il governo centrale di Baghdad, ma questo governo di fatto non fa arrivare ai curdi pressoché nulla e molti fornitori l’hanno alla fine aggirato.

In una prospettiva strategica di più lunga durata, la carta curda ha perciò dei forti limiti ed è forse per questo che l’amministrazione americana non se ne preoccupa quanto l’opinione pubblica si aspetterebbe.

Uno sviluppo irrilevante
Infine, gli Usa seguono una strategia regionale che non collima con quella turca. L’idea americana che la soluzione in Siria debba includere un contrappeso, se non una diga, contro lo jihadismo e, di conseguenza, l’attenzione sempre maggiore verso il regime, converge con l’Iran, non con la Turchia, non con l’Arabia Saudita.

In questo quadro, è facile che gli Usa abbiano fatto l’accordo sulla zona di sicurezza turco-siriana con la consapevolezza delle sue contraddizioni ma anche con la convinzione che a termine, in un contesto regionale cambiato, porterà inevitabilmente l’acqua al suo mulino.

Ma è difficile dire se si stanno confrontando delle strategie o dei giochi tattici a breve termine. Nel complesso la zona di sicurezza al confine turco-siriano fa scorrere molto inchiostro ma in sé e per sé non ha l’aria di essere uno sviluppo rilevante per il futuro dei conflitti in Medio Oriente.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 3 agosto 2015

Stati Uniti. la variazione nel profilo delle fonti di energia

Scenari che cambiano
Energia: Usa verso l’autosufficienza; e l’Europa?
Marco Giuli
30/07/2015
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Negli ultimi anni la massiccia estrazione di gas e petrolio di scisto negli Stati Uniti ha decisamente modificato il profilo energetico del Paese. La produzione di petrolio è cresciuta del 54% fra il 2010 e il 2014, mentre quella di gas naturale del 21%, rendendo gli Usa il primo produttore mondiale di idrocarburi.

L’Unione europea (Ue) e i suoi Stati membri vedono tale rivoluzione come un’opportunità di diversificare i loro approvvigionamenti di gas, ancora dipendenti da pochi produttori e in diversi casi soggetti al monopolio del gigante russo Gazprom.

Urgenza quanto più sentita nel momento in cui le tensioni in Ucraina hanno riacceso il dibattito sulla sicurezza energetica nell’Ue. Il presente articolo intende analizzare la dimensione strategica della shale revolution americana per l’Europa, suggerendo che più che un’opportunità di diversificazione, il boom degli idrocarburi di scisto nordamericani rappresenta per l’Europa una sfida strategica di ampia portata.

Gas americano per l’Europa?
Finora, l’espansione della produzione americana si è tradotta più in una riduzione dei prezzi interni e in una crescita della competitività che in opportunità di esportazione. Canada e Messico sono i principali sbocchi commerciali, mentre lo sviluppo di capacità di liquefazione per l’esportazione di gas naturale liquefatto (Gnl) è ancora in fase embrionale.

A giugno il Dipartimento Usa per l’Energia ha autorizzato l’esportazione di 35 miliardi di metricubi (bcm) all’anno per 20 anni verso Paesi che non hanno trattati commerciali con gli Stati Uniti, rendendo l’Europa - con la sua ampia capacità di rigassificazione, attualmente in espansione in Europa orientale – una possibile destinazione nel momento in cui il terminale di liquefazione di Sabine Pass (autorizzato ad esportare circa 22 bcm all’anno) sarà ultimato all’inizio del 2016.

Tuttavia, le dinamiche del mercato europeo presentano incognite significative di natura principalmente commerciale. Nonostante il calo degli alti prezzi in Asia orientale rendano l’Europa potenzialmente attraente per ulteriori importazioni di Gnl, i prezzi in Europa potrebbero andare incontro ad una dinamica negativa per l’effetto congiunto dell’incertezza della domanda e una politica di aumento della capacità di esportazione da parte di Gazprom, dimostrata dai piani di espansione del gasdotto Nord Stream fra Russia e Germania e di costruzione del gasdotto Turkish Stream.

La compagnia russa sta cercando di adattare le proprie infrastrutture a una sovrapproduzione che ha ormai raggiunto i 150 bcm, il che metterebbe Mosca nella posizione di poter deprimere i prezzi europei rendendo la regione meno attraente per la concorrenza.

Da parte americana, le intenzioni sembrano ambivalenti. Per lungo tempo gli Usa hanno incoraggiato l’Europa a diversificare gli approvvigionamenti di gas. Tuttavia, tale politica era motivata dall’ambizione di fornire uno sbocco europeo per gli idrocarburi caspici, al fine di sottrarre i Paesi post-sovietici dall’influenza russa garantita dal controllo di Gazprom sul panorama infrastrutturale post-sovietico, e non dall’intenzione di provvedere alla sicurezza energetica europea attraverso un coinvolgimento diretto degli idrocarburi americani.

