Tra curdi e jihadisti Usa-Turchia in Siria: nulla di strategico Roberto Aliboni 04/08/2015 |
L’area in questione è quella a strisce grigie e verdi nella cartina dell’Institute for the Study of War. Sarà lunga circa 68 miglia lungo la frontiera. Non pare ancora definita la sua profondità: si parla di circa 20 miglia. La cartina dello Isw fa l’ipotesi che arrivi a comprendere al-Bab e al- Manbij, attualmente due piazzeforti dell’Is - dalle quali perciò quest’ultimo dovrà essere sloggiato.
Un accordo dalle motivazioni in chiaroscuro
Perché questo accordo? Gli Stati Uniti ottengono dalla Turchia l’accesso alla base aerea di Incirlik. Ciò indubbiamente allarga dalla Siria occidentale e centrale a quella nord-orientale il raggio d’azione dell’aviazione americana e della coalizione anti-Isis e quindi rafforza la lotta all’Isis.
Meno chiare sono le motivazioni del governo turco, che notoriamente ha come nemico numero uno Assad, non gli jihadisti, e ha sin dall’inizio guardato ai qaedisti e poi all’Isis come a un contributo oggettivamente utile alla lotta contro il regime di Damasco.
Ovviamente il grave attentato di Suruç attribuito all’Isis ha toccato la sicurezza interna turca, ha sollevato critiche al governo per la sua cattiva prassi filo-jihadista e ha reso necessaria una risposta. Ma dalle prime operazioni turche nella costituenda zona di sicurezza si è subito capito che l’obiettivo reale e primario dei turchi sono i curdi.
Per Erdoğan, l’obiettivo sono i curdi
Da una parte, il governo Erdoğan è preoccupato dai successi militari dei curdi siriani, proprio alla frontiera con la Turchia, sotto la guida del Partito di Unione Democratica (Pyd), cugino primo del Pkk.
Se si guarda la cartina dello Isw, si nota che la zona di sicurezza non a caso si incunea fra le due zone curde (nell’estrema punta nord-occidentale della Siria e a nord di Aleppo), onde impedire qualsiasi possibile congiungimento.
Dall’altra, il successo del partito curdo Chp alle recenti elezioni costringe Erdoğan a un governo di coalizione che egli non vuole: la minaccia alla sicurezza che si è manifestata a Suruç e quella che viene dalla prodezza militare curda possono essere utilmente unite per convincere la nazione di un sovrastante pericolo curdo e della necessità di una leadership nazionale forte, per rifiutare quindi ogni coalizione di governo e rifare le elezioni in un’atmosfera favorevole ai disegni di solitaria grandezza del leader turco.
L’incognita dell’opposizione siriana moderata
A tutto questo si deve aggiungere che non è affatto chiaro quali sarebbero le forze siriane moderate o non radicali che attuerebbero sul terreno la zona di sicurezza. Queste forze praticamente non esistono: sono state ripetutamente battute e annientate da quelle radicali nei mesi passati.
Solo nella zona di Deraa si è radicata una costellazione di forze con sembianze moderate. Nel resto della Siria tali forze non ci sono o sono irrilevanti. È noto che i ribelli addestrati dall’apposito programma americano in Giordania dovevano costituire una forza di 5400 uomini che si è ridotta a 54 elementi. Proprio qualche giorno fa, infine, alcuni ufficiali di questa forza minimale sembra che siano stati catturati, un po’ ignominiosamente, da Jabath al-Nusra.
In considerazione di queste diverse circostanze, la maggior parte dei commenti degli analisti e della stampa ritiene l’iniziativa della zone di sicurezza in alleanza con la Turchia sbagliata e dannosa dal punto di vista degli Usa.
L’alleanza sembra servire gli obiettivi anti-curdi, anti-Assad e di politica interna di Erdoğan e dell’Akp, obiettivi che restano diversi da quelli di Washington e che potrebbero danneggiarli.
Un’iniziativa contro gli interessi degli Usa?
Gli Usa hanno come nemico l’Isis e non Assad. Hanno infatti escluso che la zona di sicurezza sia anche una “no-fly zone” - come i turchi hanno sempre desiderato che debba essere - lasciando così aperta la porta ad interventi aerei di Damasco.
