Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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giovedì 23 giugno 2016

Venezuela: l'economia al tracollo

America Latina
Venezuela, cercasi mediatori
Ilaria Masiero
11/06/2016
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Giorni critici per il Venezuela. Mentre l’economia è al tracollo e il malcontento cresce tra la popolazione di pari passo con la fame, le posizioni di presidenza e opposizione appaiono tanto polarizzate quanto inamovibili.

In questo quadro, la prospettiva di una risoluzione interna del contrasto che non passi per un conflitto sembra sempre più irrealistica. Lo stimolo a sbloccare la situazione potrebbe venire dall’esterno - ma è bene non farsi illusioni.

Un paese in crisi
Acqua ed energia elettrica razionate, scaffali vuoti in negozi e supermercati, ospedali sforniti di medicinali di prima necessità, criminalità alle stelle: durante la presidenza Maduro, l’infelice combinazione tra cattiva gestione e basso prezzo del petrolio (di cui il paese detiene le maggiori riserve conosciute al mondo) ha portato l’economia al collasso e il popolo all’esasperazione.

Ciononostante, il presidente, eletto nel 2013 con una maggioranza risicata, non sembra disposto a cambiare rotta e scarica la colpa della crisi sugli Stati Uniti, fautori - a suo dire - di una congiura per distruggere il paese.

A nulla serve l’opposizione dell’Assemblea nazionale (eletta nel 2015 e dominata da forze anti-Maduro): il presidente, grazie al suo controllo sul Tribunale supremo di Giustizia, ha di prassi annullato le decisioni del potere legislativo e ha recentemente affermato che l’Assemblea potrebbe presto scomparire.

Il referendum della discordia
Il malcontento ha trovato un canale di espressione nella promozione di un referendum revocatorio - istituto previsto dalla Costituzione. Questo strumento rappresenta la via maestra per una soluzione interna e legale del contrasto politico, senza rotture dell’ordine democratico.

Comprensibilmente, l’opposizione punta i piedi ed esige che si proceda subito alla consultazione popolare. Maduro, al contrario, cerca di impedire il referendum o per lo meno rimandarlo all’anno prossimo, quando, secondo la tempistica prevista per legge, l’eventuale revoca porterebbe alla sostituzione di Maduro da parte del suo vice anziché ad elezioni anticipate.

Con governo e opposizione arroccati ciascuno sulle proprie posizioni, una risoluzione interna (e pacifica) del contrasto appare ormai improbabile, e il paese potrebbe implodere da un momento all’altro. In molti sperano che l’impulso a sbloccare la situazione evitando il peggio venga dall’esterno. Finora, però, questa speranza non sembra ben riposta.

Oas e Mercosur contro Maduro
Alcune organizzazioni internazionali di cui il Venezuela fa parte hanno intrapreso il cammino delle sanzioni, con lo scopo di mettere Maduro con le spalle al muro. È questo il caso dell’Organizzazione delle nazioni americane (Oas), un ente di cooperazione di cui fanno parte tutti gli stati del continente americano.

Il segretario generale dell’organizzazione ha invocato l’applicazione della Carta democratica interamericana, che prevede sanzioni per i paesi in cui si verifichi una rottura dell’ordine democratico. Maduro ha però potuto contare sull’aiuto dei suoi alleati (Nicaragua, Bolivia e gli Stati Caraibici) per gettare acqua sul fuoco.

Una azione simile sta prendendo piede anche nell’ambito del Mercosur (Mercato Comune del Sud - un blocco sub-regionale formato da Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela per promuovere il libero scambio), ma il processo è ancora agli inizi.

Anche ammesso che si riescano ad adottare delle misure sanzionatorie contro il Venezuela, non è scontato che questo aiuterebbe nella soluzione pacifica della crisi. Di fatto, è probabile che le sanzioni peggiorerebbero ulteriormente le condizioni della popolazione senza smuovere Maduro di una virgola. Il presidente, infatti, si è già dichiarato pronto alla resistenza a oltranza - e il suo comportamento finora sembra confermare tale intenzione.

