Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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giovedì 31 marzo 2016

Cuba: La risposta alla visita di Obaama

Fidel a Obama, non abbiamo bisogno di regali dall'impero

Dura critica al discorso "mieloso" del presidente Usa a Cuba

cfr.

Cuba: la visita di Obama

America Latina
Obama a Cuba, un primo passo
Marco Calamai
24/03/2016
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L'ultimo, prima di lui, era stato il presidente Calvin Coolidge. Ma 88 anni dopo, Barack Obama torna a Cuba, in una visita che può essere definita, senza dubbio, un evento storico soprattutto per l’evidente volontà del presidente Usa di consolidare la svolta nei rapporti con il regime castrista avviata con il reciproco riconoscimento diplomatico nel dicembre 2014.

La visita ha dimostrato in modo palpabile che la tradizionale diffidenza del popolo cubano nei riguardi del potente vicino sia diventata simpatia e stima nei riguardi del presidente “afroamericano” degli Stati Uniti, venuto per dichiarare davanti a tutti la sua volontà di operare affinché il Congresso Usa approvi al più presto la fine dell’embargo economico, il bloqueo, deciso nel lontano 1961, lo stesso anno, ancora un fatto simbolico, in cui è nato Obama.

Normalizzare i rapporti con Cuba
Si tratta di una posizione che ha meravigliato non pochi: gli Stati Uniti, affermano i sostenitori della mano dura con l’unico regime comunista dell’emisfero occidentale, cambiano politica prima ancora di vedere avviato a Cuba un processo di transizione democratica.

Obama, in effetti, ha operato proprio a Cuba una rottura radicale con la filosofia dei neoconservatori americani che era ed è tuttora quella dell’esportazione della democrazia con ogni mezzo, comprese le armi. Obama è infatti convinto che il dialogo pragmatico, l’apertura culturale, il rispetto della sovranità dell’altro, siano la strategia efficace per diffondere con successo i valori della democrazia americana.

La trasferta cubana di Obama, accompagnato da un’imponente delegazione d’imprenditori e deputati sia democratici che repubblicani, ha dimostrato l’efficacia di questa visione politica.

Evitando atteggiamenti arroganti e provocatori, affrontando con rispetto le questioni che tuttora separano i due paesi, chiarendo in modo netto che per lui la questione cruciale dell’embargo non deve essere strumentalizzata per imporre i diritti umani, Obama ha demolito l’eterna e comoda visione del vicino prepotente e aggressivo.

Gli Stati Uniti, ha detto, intendono normalizzare i rapporti con Cuba senza porre condizioni e ricatti, perché il futuro del loro Paese “lo possono decidere soltanto i cubani”. Il che non comporta, ha spiegato, la rinuncia da parte sua a difendere la centralità dei diritti umani, la libertà di espressione, le istituzioni democratiche.

Così facendo Obama ha messo all’angolo il leader cubano, chiuso nella difesa della sovranità nazionale, intesa come “diritto” ad amministrare il Paese secondo i criteri tradizionali del partito unico.

Castro e la difesa della rivoluzione cubana
La radicale diversità delle due visioni è diventata evidente durante la conferenza stampa congiunta. Raul Castro, di fronte a precise domande dei giornalisti presenti, ha difeso con malcelata stizza la “rivoluzione cubana” per le sue conquiste sociali (sanità e istruzione pubbliche per tutti, eguale salario per uomini e donne) presentate come una sorta di alternativa ai diritti civili americani.

È così emersa la vecchia visione comunista: prima l’eguaglianza sociale, poi le libertà “borghesi”. Come a dire: “Noi abbiamo risolto il problema storico della disuguaglianza mentre Voi, il paese più ricco e potente della terra, questo problema non lo avete ancora risolto”.

Una visione che tradisce la vecchia teoria marxista sulle libertà borghesi e sulla superiorità della società socialista. E che appare poco convincente proprio a Cuba dove l’indubbia riduzione delle disuguaglianze - la situazione sociale a Cuba non è certo quella di altre realtà caraibiche e centroamericane - ha comportato un generale appiattimento verso il basso delle condizioni di vita. Dal quale, oltre tutto, sarà difficile uscire senza nuovi traumi come già dimostrano le nuove disuguaglianze introdotte dall’accesso al dollaro di una parte, piccola ma crescente, della popolazione.

Trasformazione del regime castrista? 
Raul Castro, dunque, non ha fatto un passo indietro sulla questione politica di fondo. E ha dato la chiara impressione di non poterlo fare comunicando così l’impressione di una rigidità non solo personale (il fratello di Fidel era già iscritto al partito comunista pro sovietico cubano negli anni della guerriglia), ma collettiva del partito.

Il che pone una domanda di fondo: è immaginabile una trasformazione indolore del regime castrista con l’attuale gruppo dirigente, espressione diretta della generazione che vinse la rivoluzione del 1959? E ancora: che cosa pensano i quadri del partito comunista di fronte alla scadenza ormai vicina del 2018 quando, come previsto, Raul Castro passerà il testimone a una generazione più giovane?

Questi quesiti non sono stati certo chiariti nella visita di Obama che, in ogni caso, è servita a consolidare un quadro dei rapporti tra Cuba e il grande vicino che dovrebbe, si spera, rendere meno indolore - grazie anche alle nuove opportunità commerciali e finanziarie aperte da Obama - il cambiamento politico.

Le scadenze del 2017 (nuova presidenza Usa) e del 2018 (successione di Raul Castro) peseranno comunque non poco nei rapporti tra i due Paesi e in quelli interni cubani. Di ciò i due leader sono sembrati chiaramente consapevoli.

Marco Calamai è giornalista e scrittore.
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giovedì 24 marzo 2016

USA: primarie: chiudere la porta ai mussulmani

ratellanza Musulmana
Cruz, vittoria di Pirro contro la Fratellanza
Azzurra Meringolo
19/03/2016
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La campagna dalle tinte islamofobiche delle primarie repubblicane ha un vincitore. E non è Donald Trump, l’istrionico tycoon che ha proposto di sbarrare le porte ai musulmani intenzionati ad entrare negli Stati Uniti. Ma Ted Cruz, l’evangelico che con Marco Rubio ha preso le distanze dalle dichiarazioni oltranziste di Trump (per il quale simpatizza solo il 4% degli elettori arabi americani).

