Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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venerdì 23 settembre 2016

Stati Unit: orizzonti inquietanti


Stati Uniti
Usa 2016 e l’allarme isolazionista
Matteo Brunelli
22/09/2016
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La campagna elettorale in corso negli Stati Uniti sta dimostrando quanto l’ampio consenso storico per una politica estera liberal-interazionale sia in forte difficoltà.

L'ascesa di Donald Trump e quella, in misura minore, di Bernie Sanders evidenziano il ritorno d’idee fortemente isolazioniste. Le conseguenze di questo cambiamento sono di fondamentale importanza non solo per il sistema internazionale nel suo complesso, ma soprattutto per le relazioni transatlantiche, data la forza dei rapporti economici, politici e militari.

Mentre il relativo declino dell'Europa come interesse strategico degli Stati Uniti può essere in gran parte gestito politicamente, la repentina ricomparsa di queste tendenze isolazioniste è una sfida molto più difficile da affrontare.

Anche in caso di una vittoria democratica alle prossime elezioni, il ritorno dell’isolazionismo limiterà in maniera rilevante il raggio d'azione del prossimo presidente. Un esempio di queste dinamiche è dato dalla promessa di Hillary Clinton di opporsi alla Trans-Pacific Partnership, il grande accordo di libero scambio tra gli Stati Uniti e 11 Stati del Pacifico, sebbene sia stata proprio lei una dei principali sponsor dell’accordo.

Rapporto transatlantico, una storia di alti e bassi
Il rapporto transatlantico ha vissuto molte crisi già dalla sua istituzionalizzazione a causa della percezione di free-riding europeo, in termini economici e militari, e dei dubbi europei in merito all’eccessivo unilateralismo e alla belligeranza statunitense. Queste crisi non hanno però intaccato la tenuta dell’Alleanza, rafforzata dalle dinamiche della guerra fredda e dalla necessità di fare fronte alla minaccia sovietica.

Negli anni ’90 poi, le motivazioni che sono per tradizione alla base dell’Alleanza sono state soppiantate da nuove logiche. In primis dall’interesse comune per l'espansione di un liberal international system, basato sulla liberalizzazione economica e sullo sviluppo della democrazia.

Le prime vere difficoltà iniziarono con il fallimento degli interventi in Iraq e Afghanistan, aggravate poi dalla crisi finanziaria del 2007 e la successiva recessione economica. Queste due crisi, una militare e l’altra economica, cominciarono a erodere i pilastri fondamentali delle relazioni transatlantiche, sollevando dubbi sulla sostenibilità del modello economico globalizzato e sull'efficacia dell’alleanza militare.

Queste difficoltà sarebbero potute risultare superabili se non fosse stato per la scarsa tolleranza del presidente George W. Bush, la cui politica portò a un allontanamento dei partner europei.

Dal riequilibrium di Obama alla Fortress America
Anche se l’elezione di Barack Obama sembrò inaugurare un periodo d’oro per le relazioni transatlantiche, nei fatti il presidente ha optato per una politica di ridimensionamento della presenza Usa nel mondo e quindi anche in Europa. L'annuncio del “Pivot to Asia” - poi modificato in “riequilibirum” - ha evidenziato che le élites politiche statunitensi stavano perdendo interesse per l’Europa e per le questioni transatlantiche in generale, causando in tal modo un senso di generale abbandono nei partner europei.

Molti analisti politici che seguono la campagna elettorale della Clinton stanno analizzando una realtà ancora più preoccupante. Più che un ri-orientamento strategico statunitense da aree come il Medio Oriente e l’Europa verso l’Asia, l’elettorato chiede a gran voce una riduzione complessiva della presenza degli Stati Uniti sulla scena mondiale.

In questa tornata elettorale, Bernie Sanders e soprattutto Donald Trump sono dunque riusciti a portare alla ribalta questa nuova/vecchia idea della politica estera isolazionista, definibile come “Fortress America”.

I cittadini Usa vogliono più politica interna
Sia Trump che Sanders hanno sottolineato a più riprese che gli Usa si concentrino principalmente sui propri problemi, attraverso l'adozione di misure commerciali protezionistiche e la riduzione degli impegni nelle varie alleanze. Il recente commento con il quale Trump ha messo in discussione l'impegno degli Stati Uniti appellandosi all'Articolo 5 della Nato, è solo la punta dell’iceberg di queste posizioni.