La strada dei mediatori stranieri 
Un approccio differente per sbloccare la situazione è quello della mediazione tra presidenza e opposizione ad opera di entità esterne. Si tratta di un percorso problematico fin dai primi passi. Un nodo cruciale, infatti, sta nell’individuare un ente che, oltre ad avere interesse ad ovviare la crisi, abbia anche qualche chance di essere accettato da Maduro come interlocutore in un processo di mediazione.

Questa condizione esclude d’un colpo qualsiasi organizzazione internazionale che abbia tra i suoi membri gli Stati Uniti. Perfino una iniziativa della Santa Sede pare non aver avuto miglior fortuna: un diplomatico del Vaticano ha recentemente cancellato una visita nel paese.

Restano come possibili mediatori i vicini paesi dell’America Latina, che hanno tutto l’interesse (per prossimità geografica e interessi commerciali), oltre che canali preferenziali (attraverso i diversi organismi sovranazionali di cui sono membri, insieme al Venezuela), per far valere la causa del dialogo.

Di fatto è in corso un tentativo di mediazione tra governo e opposizione promosso dall’Unasul (Unione delle Nazioni Sud-Americane - una organizzazione intergovernamentale di cui fanno parte tutti i paesi del Sud America) e condotto dall’ex-premier spagnolo, Luis Zapatero, insieme agli ex-presidenti di Panama e Repubblica Domenicana.

Anche in questo caso, però, non c’è nessuna garanzia di successo: le posizioni di Maduro e dell’opposizione sono già estremamente polarizzate e potrebbe essere troppo tardi per una conciliazione in extremis.

Il Venezuela cammina sul bordo del precipizio e, purtroppo, nessuna delle iniziative intraprese finora lascia ben sperare. Nel dubbio, meglio prepararsi al peggio.

Ilaria Masiero è laureata in Discipline Economiche e Sociali e dottoranda in Economia presso la Fundação Getulio Vargas di San Paolo.

domenica 12 giugno 2016

USA. Inizia il confronto finale

Usa 2016
Hillary vs Donald, una partita lunga 150 giorni
Giampiero Gramaglia
08/06/2016
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Che la campagna cominci! a 150 giorni esatti dall’Election Day dell’8 novembre, la partita può iniziare. E tutto quello che è successo finora? un anno di prove e rodaggi, quattro mesi di voti e assemblee di partito? Tutto incasellato nelle cartelle della cronaca e della storia. Hillary Clinton e Donald Trump, forti d’una nomination conquistata a furia di suffragi e delegati, girano oggi pagina e hanno di fronte un foglio bianco.

Su cui presto scorreranno fiumi di parole e un mare d’inchiostro. Comunque vadano le cose, il 46° presidente degli Stati Uniti avrà un che d’inedito, anche se Hillary è sulla breccia politica da almeno trent’anni e Donald riempie di sé le cronache da un tempo parallelo: se vincerà l’ex first lady, sarà la prima volta d’una donna alla Casa Bianca; e se vincerà il magnate dell’immobiliare, sarà l’esordio alla testa dell’Unione di una persona che non ha mai ricoperto nessun ufficio elettivo e che non ha nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica.

Scheletri nell’armadio
I due candidati corrono rischi analoghi: entrambi hanno passati personali e professionali spessi ed hanno arma di zeppi. Da lì, la stampa americana cercherà di tirare fuori scheletri d’ogni tipo, oltre quelli che già volteggiano sulla campagna: per la Clinton, l’emailgate, l’uso dell’account privato quand’era segretario di Stato, ed anche i discorsi profumatamente pagati e tenuti segreti; per Trump, le inchieste per truffa sulle sue Università, che lo rendono nervoso e gli fanno perdere la misura - tanto da usare toni razzisti contro il giudice di San Diego d’origine messicana -, oltre che le storie dei suoi affari fallimentari, i casinò di Atlantic City, la compagnia aerea.