Mentre la sua corsa per la nomination repubblicana si è trasformata in una scalata sempre più faticosa, Cruz ha portato il dibattito sull’Islam all’interno del Congresso, chiedendo che la Fratellanza Musulmana venga inserita nella lista nera delle organizzazioni terroristiche.

Approvata dalla commissione degli affari giudiziari, se diventasse operativa, la proposta di Cruz impedirebbe l’ingresso negli Stati Uniti di tutti gli stranieri che hanno rapporti con la Fratellanza e congelerebbe i beni del Movimento su suolo statunitense.

Anche se Cruz dichiara vittoria, il condizionale è d’obbligo. La Commissione che ha approvato il testo non è l’organo deputato a prendere tali decisioni che spettano in realtà al Dipartimento di Stato. E John Kerry dovrà ora fare i conti non tanto con i democratici che, guidati da John Conyers, si oppongono alla legge, ma soprattutto con quanti ritengono la proposta di Cruz un’arma utile per tagliare le gambe agli islamisti che sotto cappelli diversi sostengono Hamas, minando quindi la sicurezza di Israele.

Qualora questa legge diventasse operativa, sono tanti gli arabi che percepirebbero gli Stati Uniti come una potenza alleata dei regimi più autoritari. Non solo dell’Egitto di Abdel Fattah Al-Sisi - che ritenendo la Fratellanza il suo principale nemico l’ha nuovamente confinata alla clandestinità - ma anche di diverse potenze del Golfo - in primis Arabia Saudita - che dal 2011 al 2013 ha fatto il possibile per fare lo sgambetto agli islamisti al potere, sostenendo istanze molto più estremiste. La ricaduta sull’immagine degli Stati Uniti, almeno tra i sudditi di questi regimi, sarebbe certamente negativa.

Incerte sono poi le conseguenze a cui questa legge condurrebbe, aprendo probabilmente le porte a un’indagine come quella già commissionata lo scorso anno dal governo britannico.

I risultati di quest’ultima, che ha visto coinvolto anche l'ex ambasciatore saudita a Londra, non hanno portato all’inserimento della Fratellanza in alcuna black list, ma hanno evidenziato i rischi di estremizzazione verso i quali sembra andare la comunità musulmana locale.

Fratellanza, barriera o amplificatore di estremismo?
Anche se è probabile che quella di Cruz resti una vittoria temporanea che non porti a evoluzioni future, il dibattito che ha sollevato - anche alla luce dell'evoluzione indicata dall'inchiesta inglese - presenta un’occasione per interrogarsi sul ruolo giocato dalla Confraternita islamista in questo periodo.

Quella che è stata inaugurata dal golpe del 2013 è infatti un’epoca particolare, a livello nazionale-regionale e globale, nella storia dell’Islam politico che non può più essere analizzata utilizzando le stesse lenti del decennio scorso.

La Fratellanza di oggi è infatti molto diversa rispetto a quella di un paio di anni fa. In primis perché, non provvedendo più quella serie di servizi sociali con i quali sopperiva alle lacune dello stato egiziano, non può contare sullo stesso sostegno popolare - seppur nascosto - che godeva un tempo. E anche la sua struttura è stata totalmente scombussolata dagli arresti di massa, i processi e le condanne a morte sommarie post 2013.

Molto è cambiato da quando, all’indomani dell’11 settembre, ci si chiedeva se questa Confraternita era una barriera contro la diffusione dell’estremismo religioso o un suo amplificatore.

In un’epoca in cui l’ascesa dell’autoproclamatosi “Stato islamico” e il revival di Al-Qaeda coincide con un’ondata repressiva nei confronti della Fratellanza, è evidente che la Confraternita, diversamente da quanto parzialmente accaduto a inizio secolo, non riesce a svolgere alcuna funzione di contenimento dell’estremismo. A prescindere dalla volontà politica, quello che manca sono gli strumenti per farlo.

Guerra fratricida 
In primis una struttura coesa che dia alla leadership del Movimento la capacità di imporre le sue decisioni alla base, scongiurando forze centrifughe. La Fratellanza di oggi è infatti un movimento attraversato da una guerra fratricida che ha esacerbato la battaglia tra quanti - sopravvissuti alla repressione e ora attivi dal Cairo e dalla diaspora - vogliono tenere le redini del movimento. E lo scontro si riflette anche sulla strategia politica da utilizzare.

Se dieci anni fa la Fratellanza faceva il possibile per affermare che la sua battaglia politica aveva rinunciato all’arma della violenza, la sconfitta del 2013 ha messo in discussione l’efficacia di questa strategia, il cui corollario era il tentativo di socializzare con le pratiche e le norme dello stato.

Ora che non c’è più alcun tentativo di essere assorbiti nella struttura dello stato, significativi settori della Confraternita si interrogano sull’opportunità di una revisione strategica che preveda anche il ritorno - per ora parziale - alla violenza.

Stagione estremista all’orizzonte?
Tutto ciò non vuol dire che la Fratellanza è destinata a diventare un’organizzazione terroristica. Anzi, alcuni analisti sono addirittura sorpresi di non aver assistito, negli ultimi due anni, a un’escalation di violenza.

Ciononostante, l'evoluzione del movimento rende necessaria l'adozione di un nuovo approccio per analizzare la Confraternita. Anche quanti fino ad ora hanno ritenuto il Movimento una barriera utile - se pur parzialmente - al contenimento di forze estremiste devono ora confrontarsi con spinte che vanno invece in questa direzione.

Sollecitazioni sempre più costanti che, pur non avendo portato a risultati evidenti, coinvolgono soprattutto quei giovani per anni esclusi dalla gestione verticistica della Fratellanza. Ragazzi che fino ad ora si accontentato di ricorrere alla violenza limitata, ma che potrebbero anche essere pronti ad arruolarsi in quei movimenti estremisti che stanno sconvolgendo il Medio Oriente.