Queste idee non state inventate né da Sanders, né da Trump, ma sono cresciute negli anni fino a quando questi politici le hanno, però, sfruttate politicamente.

Un sondaggio PEW conferma, infatti, che quasi sei americani su dieci (57%) vogliono che il governo degli Stati Uniti si occupi delle questioni domestiche, lasciando agli altri Paesi i loro problemi. Solo il 17% sostiene che l’obiettivo principale del prossimo presidente dovrebbe essere la politica estera. Il rischio che una forte maggioranza dell'elettorato statunitense torni su posizioni isolazioniste - anche a causa della paura del terrorismo - è forse più di un sospetto.

Tutte queste tendenze indicano un periodo di crescente difficoltà per le relazioni transatlantiche. In caso di vittoria del repubblicano Trump i problemi saranno notevolmente superiori, ma anche un’ipotetica presidenza Clinton dovrà affrontare questa crescente domanda protezionista.

Per ora la maggior parte degli analisti di politica estera sembrano essere preoccupati dalle minacce di protagonismo di Cina e Russia, ma anche il malessere interno agli States si profila sempre più preoccupante.

Matteo Brunelli, Oxford European Affairs Society, Istituto Affari Internazionali.

martedì 20 settembre 2016

USA. L'Unione è pervasa dalla paura

sa 2016
Il peso delle armi nella corsa alla Casa Bianca
Marco Magnani
17/09/2016
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Rischio, paura e sicurezza sono parole chiave nella campagna elettorale per la Casa Bianca. E il possesso delle armi da fuoco è tema che può indirizzare le decisioni di voto di molti americani.

Dopo gli ennesimi episodi di violenza, il Presidente Barack Obama ha chiesto pubblicamente maggiore controllo nella diffusione delle armi. Per garantirsi l’appoggio della potenteNational Rifle Association (NRA), Donald Trump ha fatto appello ai possessori di armi - utilizzando un’espressione ambigua e infelice - affinché “fermino” Hillary Clinton. La candidata ha confermato che negli Stati Uniti ci sarebbero ben 30mila omicidi l’anno.

Anche limitandosi ai dati ufficiali del governo americano, le statistiche sono impressionanti. Nel 2014 i crimini commessi con armi da fuoco sono stati 11.299: 32 al giorno o 5,2 ogni 100.000 abitanti (5 volte il livello dei paesi sviluppati). In circolazione ci sono oltre 300 milioni di armi nelle mani di circa 80 milioni di cittadini. Come si è arrivati a questa situazione? E perché è così difficile invertire la tendenza?

Il secondo emendamento e il diritto di possedere armi 
La cultura dell’arma da fuoco negli Stati Uniti ha radici profonde. È innanzitutto legata alla storia e alla tradizione. Nella mitica conquista del West, il cow-boy doveva difendere con le armi la propria vita e la proprietà.

C’è di più. Oltre che per le armi da caccia, sport e collezionismo, il porto d’armi è considerato un’estensione stessa della libertà individuale. E la tradizione liberale statunitense difende aggressivamente le libertà individuali. Questi aspetti storico-culturali rendono qualsiasi tentativo di controllo delle armi negli Stati Uniti molto difficile.

In Europa è largamente accettato dagli individui affidare la propria sicurezza a una forza comune costituita dallo Stato. Generalmente il privato cittadino non utilizza la violenza per farsi giustizia da solo e, quando lo fa, si assume i rischi che ne derivano.

Anche gli Stati Uniti teoricamente affidano allo Stato la sicurezza, ma l’opinione pubblica tende a sostenere il diritto dell’individuo a difendersi da solo. Il diritto individuale prevale, dunque, su quello collettivo ed è protetto dalla Costituzione.

Il secondo emendamento garantisce il diritto dei cittadini di possedere e portare armi (“to keep and bear arms”). La Corte Suprema ha confermato chiaramente questo diritto, precisando tuttavia che esso non è illimitato e non impedisce che vi siano regolamenti e limitazioni nel possesso e nell’uso di armi da fuoco.

Ciononostante, l’interpretazione letterale del secondo emendamento costituisce un fortissimo argomento dei sostenitori del diritto al possesso di armi. Addirittura alcuni anarchici lo interpretano come un diritto dei cittadini a difendersi dallo Stato stesso e dal rischio che questo degeneri in dittatura.