Nell’ultimo Super Martedì di queste primarie, la Clinton ha arginato l’erosione di credibilità che stava subendo e haconsolidato la legittimazione della sua nomination a candidata democratica vincendo più largo del previsto in California e imponendosi pure in New Jersey, New Mexico e South Dakota, mentre Bernie Sanders, il suo rivale, suggellava una campagna al di sopra delle attese con successi nel Nord Dakota e Montana.



Il soffitto di cristallo è stato infranto
Dopo la chiusura dei seggi nel New Jersey, e mentre ancora si votava in California, l’ex first lady, già sicura di avere avuto la maggioranza assoluta dei delegati alla convention democratica di fine luglio a Filadelfia, pronunciava il discorso della vittoria che l’era rimasto in gola otto anni or sono, quando, esattamente il 7 giugno, aveva ceduto le armi all’allora senatore Barack Obama.

Cosa che Sanders non ha ancora fatto nei suoi confronti e che, per il momento, non intende fare: dopo avere ricevuto una telefonata di Hillary, ha parlato ai suoi sostenitori, ha esortato a battersi “insieme” contro Trump, ma non ha riconosciuto d'avere perso la corsa alla nomination. Anche se s’appresta a congedare almeno la metà del suo staff: un segnale di smantellamento inequivocabile.

L'ex segretario di Stato, raggiante sul palco con accanto il marito Bill, ha detto, nel suo discorso, d’avere infranto il soffitto di cristallo che si frapponeva tra le donne e la nomination. Ora le tocca battere un avversario che fa leva “sulla paura”, più showman di lei, ma molto meno affidabile.

Attenti ai Sanderistas
In termini di delegati, la Clinton chiude con un vantaggio di oltre 500 sul senatore del Vermont, senza contare i Super Delegati: i calcoli saranno precisi nelle prossime ore, ma è già chiaro che, dopo il successo in California più largo di tutte le previsioni, l’ex first lady s’avvicina e forse supera la maggioranza assoluta solo con i delegati eletti.

Perde così forza una contestazione di Sanders, secondo cui i notabili del partito non assegnati tramite voto - e che nella stragrande maggioranza si sono dichiarati per Hillary - debbono essere conteggiati solo alla convention, potendo cambiare campo fino all’ultimo istante.

Il presidente Obama s’è congratulato con la Clinton e con Sanders per la loro campagna e dovrebbe presto incontrarli: il presidente s’è già messo al lavoro per l’unità dei democratici contro Trump.

Negli ultimi giorni, secondo il Wall Street Journal, la squadra del senatore del Vermont s’è divisa: ci sono i ‘sanderistas’, i guerriglieri della nomination, che vogliono battersi fino alla convention; e le colombe, pronte ad ammettere la sconfitta e a ricompattare il partito dietro l’ex first lady.

Sanders sembra stare con i suoi ‘ultras’ e prospetta una convention democratica politicamente “aperta”: in ballo non tanto la nomination, quanto la linea.

Se avesse inanellato sconfitte nell’ultimo Super-Martedì, l’ex first lady si sarebbe fortemente indebolita. In questa ipotesi, ancora il Wsj, nel fine settimana, prospettava un ribaltone: fuori Hillary e Sanders, elisisi a vicenda; e dentro un ‘usato sicuro’, come John Kerry, candidato nel 2004, o JoeBiden, il vice-presidente. Fanta-politica, probabilmente, a questo punto.

La California era la chiave di volta di questo discorso: una batosta lì, lo Stato più popoloso e ricco dell’Unione e uno dei più influenti al mondo nel campo culturale e dell'innovazione (tra Hollywood e Silicon Valley), sarebbe stata un segno di debolezza e di friabilità. ̊È invece venuto un successo largo, che le ridà fiducia e slancio.