Mentre Cruz insiste per inserire la Fratellanza nella lista delle organizzazioni terroristiche, il candidato che vincerà la corsa dalla quale lui è destinato a uscire dovrà capire come comportarsi con la Fratellanza.

Erede dell'apertura islamista accennata da Barack Obama, il prossimo presidente dovrebbe trovare la ricetta per evitare che la Confraternita si affidi alla violenza. L'ingrediente necessario per scongiurare il peggio sono proprio i giovani più a rischio.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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USA: Trump minaccia disordini se non ottiene la nomination

sa 2016
Trump e l'incubo della convention aperta
Giampiero Gramaglia
18/03/2016
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Hillary Clinton non s’accontenta di fare poker e cala la scala reale: conquista cinque Stati su cinque, nel secondo Super Martedì di questo marzo denso di primarie e assemblee per Usa 2016.

Invece, Donald Trump ha un tris servito e può ancora fare poker, quando finirà la conta e riconta tra lui e Ted Cruz nel Missouri. Ma i repubblicani escono male dai voti anche in Florida, North Carolina, Ohio, Illinois: il lotto degli aspiranti alla nomination, che a un certo punto erano17, si riduce a tre, ma le tensioni si acuiscono. E per prima cosa salta, per mancanza di ‘quorum’, il dibattito sulla Fox previsto lunedì 21 dallo Utah.

Sono ore di apprensione fra i conservatori ‘per bene’, tradizionali e moderati, che si rendono conto d’essersi persi per strada uno ad uno i loro campioni (magari mal scelti, bisogna ammettere): i ‘figli della Florida’ sono usciti di scena l’uno dopo l’altro in meno d’un mese, prima l’ex governatore, figlio e fratello di presidente, Jeb Bush, ritiratosi a febbraio senza essere mai riuscito a far decollare la sua campagna, e ora il senatore Marco Rubio, il più giovane del lotto, costretto a lasciare dopo essere stato sconfitto in casa.

E sono ore d’agitazione per Trump, il battistrada showman, che vince a raffica - senza peraltro mai convincere tutto il suo campo -, ma che è esposto al rischio d’arrivare fino alla convention di luglio senza la maggioranza assoluta dei delegati: i suoi avversari insieme ne hanno più di lui. Invece, Hillary, fra i democratici, viaggia spedita verso la soglia di delegati che le garantisce la nomination, mentre Bernie Sanders, indossato il cappotto, dice di crederci ancora, ma va avanti senza speranze.

La ‘convention aperta’ è evento rarissimo ed è un po’ uno spauracchio per tutti: significa sciorinare davanti all’elettorato divisioni e incertezze e spendere energie, oltre che soldi, in confronti fratricidi, invece di concentrare gli attacchi sull’antagonista democratico.

L’establishment repubblicano pare non fidarsi a pieno, come anti Trump, neppure del governatore dell’Ohio John Kasich, che martedì ha vinto nel suo Stato, ma che non aveva finora avuto altri acuti nella sua campagna. E il senatore Cruz, iper-conservatore ed evangelico, non è meglio di Trump, dal punto di vista del partito: populista come lui, più fondamentalista di lui, ma meno popolare e poco simpatico.

Così, si rovista nei cassetti del 2012: lì, ci sono Mitt Romney, il candidato battuto dal presidente Obama, che s’espone in campagna contro Trump, ma non scende in campo, e il suo vice, oggi speaker della Camera, Paul Ryan, che, chiamato in causa da John Boehner, si tira indietro, “non mi candido”. Gli ‘assi nella manica’, o i ‘cavalli di razza’, sono merce rara; e probabilmente intendono non esporsi fino alla convention, salvo poi accettare un’eventuale acclamazione come ‘salvatori del partito’.

Trump avverte aria di fronda e fa la voce grossa, prospettando disordini nelle strade se non otterrà la nomination - il che rafforza le preoccupazioni dei moderati nei suoi confronti - e chiamandosi fuori dal prossimo dibattito, il 21 marzo, perché - dice - “ne abbiamo già fatti troppi” (il che, magari, è vero).

Kasich replica subito che, se non c’è Trump, non ci sarà neppure lui: che senso avrebbe stare a scannarsi con il senatore Cruz, mentre lo showman si tiene in disparte? E così la Fox cancella l’evento, che sarebbe diventato un ‘one man show’.

Per Trump, la convention aperta può diventare un’ossessione; e, se ci cade dentro, una trappola. Così, cerca di forzare i tempi e di indurre il partito a seguirlo mostrando una forza che, nei numeri dei delegati, non ha: gli incidenti e i disordini a Chicago, a Kansas City, a Dayton e altrove, che hanno preceduto il secondo Super Martedì, possono essere spie di una deriva della campagna che può solo nuocergli, incrementando le diffidenze e le ostilità nell’elettorato indipendente e centrista.

E il calendario non aiuta: il mese davanti ha voti radi, specie per i repubblicani, e in Stati non determinanti, così che è probabile che i rapporti di forza resteranno sostanzialmente inalterati, fino alle primarie di New York, il 19 aprile.

Uscendo di scena, Rubio dice: "L'America è nel mezzo d’uno tsunami politico, la gente è arrabbiata e frustrata". Il senatore d’origine cubana aveva raccolto da Jeb Bush la fiaccola di alfiere dell’establishment del partito e dei moderati, ma non l’ha portata a lungo: "Siamo dalla parte giusta, ma quest'anno non saremo dalla parte vincente", ammette. Nel suo Stato, Trump lo ha ‘stracciato’: 46% contro 27%.

Ora la fiaccola dei moderati ce l’ha Kasich, che, alla prima vittoria, con quasi il 47% dei voti nell’Ohio, osserva: "Ci sono oltre mille delegati ancora da assegnare, posso arrivare alla convention con più delegati di chiunque altro". Florida e Ohio, due Stati spesso decisivi per la Casa Bianca nell’Election Day - quest’anno, l’8 novembre -, attribuiscono i delegati con la formula ‘chi vince prende tutto’.