Armare i buoni per fermare i cattivi 
Da tempo sono in crescita negli Stati Uniti senso di paura e insicurezza. Diversi sono i motivi. Infatti, a partire dall’11 settembre 2001 il rischio terrorismo è diventato molto concreto anche sul suolo americano. Inoltre, continuano in tutto il paese sparatorie e massacri in centri commerciali, parcheggi, locali pubblici, scuole. Ciò paradossalmente favorisce il fronte di chi non vuole aumentare il controllo alla circolazione delle armi.

Un argomento utilizzato sostiene che, a fronte di utilizzi impropri delle armi da fuoco da parte di folli, occorre consentire ai cittadini onesti di difendersi. In breve: occorre armare i buoni per fermare i cattivi. Il ragionamento è semplicistico, ma largamente diffuso.

Alcune statistiche sembrano confermarne la validità, altre no. Interessante il caso di Chicago dove nel 2012 è stata introdotta una legge che autorizza i cittadini a portare armi non visibili. Dapprima il tasso di crimini era sceso ma poi è prepotentemente risalito. Tra gennaio e febbraio 2016 si sono verificati ben 2,902 omicidi.

NRA, una lobby pesante
Al di là di storia, cultura, legislazione e senso di paura, è importante ricordare il grande peso economico e politico che i produttori di armi da fuoco hanno negli Stati Uniti. La NRA ha 5 milioni di iscritti e una capacità di lobbying in piena attività.

Oltre il 40% degli americani sarebbe favorevole alla sua azione e, secondo alcuni analisti, la posizione riguardo alle armi dei candidati sposterebbe tra il 2% il 5% dei voti nelle elezioni locali e nazionali. Si tratta di numeri decisivi in situazioni di ballottaggio o di corse ravvicinate.

Le impressionanti statistiche sul numero di omicidi e le notizie delle continue stragi portano spesso gli europei alla facile conclusione che gli Stati Uniti dovrebbero fortemente limitare la circolazione di armi da fuoco e la diffusione del porto d’armi. Tuttavia, il rapporto degli statunitensi con le armi è complesso. Certamente non esistono facili soluzioni al problema. A ciò si aggiunge l’impossibilità di formulare proposte realistiche ed efficaci se non si analizzano e comprendono le diverse questioni - culturali, legali, economiche, sociali e politiche - che hanno determinato e sostengono l’attuale diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti.

Marco Magnani vive da circa 30 anni tra Italia e Stati Uniti. Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School, ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (UTET), “Creating Economic Growth” (PalgraveMamillan) e “Terra e Buoi dei Paesi Tuoi” (UTET) e collabora con IlSole24Ore. In questo semestre insegna il corso Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della LUISS (www.magnanimarco.com; twitter @marcomagnan1).

giovedì 15 settembre 2016

Venezuela: il collasso economico

America Latina
Venezuela, la Siria del Sudamerica
Carlo Cauti
23/08/2016
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Esiste un paese al mondo in cui le persone si sentano più insicure che in Siria, dilaniata da una guerra civile da ormai oltre cinque anni? Sì, esiste. E si trova in Sudamerica. È il Venezuela.

Secondo il “2016 Global Law and Order Report”, un sondaggio realizzato dalla Gallup, la percentuale di siriani che si sentono al sicuro oggi all’interno dei confini del loro paese è del 32%, mentre in Venezuela solo il 14% della popolazione si sente protetta. Il peggior risultato tra tutti i paesi analizzati nel sondaggio.

Nella morsa della violenza
I venezuelani non sono diventati improvvisamente paranoici. Si sentono insicuri perché le autorità hanno perso completamente il controllo della violenza, divenuta endemica nella nazione sudamericana. È da parecchi anni che la situazione continua a degenerare, con un’escalation di brutalità, ma lo scorso luglio è stato battuto un record nefasto: negli istituti medico-legali di Caracas sono arrivati oltre 535 cadaveri di vittime di crimini.

Una media di 17 corpi al giorno, che confermano come la capitale venezuelana sia la città più violenta del mondo. Un indice di 119 omicidi ogni 100 mila abitanti. Per avere un’idea, in Italia l’indice è di 0,8 omicidi ogni 100 mila abitanti. A Rio de Janeiro, che non è proprio in Svizzera, l’indice è circa un decimo di quello registrato a Caracas. L’Organizzazione mondiale della sanità considera la soglia di 10 omicidi ogni 100 mila abitanti come “un’epidemia”.