Fra i repubblicani, il problema non si pone: i Super-Delegati non ci sono e Trump è da tempo rimasto senza avversari e ha già conquistato la maggioranza assoluta: lui lusinga Sanders e ammicca ai ‘sanderistas’, come se potessero trasferirsi nel suo campo; e attacca la Clinton sui soliti fronti, l’accusa di avere usato il Dipartimento di Stato come un bancomat per la sua Fondazione e promette nuove rivelazioni nei suoi confronti nei prossimi giorni. Ma il sostegno dei conservatori moderati alla sua candidatura resta tiepido e le bordate di Trump contro il giudice di San Diego hanno aperto nuove crepe nel fronte repubblicano.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
 
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sabato 4 giugno 2016

USA: poca coesione in casa democratici

Usa 2016
Sanders fa più danni a Hillary che a Donald
Giampiero Gramaglia
28/05/2016
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Donald Trump, ormai il candidato repubblicano alla Casa Bianca, lo tratta come un orsacchiotto, o - come cantava Patty Pravo negli Anni Sessanta -, come una bambola, che la “fai girar” e poi “la butti giù”.

Ma la decisione del senatore Bernie Sanders di restare in corsa contro Hillary Clinton, nonostante non abbia speranze di ottenere la nomination democratica, si rivela sempre più dannosa per l’ex first lady: da una parte, le impedisce di concentrare l’attenzione - e le spese - sul magnate dell’immobiliare suo avversario l’8 novembre; e, dall’altra, ne evidenzia debolezze e fragilità.

Trump ha raggiunto quota 1237 delegati, cioè la maggioranza assoluta di quelli in palio, e ha la garanzia aritmetica della nomination repubblicana. Alla Clinton, ne mancano un centinaio: li conquisterà il 7 giugno, quando si vota in California e in una manciata di altri Stati. Rischia, però, d’arrivare alla meta con un’immagine offuscata dalle troppe sconfitte.

Trump ci scherza:"Rischiamo di correre contro il folle Bernie! È un pazzo, ma a noi piace la gente un po’ pazza", dice in un comizio ad Anaheim in California, prima di aggiungere: “Ma io voglio correre contro Hillary”.

Lo showman prima è incline ad accettare l’idea d’un dibattito con Sanders, purché ne vengano “10/15 milioni da versare in beneficenza contro le malattie delle donne” - detto a Bismarck, nel North Dakota -; poi, lo esclude per iscritto perché "sarebbe inappropriato dibattere con un candidato che finirà secondo nelle primarie".

Fermenti nei partiti e pressioni su Sanders
Ci sono fermenti nei due maggiori partiti Usa, nonostante la scelta dei candidati alla Casa Bianca sia ormai fatta: più forti fra i repubblicani, dove molti notabili non danno l’endorsement a Trump; più sottili fra i democratici, dove aumentano le pressioni perché il senatore del Vermont si ritiri dalla corsa.

Intorno a lui che agisce da indipendente e si autodefinisce socialista, c’è, però, generale rispetto e diffusa simpatia: la sua figura non è percepita come estranea al fronte progressista.

L’aggressività di Sanders, più popolare della sua rivale fra i giovani, le donne, i bianchi, condiziona Hillary, che deve condurre una campagna strabica, preoccupata di rintuzzare gli attacchi da destra e populisti di Trump, l’‘arcinemico’, ma anche quelli da sinistra e liberal del ‘compagno di squadra’.

Così, mentre Trump appare sulla cresta dell’onda e trasforma in voti dell’anti-politica anche le gaffe e le volgarità, l’ex first lady è ora sulla difensiva nei confronti del senatore anche in California, dove, fino a qualche tempo fa, aveva un vantaggio nettissimo.

La filosofia e l’impatto del senatore socialista
Sanders non dà tregua: a San Bernardino, in California, si presenta come l’uomo giusto per battere Trump, che - assicura - “non diventerà presidente”. Il senatore sta girando la California in lungo e in largo e sostiene: "Abbiamo l'energia e l'entusiasmo per vincere”.