Risulta comunque ben chiaro che tali opportunità di diversificazione difficilmente renderanno l’Europa autonoma dal gas russo. Il maggiore beneficio per l’Europa risiede semmai nella possibilità di sottoporre Gazprom ad ulteriori pressioni concorrenziali.

Da questo punto di vista, il futuro delle relazioni energetiche Usa-Ue sarà dominato dalle dinamiche del mercato. La dimensione strategica risiede altrove.

Il significato dell’autosufficienza
Il cammino americano verso l’autosufficienza energetica impone il ripensamento di un accordo al cuore dell’assetto della seconda metà del ‘900: il patto della USS Quincy del 1945 con cui il presidente americano Roosevelt garantiva al re saudita Abdul Aziz sicurezza in cambio dell’accesso al petrolio del Golfo Persico.

In una situazione di autosufficienza, gli Stati Uniti rafforzano in modo marcato la loro posizione e le opzioni di politica estera nel Golfo. Tale rafforzamento si è ad esempio tradotto nella possibilità di perseguire una politica verso l’Iran meno vincolata dalle pressioni delle monarchie arabe nella regione, sospettose nei confronti di un allentamento delle sanzioni contro Teheran che potrebbe evolvere – ai loro occhi – in un rilancio delle ambizioni egemoniche della Repubblica islamica.

Allo stesso modo, la possibile espansione della produzione di idrocarburi in Usa garantisce a Washington un potente strumento di enforcement dell’accordo sul nucleare iraniano, vista la sensibilità dell’economia iraniana alle fluttuazioni dei prezzi del greggio.

Ma oltre agli evidenti effetti benefici che l’autosufficienza garantisce agli Stati Uniti nella loro politica nella regione, la shale revolution impone riflessioni strategiche ai Paesi importatori – in primo luogo Europa e Cina – che finora hanno tratto benefici dalla sicurezza garantita dagli Usa ai flussi commerciali di idrocarburi nel Golfo Persico senza pagarne i costi.

L’autosufficienza americana non si traduce necessariamente in un disimpegno dal quadrante del Golfo – Obama stesso nel 2013 ha annunciato all’Onu che gli Usa continueranno a impegnarsi nella sicurezza delle rotte energetiche nonostante il declino del loro fabbisogno esterno, concetto ribadito l’anno successivo dal segretario alla Difesa Hagel. Tuttavia, pone gli altri importatori in una situazione di vulnerabilità strategica rispetto agli Usa, che potrebbe aprire la strada a una divergenza di interessi, soprattutto nel medio termine – ad esempio, nel caso in cui emergano negli Usa tendenze isolazioniste o dispute domestiche sul bilancio tali da compromettere obblighi internazionali.

Indubbiamente, i contorni che vanno delineandosi nel nuovo panorama energetico globale dovrebbero preoccupare più gli asiatici – in primo luogo la Cina, che dipende dagli idrocarburi del Golfo in misura molto maggiore rispetto all’Europa. Ma al di là dei flussi fisici, l’Europa rimane estremamente sensibile alle fluttuazioni dei prezzi ancora fortemente influenzati dalle dinamiche politiche del Golfo, per il quale transita ancora un terzo del commercio globale di petrolio.

Per questa ragione, per l’Europa diventa improrogabile una valutazione realistica dell’evoluzione degli interessi americani e degli elementi di vulnerabilità che tale evoluzione potrebbe scoprire nel vecchio continente.

In questo, come in altri ambiti, il free riding sul ruolo Usa di garante di sicurezza di ultima istanza potrebbe non essere sostenibile in futuro. È urgente per l’Europa assumersi ulteriori responsabilità internazionali nella sicurezza dei flussi commerciali di idrocarburi finché questo potrà essere fatto in un quadro di cooperazione con gli altri attori del sistema.

Marco Giuli, Policy Analyst, European Policy Centre (@MarcoGiuli).
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giovedì 30 luglio 2015

USA: il nucleare iraniano, il fronte strategico è in movimento

Accordo sul nucleare
Iran: la partita è appena cominciata
Riccardo Alcaro
15/07/2015
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Le sei potenze del gruppo ‘5+1’ (Cina, Francia, Germania, Regno Unito, Russia e Stati Uniti, coadiuvati dall’Unione europea) e l’Iran hanno finalmente raggiunto un accordo sul programma nucleare di quest’ultimo.

Dopo 13 anni di false partenze, tentativi falliti, sanzioni e accuse reciproche, è finalmente possibile dare una valutazione dei meriti delle misure concordate e degli ostacoli che ancora rimangono alla sua attuazione.