Kasich, nel discorso della vittoria, con accanto la moglie e le due figlie gemelle, fa i complimenti al "talentuoso" Rubio, appena ritiratosi e di cui aspira ad ereditare gli elettori e i delegati, e conferma il suo messaggio pacato e unificatore: "Prima di essere democratici o repubblicani siamo americani - dice -, non percorrerò la strada di livello più basso per raggiungere la carica più alta del Paese".

Cruz, nonostante resti a secco, in attesa dell’esito del Missouri, rivendica i successi finora riportati "dall'Alaska al Maine", ponendosi come unica alternativa allo showman e corteggiando i sostenitori di Rubio: "Vi accogliamo a braccia aperte … La storia di Rubio è potente, la sua campagna ha ispirato milioni di persone … Ora restano solo due campagne: la mia e quella di Trump”.

Ovvi i toni trionfali della Clinton, che può affermare: "La nostra campagna ha guadagnato più voti di qualsiasi altro candidato, democratico o repubblicano”. Hillary, che ha fatto “un altro passo verso la nomination”, ha parole di stima per lo sfidante Sanders, ma guarda già al possibile confronto con Trump per la Casa Bianca: "Il nostro comandante in capo deve essere in grado di difenderci, non di metterci in imbarazzo".


La conta dei delegati
Rifacciamo un punto sulla situazione dei delegati: Hillary Clinton ne ha oltre il 67%, cioè oltre i due terzi, dei necessari ad assicurarsi matematicamente la nomination democratica; Donald Trump è quasi al 55% dei necessari per la nomination repubblicana.

La differenza fra i due partiti sta nel sistema dei super-delegati che favorisce di fatto l’ex first lady: i super-delegati sono figure di spicco del partito democratico che possono scegliere chi appoggiare in qualsiasi momento.

Queste, comunque, le posizioni - fonte, il sito uspresidentialelectionnews.com:

Democratici: delegati alla convention 4.765, delegati già assegnati 1.964 e super-delegati già pronunciatisi 493, delegati da assegnare 2.308, maggioranza necessaria 2.383.
Hillary Clinton s’è finora assicurata 1.139 delegati popolari e 467 super-delegati ed è quindi a 1.606; Bernie Sanders ha conquistato 825 delegati popolari, ma ha solo 26 super-delegati ed è a 851.
Hillary ha vinto in 17 Stati: in ordine alfabetico Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Illinois, Iowa, Louisiana, Massachusetts, Mississippi, Missouri, Nevada, North Carolina, Ohio, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nei territori delle Isole Samoa e delle Marianne. Sanders ha vinto in 9 Stati: Colorado, Kansas, Maine, Michigan, Minnesota, Nebraska, New Hampshire, Oklahoma, Vermont.

Repubblicani: delegati alla convention 2.472, delegati già assegnati 1.414, delegati da assegnare 1.058, maggioranza necessaria 1.237.
Donald Trump ne ha 673, Ted Cruz 411, Marco Rubio 169, John Kasich 143; e, inoltre, Ben Carson 8, Jeb Bush 4 e 6 non sono vincolati.
Trump ha vinto in 18 Stati: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Hawaii, Illinois, Kentucky, Louisiana, Massachusetts, Michigan, Mississippi, Nevada, New Hampshire, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Virginia, Vermont, oltre che alle Marianne. Cruz ha vinto in 8 Stati: Alaska, Idaho, Iowa, Kansas, Maine, Oklahoma, Texas, Wyoming, oltre che a Guam. Rubio ha vinto in Minnesota, nel Distretto di Columbia e a Portorico. Kasich ha vinto in Ohio. Il Missouri resta da assegnare.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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venerdì 18 marzo 2016

Stati Uniti: le influenze mediorientali nella corsa alla Casa Bianca

Usa 2016
Primarie Usa, gli arabi cambiano canale
Ugo Tramballi
12/03/2016
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Da Gibilterra a Hormuz, c’è un solo paese in tutto il Medio Oriente nel quale è aperto da tempo il dibattito su chi possa essere il prossimo presidente Usa più utile, fra i candidati repubblicani e democratici. Naturalmente Israele.

Per il momento nel mondo arabo come anche fra turchi e iraniani, ci sono altre priorità. Non solo: i paesi musulmani non hanno alcuna possibilità d’influenzare il voto degli americani. Gli israeliani sì, attraverso l’importante comunità ebraica negli Stati Uniti e le sue lobbies.

Cruz, il candidato del Likud
In Israele dove il Likud vince consecutivamente da cinque elezioni, l’opinione pubblica preferisce largamente un presidente repubblicano. Per un breve periodo, all’inizio delle primarie, gli israeliani sono stati gli unici al mondo ad augurarsi una vittoria di Donald Trump.

L’opinione ha incominciato a vacillare quando il miliardario di New York non ha preso posizione sul futuro di Gerusalemme e si è dichiarato “neutrale” sul conflitto fra israeliani e palestinesi.

Il candidato ideale è dunque Ted Cruz: ultra religioso, incondizionatamente favorevole a Israele e a Bibi Netanyahu, e antiarabo fino al razzismo. Come Trump, ma senza tentennamenti verso lo stato ebraico.

Le destre e molti altri israeliani detestano Barack Obama: anche, ma non solo, per l’accordo sul nucleare iraniano. E non si fidano di Hillary Clinton: è difficile che la candidata democratica abbia di Netanyahu un giudizio meno negativo di quello maturato dal marito Bill, quando era presidente.

È uno dei pochi casi nei quali l’opinione degli israeliani differisce da quella della comunità ebraica americana, storicamente più vicina ai democratici che ai repubblicani.

L’eredità comportamentale di Obama
Riguardo agli altri mediorientali, i non israeliani, la grande maggioranza, fa testo l’ultima intervista di Barack Obama alla rivista “The Atlantic”. È la più efficace puntualizzazione del pensiero presidenziale, una specie di eredità più comportamentale che ideologica di Obama. Il presidente definisce un punto d’onore avere evitato di farsi trascinare nei conflitti della regione, conferma la sua scarsa stima per Netanyahu e soprattutto la distanza che si è creata fra Stati Uniti e Arabia Saudita.