Oltre allo showman, sfida a dibattito pure Hillary, che declina: per lei, ora, c’è un solo rivale, il magnate repubblicano, che la supera, per la prima volta, sia pure d’un soffio statisticamente irrilevante, nella media dei sondaggi. Per WP/Abc, ciascuno dei due probabili avversari è mal visto dal 60% dei potenziali elettori; per Wsj/Nbc l’ex first lady batte il magnate di tre punti, ma il senatore lo batte di ben 15 punti.

In un’intervista alla Ap, Sanders prevede che la convention democratica di Filadelfia a fine luglio si trasformi in un “caos”. "La democrazia non è sempre cordiale, tranquilla, gentile … La democrazia è caos. Ogni giorno, la mia vita è caos -‘mess’, in inglese ndr -. Se volete che tutto sia tranquillo e ordinato, che le cose procedano senza un dibattito vigoroso, questa non è democrazia".

E il senatore sottolinea che la sua campagna richiama nuovi arrivati, gente che non avevano mai fatto politica: “Il partito democratico deve decidere se diventare più inclusivo o no … Se farà la scelta giusta e aprirà le porte a lavoratori e giovani, si creerà il dinamismo di cui c’è bisogno e ci sarà caos".

In un’intervista alla Nbc, la Clinton è stata molto conciliante con Sanders, riconoscendogli il diritto di continuare la sua corsa, ma insistendo sulla necessità di concentrare l’attenzione su Trump, che “non è un candidato normale” e che “pone pericoli” agli Stati Uniti. Fra i due, c’è stata un’intesa anche sulla composizione della commissione che dovrà redigere la piattaforma per la convention.

Tra il Nonno e la Zia, una storia d’amore e d’odio
Tra Nonno Bernie, 75 anni, e Zia Hillary, 69 anni, è quasi una storia d’amore e d’odio, anche se scomodare Catullo dopo Patty Pravo può stonare. E c’è chi ipotizza che fra i due finirà in un ticket, con il senatore candidato vice-presidente. Ipotesi di cui la Clinton, per il momento, non intende parlare, senza però escluderla. Si sa che la campagna di Hillary sta vagliando la scelta del vice, senza escludere una donna - però, improbabile -, o un ispanico, o altri.

Sanders sarebbe a corto di fondi per la sua campagna: finora, ha speso circa 207 milioni di dollari, contro i 182 della Clinton. All'inizio di maggio il senatore aveva in cassa meno di sei milioni, mentre l’ex first lady ne aveva 30, secondo la commissione elettorale federale. Ad aprile, i due avevano raccolto più o meno la stessa somma, oltre 25 milioni di dollari. Ma poi Bernie ha speso quasi 39 milioni di dollari, 15 più di Hillary.

Il senatore non rallenta però gli sforzi: sabato 21 maggio, era alla frontiera tra San Diego e Tijuana, in Messico, e s’è impegnato per una riforma dell’immigrazione e la riunificazione delle famiglie: "Abbiamo 11 milioni di persone che sono senza documenti e che credo meritino un cammino verso la cittadinanza" - un messaggio in antitesi con Trump ed i suoi propositi di muri e deportazioni.

Il Nonno rosso batte chiodi di sinistra: "È assurdo che la paga media di un amministratore delegato sia 335 volte quella media d’un lavoratore. Questo grottesco divario deve finire"; e "Gli insegnanti stanno facendo il lavoro più importante in America. Meritano rispetto e un salario migliore". Pezzi di programma che sarà forse Hillary a realizzare.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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I Rapporti del Vaticano con l'America latina

Politica estera del Vaticano
La visione neo bolivariana di papa Francesco 
Aldo Maria Valli
26/05/2016
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L’azione geopolitica di papa Francesco per l’America Latina si ispira a una visione neo bolivariana del continente: il sogno è un’unione sudamericana che dia vita a una “grande patria” fondata sull’asse Brasile - Argentina.