La violenza è naturalmente legata al peggioramento dell’economia del Venezuela, sprofondato in un vortice di crisi che sembra non conoscere fine. Molte voci si stanno alzando in America Latina per chiedere che, a livello internazionale, una tale situazione venga considerata al pari di conflitti veri e propri, come appunto quelli in Siria, in Iraq o in Afghanistan.

In fuga dal paese
Non c'è da stupirsi, quindi, che i venezuelani fuggano in massa dal proprio paese. Secondo uno studio del Pew Research Center, oltre 10 mila venezuelani hanno già chiesto asilo politico agli Stati Uniti solo tra ottobre 2015 e giugno 2016. Nello stesso periodo dell’anno precedente, meno di 4 mila cittadini avevano presentato domanda d’asilo a Washington.

Ma la disperazione è tale che chi lascia il paese cerca rifugio non solo nel “paraíso americano”, ma anche in nazioni teoricamente più povere dello stesso Venezuela. Il piccolo Ecuador, per esempio, ha accolto tra giugno e luglio scorsi oltre 2 mila venezuelani in fuga dall'inferno. Si tratta, di solito, di venezuelani di origine ecuadoriana che, durante gli anni della bonanza economica in Venezuela, sono fuggiti dalla povertà di Quito. Ora che la prosperità ha ceduto il posto ad una crisi conosciuta solo dalle nazioni in guerra, fanno il percorso inverso.

Collasso economico e supermercati vuoti
La situazione in Venezuela non è legata solo al crollo del prezzo del petrolio, oggi quotato ad un terzo del valore dei picchi raggiunti nel 2012-2013. Il paese era infatti già in crisi quando il petrolio superava i 120 dollari al barile. E le ragioni sono direttamente connesse alle disastrose scelte di politica economica dei governi di Hugo Chávez e Nicolás Maduro.

La violenza che attanaglia il paese sudamericano non è altro che un ulteriore segnale del fallimento del cosiddetto “socialismo del XXI secolo”. Gli indicatori che suggellano questo fracasso sono, naturalmente, economici: il Pil è crollato del -4% nel 2014, del -10% nel 2015 e del -6% nel 2016. L’inflazione, secondo i dati ufficiali del governo, ha superato quota 200% (ma, secondo dati ufficiosi e più attendibili, si attesterebbe ad una percentuale dieci volte superiore).

Senza contare la scarsità di materie prime, che ha portato alla chiusura di molte industrie. Impossibile continuare l’attività produttiva. La stessa Coca-Cola ha dovuto chiudere i battenti. Il risultato immediato è stata la scarsità di prodotti nei supermercati venezuelani, il cui simbolo più eclatante è stata la carenza di carta igienica in tutto il territorio nazionale.

Episodi caricaturali a parte, esistono indicatori molto più drammatici. Il primo è quello della crisi alimentare, che ovviamente sta colpendo la popolazione più povera. E che ha portato a fughe di massa verso la Colombia alla ricerca di cibo, nelle poche ore in cui il governo di Caracas ha permesso l’apertura delle frontiere. Scene degne di esodi biblici riprese dalle televisioni di tutto il mondo.

Come se non bastasse, in un recente articolo l’agenzia Reuters ha riportato come un numero crescente di giovani donne ricorra, obbligata dagli eventi, alla sterilizzazione, per evitare le difficoltà di una gravidanza e della crescita di figli in un paese in preda ad una crisi così terribile. Secondo l’agenzia di stampa, “contraccettivi tradizionali sono praticamente scomparsi dagli scaffali, forzando le donne verso un’operazione chirurgica difficilmente reversibile”.

Non è complicato comprendere perché i governi di Argentina, Brasile e Paraguay si rifiutino di passare la presidenza del Mercosur al Venezuela. Un paese in piena crisi umanitaria e che continua la sua traiettoria verso il disastro.

Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile.

mercoledì 14 settembre 2016

USA: a due mesi dal voto

Usa 2016
Hillary vs Donald, due mesi e tre dibattiti per decidere
Giampiero Gramaglia
08/09/2016
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Due mesi, tre dibattiti e un’aleatoria ‘sorpresa d’ottobre’ per decidere chi, tra Hillary Clinton e Donald Trump, sarà il 45° presidente degli Stati Uniti.