L’accordo è fondamentalmente basato su uno scambio: a fronte della revoca delle sanzioni Usa, Onu e Ue, l’Iran ha acconsentito a limitare lo sviluppo del suo programma nucleare per i prossimi 10-15 anni, nonché ad accettare un regime di ispezioni Onu particolarmente intrusivo, per alcuni aspetti in vigore per un periodo di 25 anni e per altri a tempo indeterminato.

I contenuti dell’accordo
I 5+1 sono convinti che, grazie ai limiti imposti al programma nucleare, all’Iran sia precluso il cosiddetto scenario di ‘break-out’, cioè la possibilità di ritirarsi dall’accordo e dotarsi in tempi brevi del materiale fissile necessario ad armare una bomba.

Oggi l’Iran, che ha materiale in teoria sufficiente per una decina di bombe, avrebbe bisogno di non più di un paio di mesi. L’accordo riduce le dotazioni iraniane del materiale fissile ad una frazione di quanto serve per una singola bomba e pertanto allunga i tempi di ‘break out’ a un anno o più.

I 5+1 sono anche persuasi che il regime di ispezioni, che definisce una procedura (complicata ma apparentemente efficace) in base alla quale gli ispettori Onu avrebbero accesso a tutti i siti sospetti, inclusi quelli militari, chiuda la strada alla possibilità per l’Iran di sviluppare un programma nucleare militare clandestino (il cosiddetto ‘sneak-out’).

I 5+1 si sono infine garantiti contro l’eventualità che l’Iran non rispetti i suoi impegni accordandosi su un meccanismo di re-imposizione delle sanzioni. Le stesse sanzioni non verranno revocate prima che gli ispettori Onu abbiano verificato, entro i prossimi 18 mesi che l'Iran ha tenuto fede agli impegni.

Le critiche all’accordo
L’accordo è quindi un ottimo compromesso che allontana il rischio di un Iran nucleare – o di un intervento armato da parte degli Usa o Israele per prevenirlo. Non tutti la pensano così tuttavia. Tra i critici più feroci rientrano il governo israeliano, gli Stati arabi del Golfo e il partito repubblicano americano.

Una prima critica è che l’Iran, alla scadenza dei termini dell’accordo, potrà arricchire l’uranio in quantità industriale, di modo che il tempo di ‘break out’ si ridurrà praticamente a zero.

Questa critica si fonda sul malinteso che sanzioni e pressioni avrebbero rallentato i progressi nucleari iraniani e potrebbero continuare a farlo. In realtà, il periodo di maggiore espansione del programma nucleare iraniano è coinciso con il periodo di maggiore intensificazione delle sanzioni Usa, Ue ed Onu.

Solo quando a fine 2013 si è aperto il negoziato, l’Iran ha acconsentito a sospendere molte delle attività più sensibili. Senza un accordo e nonostante le sanzioni, è plausibile pertanto che l’Iran tornerebbe a sviluppare il suo programma nucleare. Lo farebbe, inoltre, senza dover sottostare al regime di ispezioni particolarmente intrusivo concordato oggi.

Tale regime, è fondamentale sottolineare, resterà in buona parte in vigore anche alla scadenza dell’accordo, fornendo quindi un’importante garanzia che l’Iran non si doti di armi nucleari anche negli anni successivi.

Una seconda critica è che la revoca delle sanzioni darà al governo iraniano considerevoli risorse da impiegare a sostegno dei suoi alleati in Iraq, Siria, Libano ed espandere così la sua influenza regionale.Questa critica è più ragionevole della prima.

Tuttavia, i vantaggi strategici derivanti dal ridurre considerevolmente il rischio di un Iran nucleare (o di un conflitto per prevenirlo) sono superiori ai presunti svantaggi derivanti da un Iran in possesso di maggiori risorse.

La mancanza di alternative
L’argomento più forte a difesa dell’accordo resta quello della mancanza di alternative migliori, dunque. Non è detto tuttavia che questo sia sufficiente a convincere il Congresso Usa, che deve esprimersi sull’accordo nei prossimi 60 giorni, a votare a favore.

Al contrario, dal momento che i repubblicani hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato, è decisamente più probabile che il Congresso respinga l’accordo. Obama, tuttavia, opporrà il veto presidenziale ed è improbabile che un numero sufficiente di democratici si unisca alla maggioranza repubblicana per raggiungere i due terzi di voti necessari ad invalidare il veto presidenziale.