Inoltre, e forse soprattutto, non è chiaro come gli Usa possano essere da un lato alleati dei curdi contro l’Isis e, dall’altro, alleati della Turchia che invece colpisce i curdi. Queste circostanze invece di aiutare la coalizione anti-Isis infliggerebbe un duro colpo alla coalizione e agli Usa.
Nel teatro siriano l’ambiguità è la regola. Tuttavia, alcuni cambiamenti recenti nella regione possono dare della politica americana una prospettiva diversa e giustificarla.
In primo luogo, la politica Usa è sempre più concentrata sulla missione contro il terrorismo e subordina sempre più spietatamente a questo ogni altro obiettivo. La politica siriana degli Usa punta all’uscita personale di Assad dalla scena ma non al collasso del regime, perché, essendo assente ogni significativa forza moderata di opposizione, questo collasso metterebbe semplicemente la Siria nelle mani dei jihadisti.
La posizione americana si è avvicinata a quella russa ed è possibile che l’amministrazione veda questo avvicinamento come un’utile carta sul piano più generale dei rapporti fra l’Occidente e la Russia.
Dunque, i turchi agiranno nella convinzione di strumentalizzare gli americani contro Assad. Ma gli americani resteranno certamente fermi nel valutare l’importanza del regime per la stabilità della Siria e, diversamente dall’Akp, hanno in questo forti alleati che sosterranno in Siria il loro pragmatismo piuttosto che gli obiettivi di Ankara.
La vicinanza di Washington ai curdi
Metteranno a repentaglio gli interessi Usa anche nei riguardi dei curdi? Gli Usa sono vicini ai curdi sin dalle vicende immediatamente successive alla guerra del 1990-91. Nelle vicende in corso, la stampa e l’opinione pubblica occidentale hanno fortemente simpatizzato con i curdi che sono del restro emersi come il più efficace alleato degli Usa nella lotta all’Isis.
Masoud Barzani nella sua recente visita a Washington ha fatto trasparire l’indipendenza di un nuovo stato in Medio Oriente e i vantaggi che ne deriverebbero all’Occidente.
Ma a Washington non ne possono certo sapere sui curdi meno dell’ultimo rapporto dell’International Crisis Group, che mette crudamente in rilievo le loro profonde divisioni e come tutto questo abbia aperto la porta all’influenza dell’Iran attraverso il contatto con il partito rivale di Barzani, il Puk (l’Unione patriottica curda).
Nella disunione e nelle rivalità interne la confusa e scoordinata politica europea di fornitura degli armamenti ai curdi ha giocato un ruolo importante. Gli Usa hanno cercato di incanalare gli approvvigionamenti attraverso il governo centrale di Baghdad, ma questo governo di fatto non fa arrivare ai curdi pressoché nulla e molti fornitori l’hanno alla fine aggirato.
In una prospettiva strategica di più lunga durata, la carta curda ha perciò dei forti limiti ed è forse per questo che l’amministrazione americana non se ne preoccupa quanto l’opinione pubblica si aspetterebbe.
Uno sviluppo irrilevante
Infine, gli Usa seguono una strategia regionale che non collima con quella turca. L’idea americana che la soluzione in Siria debba includere un contrappeso, se non una diga, contro lo jihadismo e, di conseguenza, l’attenzione sempre maggiore verso il regime, converge con l’Iran, non con la Turchia, non con l’Arabia Saudita.
In questo quadro, è facile che gli Usa abbiano fatto l’accordo sulla zona di sicurezza turco-siriana con la consapevolezza delle sue contraddizioni ma anche con la convinzione che a termine, in un contesto regionale cambiato, porterà inevitabilmente l’acqua al suo mulino.
Ma è difficile dire se si stanno confrontando delle strategie o dei giochi tattici a breve termine. Nel complesso la zona di sicurezza al confine turco-siriano fa scorrere molto inchiostro ma in sé e per sé non ha l’aria di essere uno sviluppo rilevante per il futuro dei conflitti in Medio Oriente.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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