Dopo il Labor Day, il Primo maggio Usa, caduto quest’anno il 5 settembre, la campagna maratona di Usa 2016 è entrata nella fase finale e determinante: per i due rivali protagonisti, sarà durata, a conti fatti, un anno e mezzo, perché entrambi sono in corsa dalla primavera 2015.

Hillary & Donald saranno anche i due peggiori candidati alla presidenza degli ultimi quarant'anni, come risulta da un aleatorio sondaggio di Huffington Post e YouGov, ma pure per loro valgono scadenze e rituali: a due mesi dall’Election Day, l’8 novembre, si cessa di contare i voti popolari, che negli Usa non bastano a fare un presidente, e s’iniziano a contare quelli dei Grandi Elettori, che pesano davvero: il repubblicano è forse avanti, nel voto popolare, ma Hillary Clinton ha dalla sua più Grandi Elettori.

Non è proprio la stessa cosa, ma è un po’ come durante le primarie, nel testa a testa col suo rivale Bernie Sanders: a favore dell’ex first lady, giocarono i Super-Delegati, cioè i notabili del partito, con diritto di voto alla convention.

I Grandi Elettori sono quelli ottenuti da un singolo candidato vincendo in uno Stato: chi è davanti anche di un solo voto popolare li prende tutti. Sono 538 e, per fare bingo, bisogna averne 270. Contano solo quelli: se hai preso più voti popolari non serve. Come accadde ad Al Gore: nel 2000, fu sconfitto da George W. Bush per 257 voti o giù di lì in Florida, pur avendone ottenuti oltre mezzo milione in più a livello nazionale.

Un agosto a singhiozzo
Dopo le convention, agosto doveva elettoralmente essere un mese sotto traccia, con i candidati a caccia più di fondi più che di voti. Invece, è stato un mese a zigzag. Prima, un inferno per il magnate e showman, come se di colpo gli americani ne avessero ‘sgamato’ l’inaffidabilità e l’impreparazione, mentre lui, per tre settimane, non azzeccava una sortita: cambiava stile, senza riuscirci - il Trump misurato, che legge e si censura, perde più fan di quanti non ne conquisti - e cambiava per la seconda volta in pochi mesi il suo staff.

Poi, l’ex first lady è di nuovo rimasta impantanata in vicende del passato, che non riesce a scrollarsi di dosso. Così i due candidati, separati d’una decina di punti nella media dei sondaggi due settimane or sono, si ritrovano alla pari a due mesi dall’Election Day.

Il partito repubblicano, il cui fulcro moderato non ha mai digerito la nomination di Trump, è sempre “sull’orlo di una crisi di nervi”, quasi in preda al panico: l’8 novembre gli americani non voteranno solo per il presidente, ma rinnoveranno tutta la Camera e un terzo del Senato. Se Trump affonda malamente, i conservatori rischiano di perdere il controllo d’uno o d’entrambi i rami del Congresso.

I sondaggi e la conta dei Grandi Elettori
Un sondaggio della Cnn, dopo il Labor Day, dà Trump avanti ad Hillary di due punti, 45 a 43%, nelle intenzioni di voto degli elettori su scala nazionale: statisticamente, è match pari. Il libertario Gary Johnson è al 7%; la verde Jill Stein solo al 2%, malgrado lo slogan ammiccante ‘Jill, not Hill’: lei sottrae voti all’ex first lady, Johnson è più repubblicano di Trump e prende un po’ di conservatori moderati.

Il Washington Post, invece, fa la conta dei Grandi Elettori Stato per Stato: la democratica è in testa d’almeno quattro punti - oltre il margine d’errore del rilevamento - in 20 Stati e a Washington DC, che assieme danno 244 Grandi Elettori, solo 26 meno dei 270 necessari per andare alla Casa Bianca.

Anche Trump ha un vantaggio di almeno quattro punti in 20 Stati, ma i suoi sono meno popolosi e danno appena 126 Grandi Elettori. Negli altri 10 Stati (168 voti elettorali) la differenza fra i due è inferiore ai quattro punti e, dunque, il giornale non li assegna.