Bergoglio ritiene che si debba ragionare in termini di Stato continentale. Alla base c’è la Teologia del pueblo, derivazione argentina della Teologia della liberazione che rifiuta la lettura marxista della realtà e la lotta di classe, ma valorizza il ruolo del popolo (il “santo popolo”, come lo definisce spesso Bergoglio), considerato come la risorsa numero uno dell’America Latina.

Di qui, con evidenti venature populiste, per non dire peroniste, le dure critiche ai processi di globalizzazione e alla politiche neoliberiste, con la richiesta di integrare l’economia di mercato con una visione sociale.

America Latina, la terra della speranza
Alla vigilia del viaggio che lo ha portato in Ecuador, Bolivia e Paraguay, Francesco, riprendendo l’espressione di Giovanni Paolo II, ha parlato del Sudamerica come continente della speranza perché da esso, ha detto, si attendono nuovi modelli di sviluppo in grado di integrare giustizia, equità, riconciliazione, sviluppo.

Il papa, ha detto il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, vede nel Sudamerica un laboratorio politico e sociale (intervista a Radio Vaticana, 2 luglio 2015): per questo dice no alle colonizzazioni ideologiche, all’imposizione di modelli, e predica il Vangelo della vita, della famiglia e del rispetto del creato.

Il Vaticano e la crisi del Venezuela 
All’atto pratico però Francesco incontra grandi difficoltà. Circa il disastrato Venezuela, il previsto viaggio di monsignor Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, è stato annullato nei giorni scorsi “per motivi che non dipendono dalla Chiesa”, come ha fatto sapere la nunziatura apostolica.

Presenziando alla nomina del nuovo nunzio apostolico per il Venezuela, Gallagher avrebbe dato un segnale a favore della destituzione del presidente Nicolas Maduro, come sperava il leader dell’opposizione Enrique Capriles, ma il governo si è nettamente opposto. La polarizzazione dello scontro in Venezuela ha raggiunto il punto di rottura e lo spettro della guerra civile non è lontano. La Chiesa è forse l’unico attore internazionale che potrebbe contribuire ad allentare la tensione, ma la diplomazia vaticana sta incontrando ostacoli al momento insormontabili.

Se in Colombia, anche grazie alla mediazione vaticana, c’è ottimismo circa gli accordi di pace tra governo e Farc, molti altri fronti restano problematici. Il 19 maggio, ricevendo in Vaticano i vescovi del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), Francesco, tornando a parlare di “patria grande” e di integrazione dei popoli, non ha nascosto le sue preoccupazioni ed ha citato in particolare Venezuela, Brasile, Bolivia e Argentina.

Guerra fredda tra Francesco e Macri
In particolare, circa l’Argentina, a sei mesi dall’inizio del mandato del presidente Maurizio Macri che ha messo fine alla lunga egemonia della famiglia Kirchner-Fernandez, la Chiesa incomincia ad attaccare.

Il primo maggio il presidente della Conferenza episcopale argentina, José María Arancedo ha accusato la politica economica che usa il lavoro come merce e come un semplice scalino della catena finanziaria. L’Università Cattolica di Buenos Aires ha poi diffuso un rapporto che denuncia il dilagare del traffico di droga, specie nei quartieri poveri. Il periodo di osservazione è terminato e ormai si parla apertamente di guerra fredda tra Francesco e Macri.

Intanto a Cuba, terminata l’era dell’arcivescovo Jaime Lucas Ortega y Alamino, grande elettore di Bergoglio al conclave, andato in pensione per raggiunti limiti d’età, è incominciata quella Juan de la Caridad García Rodríguez, cubano, classe 1948, ottimo conoscitore della realtà dell’isola e uomo di mediazione: una nomina nel segno della continuità dopo lo storico accordo tra l’Avana e Washington, raggiunto anche grazie alla decisiva mediazione vaticana.

Aldo Maria Valli è vaticanista di Rai1.
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