Finché Obama è in carica, quindi, l’accordo dovrebbe essere al sicuro. Ma tutto verrà rimesso in discussione se gli americani dovessero eleggere un repubblicano alla Casa Bianca a fine 2016. Oggi Obama e i 5+1 hanno segnato un punto a loro favore. Ma la partita è tutta da giocare ancora.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello IAI e non-resident Fellow presso il CUSE della Brookings Institution di Washington.
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mercoledì 15 luglio 2015

Stati Uniti e le nuove forme di guerra

TERRORISMO
LA DISPERAZIONE DELL’EMARGINATO
Le responsabilità della politica

La affermazione di Karl von Klausewitz che la politica è la continuazione della guerra, e di contro, la guerra è la continuazione della politica, anche se come formula militare è stata sostituita oggi dal “coomprensive approach”, spiega in se i germi del terrorismo. Fermo restando che tutti coloro che, giustamente, sono contro la guerra, intesa come scontro violento armato, devono riflettere su cosa è la politica e come viene fatta la politica. Oggi è indubbio che l’attuale maggioranza, al di la delle scelte, sparge semi ad ampie mani in termini di incapacità economica, amoralità assenza di etica,arroganza, autoritarismo gratuito, mancanza di senso dello Stato, controllo delle informazioni, tutti ingredienti per probabili e, speriamo, mai concretizzabili conflitti sociali. L’esempio di Tunisia e Egitto sono sotto i nostri occhi a dimostrare questo assioma.
La politica quindi come premessa della guerra. Quando la politica non trova la soluzione agli opposti interessi ricorre alla guerra. In breve, la guerra può essere classica ( come nell’800 e fino alla seconda guerra mondiale, in cui le parti si contrappongono su un campo di battaglia) rivoluzionaria ( quando si vuole sostituire le elites al potere cambiando la struttura dello Stato) sovversiva ( quando, lasciando le strutture si cambiano gli uomini). Altri tipi di guerre non vi sono; guerra santa, legittima, patriottica, di liberazione, partigiana, ideologica, simmetrica, asimmetrica, sono solo aggettivazioni. Politica e guerra si conducono alla stessa maniera.
Come si conduce la guerra: con la strategia, che può essere diretta o indiretta, del forte al forte, dal forte al debole, dal debole al forte.
Nell’ambito della strategia del debole al forte, vi si colloca, come modalità, il terrorismo. Il debole sa che non può vincere il forte perché è debole. Allora ha due possibilità: la prima, può coinvolgere strati delle popolazione che, organizzati, diano vita a forme di guerriglia via via sempre più estesa ( sono le guerre degli ultimi sessanta anni di indipendenza), oppure, non avendo la partecipazione popolare ed i mezzi, ricorre all’azione del singolo o di piccoli gruppi, e si arriva al cosiddetto terrorismo, inteso questo come azione limitata nel tempo e nello spazio, violenta, istantanea, volta a produrre risultati strategici.
L’esempio classico è l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Un Gruppo di “soli 100/150 uomini, hanno inferto una sconfitta strategica alla superpotenza dominante, gli USA, con risultati strategici enormi, primo fra tutti la frantumazione del principio che la guerra non può essere portata sul territorio degli Stati Uniti. Per gli Statunitensi la vita è cambiata, d come per i Francesi, e per gli Europei in genere, all’indomani di Waterloo.  
Si ricorre al terrorismo, quando non vi sono altre possibilità, ma la situazione è tale che non può essere accettata. Questo è il punto di partenza per riflettere sul terrorismo: esso nasce da situazioni estreme, di miseria, emarginazione, degrado, in cui elementi contro o perseguitanti obbiettivi di potenza e dominio, sfruttano la situazione reclutano idee, uomini e mezzi per l’azione violenta terroristica, riuscendo a conseguire risultati enormi a bassissimo prezzo.
Se tutto questo è vero, il terrorismo non può essere contrastato solamente con le forze di polizia o con strategie di difesa tipo la “homeland security”. E’ necessario creare una mappa generale della situazione in cui si rilevano gli aspetti geografici, economici, sociali e politici in cui queste forme di violenza nascono. E qui si ritorna al punto centrale di von Klausewitz: è la politica che, impotente, genera la guerra; la guerra, come visto, può assumere varie forme, tra cui il terrorismo. Questa è l’arma dei disperati, degli emarginati, di coloro, violentati dalla politica, reagiscono in modo non accettabile. Ed è la politica che deve trovare in se stessa i mezzi, le idee e le soluzioni a tutte le forme di terrorismo.

Piace concludere con il portare l’esempio storico di come la politica ha risolto forme di terrrorismo: noi Italiani abbiamo sconfitto gli estremisti neonazisti sudtirolesi in Alto Adige (attentato di Cima Vallona del 1970 ed altri atti terroristici) proprio agendo all’interno della politica, (accordo de Gasperi Gruber, Regione Speciale, soluzioni locali: tutti atti sostenuti un adeguato supporto di forze di sicurezza da da una politica verso l’Austria ferma e decisa.