Il caos mediorientale del quale i principali responsabili sono i sauditi e gli iraniani, dice Obama, “ci impone di dire ai nostri amici (l’Arabia Saudita, n.d.r.) come agli iraniani, che devono trovare un modo efficace di dividersi il vicinato”. L’obiettivo finale deve essere “una pace fredda”.

In altre parole, più diplomatiche, le due principali potenze regionali devono creare una struttura di sicurezza mediorientale senza la quale il caos continuerà.

Poiché i protagonisti della crisi sono i paesi della regione, non più le vecchie potenze esterne (Usa, Russia, Gran Bretagna e Francia), il Medio Oriente non è più diviso in amici e nemici degli Stati Uniti. I tempi della Guerra fredda sono irrimediabilmente sepolti, anche se la Russia vorrebbe resuscitarli.

E in generale tutti detestano gli Stati Uniti: chi perché sono stati troppo inattivi, perché non hanno bombardato Damasco né mandato truppe qui e là; chi, come gli iraniani, perché l’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni economiche sono novità troppo fresche per essere giudicate positivamente.

Hillary, la candidata di non tutti i sunniti
Per forza di cose, arabi, turchi e iraniani non possono avere simpatia per qualsiasi dei candidati repubblicani. Cruz e Marco Rubio sarebbero certamente più interventisti di Obama, ma a favore di Israele: sauditi ed egiziani hanno buone ragioni per non credere di avere solidi e duraturi sostegni da un presidente repubblicano. Ugualmente gli iraniani: il partito Repubblicano fa campagna contro l’accordo sul nucleare da quando, più di due anni fa, iniziò la trattativa.

L’unica candidata democratica possibile, Hillary Clinton, ha una visione più internazionalista del ruolo americano nella regione di quanto non l’avesse Obama. Da segretario di Stato, Hillary non era così convinta di lasciare al suo destino Hosni Mubarak; e certamente pensava che il sostegno del presidente ai Fratelli musulmani e a Mohammed Morsi, fosse un grave errore.

Questo dovrebbe soddisfare i sauditi che fino all’ultimo avevano sostenuto il vecchio regime egiziano - insieme a Netanyahu - e che continuano a detestare i Fratelli musulmani ovunque si manifestino in Medio Oriente.

Ma Hillary è una chiara sostenitrice degli accordi con l’Iran e, come Barack Obama, è convinta che quel paese debba essere coinvolto e non escluso dagli equilibri regionali.

Come già detto, l’unica vera grande novità del Medio Oriente maturata in questi anni, è che sono le potenze regionali a prendere le decisioni, non più gli attori esterni. E questo non è avvenuto perché Barack Obama ha fatto fare all’America un passo indietro: il disimpegno è la conseguenza di questa novità geopolitica, non la causa.

Per questo in Medio Oriente le presidenziali negli Stati Uniti non sono più l’avvenimento decisivo che era un tempo.

Ugo Tramballi è giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore.
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mercoledì 9 marzo 2016

USA: la corsa alla Casa Bianca

Usa 2016
Hillary e Donald, fuga verso la Casa Bianca
Giampiero Gramaglia
03/03/2016
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Dopo il Super Martedì, Donald Trump e Hillary Clinton appaiono (quasi) certi della nomination. Più che i suoi avversari, Donald teme il coniglio che potrebbe saltare fuori dal cilindro dei notabili del partito, che proprio non lo vogliono come candidato, perché non li rappresenta e perché - dicono - farebbe loro perdere le elezioni.

E Hillary deve schivare lo scheletro che potrebbe caderle addosso aprendo uno dei suoi armadi ben forniti, senza sottostimare l’effetto della ‘emailgate’, cioè la vicenda dell’uso dell’account di posta privato quand’era segretario di Stato - c’è un’inchiesta dell’Fbi.

Nei voti a raffica del 1° marzo, l’ex first lady e lo showman hanno vinto ciascuno in sette Stati. Lei s’è imposta in Alabama, Arkansas (lo Stato dove iniziò la saga politica familiare), Georgia, Massachusetts (il primo successo nel New England ‘liberal’, dove il suo antagonista Bernie Sanders è più forte), Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nel territorio delle isole Samoa. Lui ha vinto Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Vermont e Virginia.

Ai loro rivali, restano le briciole. Fra i democratici, il senatore Sanders conquista il suo Vermont e pure Oklahoma, Minnesota e Colorado: tutti Stati dove la popolazione è prevalentemente bianca. Fra i repubblicani, il senatore Ted Cruz vince nel suo Texas - il terzo Stato dell’Unione - e nell’Oklahoma lì vicino, oltre che in Alaska - segno che Sarah Palin, che appoggia Trump, conta ormai poco -, mentre il senatore Marco Rubio vince finalmente in uno Stato, il Minnesota. Gli altri due aspiranti conservatori, Ben Carson, guru nero, e John Kasich, governatore dell’Ohio, non lasciano quasi traccia (e Carson medita se lasciare).

I bari al tavolo del poker
Nonostante un verdetto così netto, i due maggiori partiti statunitensi giocano la partita delle primarie, come dei bari al tavolo del poker, con un asso nella manica. O, almeno, loro sperano che sia un asso, ché magari è solo una scartina - di abbagli in queste elezioni ne hanno già presi un sacco. Il poker, poi, si fa col morto, che, dopo il Super Martedì, rischia, però, di restare tale: l’affermazione della Clinton riduce gli spazi per l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che deve decidere se candidarsi come indipendente.

I repubblicani, in realtà, l’asso ce l’hanno sul tavolo: Donald Trump, il magnate dell’immobiliare e showman che finora guadagna voti anche quando litiga col papa, insulta gli immigrati e tratta male le donne. Ma l’establishment del partito non ne vuole sapere.

Il problema è che l’anti-Trump giusto non c’è. Per mesi, tutti hanno dormito su due cuscini: c’era Jeb Bush, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43°, per la serie ‘buon sangue non mente’. Ma Jeb è stato un flop: non s’è mai svegliato dal suo letargo, neppure durante i dibattiti televisivi, quando dormiva in piedi, mentre Trump lo massacrava di botte verbali, “Sei molle”. Bush III s’è fatto da parte, dando strada al suo ‘figlioccio’ politico, il senatore Rubio, che, però, vince poco e, quanto a grinta, non ne mostra molta di più del suo mentore, anche se è più sveglio.

L’altra ipotetica alternativa è il senatore Cruz. Ma è come cadere dalla padella nella brace: è populista come Trump, è evangelico e, per di più, non è neppure simpatico: la moglie, quando scoprì che lo doveva seguire da Washington, dove aveva un lavoro alla Casa Bianca, ad Austin, ne fece una malattia. “Non piaci a nessuno, neppure ai tuoi colleghi”, lo zittisce Donald nei dibattiti.

E allora? L’asso nella manica da calare per sventare la candidatura di Trump sarebbe Mitt Romney, un ex quasi tutto, ex organizzatore dei Giochi invernali di Salt Lake City nel 2002, ex governatore del Massachusetts ed ex candidato alla Casa Bianca nel 2012 (battuto dal presidente in carica Barack Obama). L’imprenditore Romney, un mormone, non è vecchio - ha 68 anni, meno di Trump e pure di Hillary - e non è neppure usurato: un anno fa, a candidarsi ci pensava, ma poi face un patto con Bush e si tenne in disparte.

Adesso, per il bene del partito potrebbe ripensarci. E tanto per cominciare mette in giro una voce velenosa: “C’è una bomba nella dichiarazione dei redditi di Trump, o non paga le tasse o non è ricco come dice”. Debole, per una volta, la replica: “Ve la mostro appena posso. Non ora, però: sotto accertamento, ce l’hanno con me”. C’è sempre un fisco con cui prendersela, anche a Washington.

Quanto ai democratici, loro, l’asso nella manica lo tengono solo per precauzione: dovesse mai Hillary incappare in un incidente di percorso, la carta di riserva è Joe Biden, il vice di Obama, tentato di scendere in campo, ma poi rimasto in panchina, nella bella casa all’Osservatorio Navale sulla collina di Washington: un uomo rassicurante, sorridente, disteso.

I programmi dei ‘papabili’ e le virate delle campagne
Con la Clinton e Trump così avanti, è giunto il momento di esplorare i programmi di coloro che possono davvero diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti. I discorsi della vittoria sono stati pronunciati a Miami, perché entrambe le campagne sono già proiettate sulla prossima tappa, il 15 marzo, con i voti in Florida e in Ohio, due stati cruciali in chiave Election Day, dove vige la regola che il primo prende tutto.

Hillary, che ha un po’ deviato dal suo alveo per lambire a sinistra lo spazio di Sanders il ‘socialista’, si riposiziona al centro nel segno della continuità con Barack Obama, che è ciò che la maggioranza degli elettori democratici le domanda.

Il suo sito, Hillary for America, contiene le risposte a molte più delle domande che vorreste farle: ci sono 112 (e oltre) ragioni per votarla, ci sono i risultati maggiori da lei conseguiti nella sua attività (“ed è solo l’inizio”), ci sono soprattutto in bella evidenza il piano economico per la classe media (alzare i redditi dei lavoratori) e il piano per la giustizia razziale, che va incontro ai desideri d’equità dei neri e dei ‘latinos’, le due ‘costituencies’ che sono suoi serbatoi di voti e di consenso.

Trump lascia intravvedere una svolta moderata: “Sono un unificatore, porto voti”, dice, perché ha bisogno di persuadere elettori di centro e indipendenti. Ma il suo slogan aggressivo ‘Make America Great Again’ è il suo programma: sul suo sito, le priorità sono meno strutturate e le posizioni meno dettagliate. Al primo posto ci sono le relazioni commerciali Usa-Cina; poi misure per i veterani, il taglio delle tasse, la riforma dell’immigrazione (a furia di muri), la conferma del diritto al possesso delle armi, la limitazione del diritto d’ingresso dei musulmani negli Usa.

Diversissime, nei toni e nelle parole, le politiche estere: muscolare e ‘putiniana’ quella di Trump, diplomatica e ‘obamiana’ quella di Hillary. Che, però, non è tipo da porgere l’altra guancia. E, in questo, assomiglia a Donald.


Il punto: vittorie e delegati, la Clinton oltre 40%, Trump a un quarto
Dopo il Super-Martedì, Hillary Clinton ha oltre il 40% dei delegati necessari ad assicurarsi matematicamente la nomination democratica; Donald Trump, invece ‘appena’ il 25% di quelli che ci vogliono per la nomination repubblicana. La differenza sta nel sistema dei super-delegati che favorisce l’ex first lady - i super-delegati sono figure di spicco del partito democratico che possono scegliere chi appoggiare in qualsiasi momento.

Queste, comunque, le posizioni - fonte, il sito uspresidentialelectionnews.com:

Democratici: delegati alla convention 4.763, delegati già assegnati 963 e super-delegati già pronunciatisi 479 – oltre il 30% -, delegati da assegnare 3.321, maggioranza necessaria 2.382.
Hillary Clinton s’è finora assicurata 577 delegati popolari e 457 super-delegati ed è quindi a 1.034, oltre i due quinti del cammino; Bernie Sanders s’è conquistato 386 delegati popolari, ma ha solo 22 super-delegati ed è a 408.
Hillary ha vinto in 10 Stati: Iowa, Nevada, South Carolina e, nel Super Martedì, in ordine alfabetico Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Texas, Virginia, oltre che nel territorio delle Isole Samoa. Sanders ha vinto in 5 Stati: in New Hampshire e, nel Super Martedì, Colorado, Minnesota, Oklahoma, Vermont.

Repubblicani: delegati alla convention 2.464, delegati già assegnati 681 – oltre un quarto -, delegati da assegnare 1.783, maggioranza necessaria 1.237. Donald Trump ne ha 316, Ted Cruz 226, Marco Rubio 106, John Kasich 25, Ben Carson 8.
Trump ha vinto in 10 Stati: New Hampshire, South Carolina, Nevada e, nel Super Martedì, Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Tennessee, Virginia, Vermont. Cruz ha vinto in 4 Stati: Iowa e Alaska, Oklahoma, Texas. Rubio ha vinto in Minnesota.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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martedì 8 marzo 2016

Ricerca Parametrale. Cuba

Forze armate di Cuba
 Alessio Pecce*
Il personale militare di Cuba ammonta a 49.000 unità, divise rispettivamente in 38.000 unità appartenenti all'esercito, 3.000 alla marina e 8.000 all'aeronautica, mentre le forze  paramilitari ammontano 26.500. Il personale di riserva è di 39.000 unità (39.000 appartenenti all'esercito), mentre quelli paramilitari ammontano a 1.120,000 soggetti. Il personale di riserva (serve 45 giorni l'anno) riempie le unità attive e di riserva; così come i paramilitari.
Esercito> 38.000 unità
Forze per ruolo>  3 comandi regionali, 3 comandi dell'esercito, 5 brigate blindate armate, 9 battaglioni di fanteria (1 reggimento armato, 3 reggimenti di fanteria, 1 reggimento d'artiglieria, 1 reggimento d'artiglieria di difesa aerea), 1 brigata (di frontiera), 1 brigata per trasporto aereo e infine per il supporto da combattimento include 1 reggimento d'artiglieria di difesa aerea e 1 brigata aerea per missili di superficie.
Riserve> 39.000 unità.
Forze per ruolo> 14 brigate di fanteria leggera.
Tipo di equipaggiamento>  900 carri armati di superficie T-34/T-54/T-55/T-62.
Carro armato d'atterraggio PT-76.
2 BRDM da ricognizione; 60 BTR da 10 mm.
50 veicoli di fanteria da combattimento BMP-1/1P.
500 veicoli militari BTR-152/BTR-50/BTR-60.
Più DI 1750 d'artiglieria-
più di 40 semoventi: AAPMP-100 da 10mm; CATAP-100; 2 s1 DA 122mm; AAP-T-122; AAP-BMP-122; Jupiter III; Jupiter IV; AAP-T-122 da 130mm; Jupiter V; 2 S3 da 152mm.
500 rimorchiatori: D-30 da 122mm; M-30; M-46 da 130mm; D-1 da 152mm; M-1937.
Lanciatore razzi (175 semoventi): BM-21 da 122mm; BM-14 da 140mm.
1000 mortai: M-41 da 82mm; M-43 da 82mm; M-43 da 120mm; M-38 da 120mm.
Per quanto riguarda i rimorchiatori l'esercito cubano ha in dotazione 2 missili anti carro armato K16 Shmel (AT-1 Snapper); 9 K11 Malyutka (AT-3 Sagger).
Più di 600 pistole: 600 M-1943 da 57mm; D-44 da 85mm.
Per ciò che concerne la difesa hanno in dotazione dei missili aerei.
Più di 200 semoventi: 200 9K35 Strela-10 (SA-13 Gopher); 2K12 Kub (SA-6 Gainful); 9K33 Osa (SA-8 Gecko); 9K31 Strela-1 (SA-9 Gaskin).
9K36 inerenti al sistema di difesa aereo portatile Strela-3 (SA-14 Gremlin); 9K310 Igla-1 (SA-16 Gimlet); 9K32 Strela-2 (SA-7 Grail).
400 pistole suddivise in semoventi da 23mm ZSU-23-4; BTR-60P SP; ZSU-57-2 da 57mm.
Rimorchiatori KS-19 da 100mm/M-1939/KS-12 da 85mm/S-60 da 57 mm/M-1939 da 37mm/M-53 da 30mm/ZU-23 da 23mm

Marina> 3000 unità
La sede centrale del comando occidentale si trova a Cabanas, mentre quello orientale ha sede a Holquin.
Tipo di equipaggiamento> 8 pattuglie costiere suddivise rispettivamente in 1 per operazioni di pace e supporto Rio Damuji munita di due P-15M Termit (SS-N-2C Styx) AshM, 2 pistole da 57mm, 1 piattaforma di atterraggio.
1 pattuglia armata Pauk II (FSU) con 1 un quadruplo Inchr (manuale) dotato di 9K32 Strela-2 (SA-N-5 Grail) SAM, 4 ASTT, 2 RBU 1200, 1 pistola da 76mm.
6 pattuglie navali veloci Osa II (FSU) dotata ognuna di 4 Inchr per P-15 Termit (SS-N-2B Styx) AshM missili rimovibili per unità di difesa costiera.
5 miniere di guerra e relative contromisure, suddivise in 3 cacciatori costieri di miniera Yevgenyat (FSU) e 2 spazzatori costieri di miniera Sonya (FSU).
5 pattuglie di supporto logistico suddivise in 1 nave per la posa di segnali, 1 mestiere di formazione e 3 rimorchiatori leggeri di porto.
Difesa costiera> artiglieria composta da rimorchiatori da 122mm M-1931/37; M-46 da 130mm; M-1937 da 152mm.
Più di 4 missili anti nave: Bandera IV (segnalati); 4 4K51 Rubezh (SS-C-3 Styx).
Fanteria navale> più di 550 unità.
Forze per ruolo> 2 battaglioni anfibio d'assalto.

Difesa aerea e anti aeromobile> 8000 unità.
Risorse aeree divise tra la zona aerea occidentale e orientale.
50 ore di volo l'anno.
Forze per ruolo> caccia/attacco di terra, formate da 3 squadroni dotati di MiG-21ML Fishbed; MiG-23ML/MF/UM Flogger; MiG-29A/UB Fulcrum.
Per quanto riguarda il trasporto istituzionale è in dotazione 1 squadrone An-24 Coke; Mi-8P Hip; Yak-40.
Gli elicotteri d'attacco sono organizzati in 2 squadroni con Mi-17 Hip; Mi-35 Hind.
La formazione aeronautica è costituita da 2 squadroni (di formazione tattica) con L-39C Albatros (di base); Z-142 (primario).
Tipo di equipaggiamento> 45 aeromobili con capacità d'assalto.
33 caccia: 16 MiG-23ML Flogger; 4 MiG-23MF Flogger; 4 MiG-23U Flogger; 4 MiG-23UM Flogger; 2 MiG-29A Fulcrum; 3 MiG-29UB Fulcrum (6 MiG-15UTI Midget; più 4 MiG-17 Fresco; 4 MiG-23MF Flogger; 6 MiG-23ML Flogger; 2 MiG-23UM Flogger; 2MiG-29 Fulcrum).
12 deputati all'attacco di terra: 4 MiG-21ML Fishbed; 8 MiG-21U Mongol A (fino a 70 MiG-21bis Fishbed; 30 MiG-21F Fishbed; 28 MiG-21PFM Fishbed; 7 MiG-21UM Fishbed; 20 MiG-23BN Flogger).
1 An-30 Clank deputato al servizio d'intelligence/sorveglianza/ricognizione.
11 deputati al trasporto: 2 Heavy II-76 Candid; 9 leggeri: 1 An-2 Colt; 3 An-24 Coke; 2 An-32 Cline; 3 Yak-40 (8 An-2 Colt; 18 An-26 Curl).
45 deputati ai servizi di formazione: 25 L-39 Albatros; 20 Z-326 Trener Master.
Per ciò che concerne gli elicotteri, l'aeronautica cubana dispone di 4 Mi-35 Hind deputati all'attacco di terra.
5 sottomarini anti guerra Mi-14.
8 elicotteri multipli 17 Hip H.
2 elicotteri medi per il trasporto Mi-8P Hip.
Per la difesa aerea ci sono missili semoventi S-75 Divina modificati (SA-2 Guideline- con T-55 sul telaio); S-125 Pechora modificati (SA-3 Goa- con T-55 sul telaio).
Rimorchiatori S-75 Divina (SA-2 Guideline); S-125 Pechora (SA-3 Goa).
Riguardo l'arsenale missilistico sono presenti missili aerei a raggi infrarossi R-3 (AA-2 Atoll); R-60 (AA-8 Aphid); R-73 (AA-11 Archer); a raggi infrarossi/radar R-23/24 (AA-7 Apex); R-27 (AA-10 Alamo).
Missile d'aria di superficie Kh-23 (AS-7 Kerry).
Paramilitari> 26.500 unità in attività, facenti parte del Ministero dell'Interno, divisi rispettivamente in 20.000 impegnanti alla sicurezza di Stato e 6.500 Guardie di Frontiera.
20 pattuglie costiere divise in 2 pattuglie costiere Stenka e 18 pattuglie navali Zhuk.
Manodopera giovanile nell'esercito> 70.000 riservisti.
Forza civile di difesa> 50.000 riservisti.
Milizia territoriale> 1.000.000 di riservisti.

Le forze armate cubane, sebbene presentino innumerevoli arsenali e corpi d'armata, sono caratterizzate da apparecchiature non proprio nuove, risalenti all'era sovietica. D'altra parte è altamente improbabile che il paese sia in grado di finanziare e quindi rinnovare l'intero armamentario bellico. Attualmente  una delle principali attenzioni militari consiste nella sorveglianza/protezione, attraverso legami geo-strategici di alcuni territori, come ad esempio il Venezuela e la Russia, con la quale, nel corso del 2014, ha incrementato i rapporti socio-politici-militari con l'obiettivo di ristabilire delle analisi funzionali per accrescere la sicurezza dell'isola. Indi per cui nel maggio 2014 è stato firmato un accordo di cooperazione per la sicurezza con la Russia, anche se ad oggi non ci sono i dettagli ufficiali .
I piani geo-strategici di Cuba sono inerenti alle loro esigenze, ossia la sicurezza del paese, attraverso accordi diplomatici e alleanze militari, considerata l'esperienza passata che ha visto il paese isolato commercialmente, e non solo. A tutto ciò, però andrebbe aggiunto la rivisitazione dell'arsenale delle Forze Armate, attraverso delle innovazioni in grado di rafforzarle militarmente  e rendere i corpi d'armata più efficienti e sicuri. Ad oggi, considerata la difficoltà economica nell'affrontare tale operazione, l'accordo di cooperazione con altri paesi è l'unica strada percorribile.


*Alessio Pecce (alessio-p89@libero.it)
 Dottore magistrale in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale. Specialista nella progettazione, gestione, valutazione e ricerca per conto di istituzioni politiche e sociali, organizzazioni economiche, imprese ed enti internazionali.



sabato 5 marzo 2016

Messico: La cooperazione militare con l'Italia

Dal sito del MInistero della difesa si apprende il seguente comunicato in merito alla cooperazione militare:

"Italia e Messico condividono la volontà di avviare relazioni bilaterali più stabili e con un carattere di maggior continuità.
Il Memorandum di cooperazione siglato questa mattina rappresenta, in tal senso, un primo passo molto significativo ed è un eccellente risultato della negoziazione portata a termine dai tre dicasteri.
L’accordo odierno pone le basi per la cooperazione nei settori di competenza delle forze terrestri, aeree e marittime e riguarda, tra i vari ambiti di intervento, le operazioni umanitarie e di soccorso, le operazioni di mantenimento della pace, la formazione e l’addestramento.
In sintesi, si tratta di un  passaggio propedeutico all’avvio della negoziazione di un vero e proprio accordo governativo di cooperazione nel settore della Difesa tra i due Paesi.
A siglare l’intesa - questa mattina a Roma - il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il capo del Segretariato della Difesa Nazionale (SEDENA) responsabile dell’Esercito e dell’Aeronautica,Generale Salvador Cienfuegos Zepeda, e il capo del Segretariato della Marina (SEMAR) responsabile della Marina Militare, dell’Aviazione di Marina e dei Reparti Anfibi, Ammiraglio Vidal Francisco Soberon Sanz.
Come l’Italia, il Messico partecipa ad alcune missioni internazionali sotto egida ONU: UNIFIL edEUTM MALI.
Ai suoi interlocutori il Ministro Pinotti ha poi illustrato l’impegno italiano nella coalizione anti Daesh - una minaccia transnazionale che richiede un approccio politico, economico e culturale oltre che militare - ed esposto le preoccupazione del paese in merito allo scenario libico.
M.R.F.