Il sito 270towin.com, che aggiorna regolarmente la stima dei Grandi Elettori, ne dà 239 alla Clinton e 153 a Trump, lasciando in sospeso Stati in bilico tradizionali e spesso decisivi - Florida, Ohio, Iowa, Wisconsin, Nevada -, ma anche Stati di solito schierati come Pennsylvania, North Carolina, Georgia, Missouri, Arizona, oltre che il New Hampshire.

Le cartine del Washington Post e del sito non si sovrappongono, ma si assomigliano molto. Per Trump, il quadro è critico, anche perché gli voltano le spalle i maschi bianchi, soprattutto i laureati, persino in Texas.

I dibattiti televisivi e la sorpresa d’ottobre
Determinanti saranno i tre dibattiti in diretta tv: testa a testa Hillary & Donald perché nessun altro candidato in lizza, né il libertario Johnson, né la verde Stein, superano nei sondaggi la soglia per esservi ammessi. I confronti si terranno il 26 settembre, il 9 ottobre e il 19 ottobre, mentre quello fra i candidati vice si svolgerà il 4 ottobre - Tim Keane e Mike Pence sono finora stati molto discreti, poco incisivi.

Esauriti i dibattiti, ci sarà, prima del voto, il tormentone della ‘sorpresa d’ottobre’: l’evento inatteso che scompiglia i giochi. Se ne parla sempre, ma, a partire dal 1864, quando ci fu davvero - il Paese era nel pieno della Guerra Civile e i nordisti rovesciarono le sorti del conflitto a loro favore -, non s’è mai verificata.

Quest’anno, però, la ‘sorpresa d’ottobre’ s’accompagna all’inquietudine per la minaccia terroristica e per le tensioni razziali, dopo che l’Unione ha vissuto un’estate calda, tra storie di neri inermi uccisi da poliziotti bianchi e stragi di poliziotti ad opera di killer neri reduci di guerra.

Attentati e violenze, e pure il tema dell’immigrazione, fanno il gioco di Trump, che gioca la carta della paura e parla ai maschi bianchi frustrati dalla presidenza Obama e dal fatto di non essere più né maggioranza né elite nel loro Paese.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

USA: la campagna elettorale sempre più incomprensibile

Usa 2016
Trump e lo smarrimento degli Stati Uniti
Marco Magnani
08/09/2016
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Quando nel giugno 2015 furono annunciate le prime candidature alla presidenza degli Stati Uniti, la probabilità di vittoria di Donald Trump era pressoché nulla. Poco più di un anno dopo, alla convention di Cleveland, Trump ha ricevuto la nomination del Partito repubblicano. Sul fronte democratico Hillary Clinton, che come nel 2008 all’inizio delle primarie sembrava non avere rivali, ha invece trovato in Bernie Sanders un avversario ostico che l’ha fatta soffrire fino alla convention di fine luglio a Filadelfia.

Da qui all’8 novembre prossimo assisteremo a uno scontro durissimo e senza esclusione di colpi. Comunque vada a finire, comprendere le cause delle difficoltà della Clinton e quelle del successo di Trump consente di comprendere meglio gli Stati Uniti di oggi.

Risposte a paure 
La divisione ideologica tra democratici e repubblicani è antica. Tuttavia, mai come negli otto anni di presidenza Obama la politica Usa è stata polarizzata. L’azione politica è stata paralizzata, per la crescente litigiosità tra i partiti e per i contrasti tra Presidente e Congresso. Non a caso negli ultimi anni il Presidente ha fatto varie volte ricorso a decreti. Anche i singoli partiti sono spaccati al loro interno.

La crescente polarizzazione della politica, l’elevato tasso di litigiosità, la deriva giudiziaria, il rischio di blocco delle istituzioni, rafforzano la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. La tentazione è che per risolvere i problemi occorra scavalcare la politica. E Trump si propone come colui che può farlo.

Negli ultimi 15 anni si è sviluppato tra gli statunitensi un senso d’incertezza che genera frustrazione, talvolta paura o addirittura angoscia. Gli episodi di terrorismo e la grave crisi economica del 2008 hanno fortemente contribuito a diffondere questa sensazione. Trump, almeno a parole, offre una risposta a queste ansie.

All’ansia prodotta da globalizzazione e fragilità dell’economia, Trump risponde dicendo “no” agli accordi di libero commercio Tpp e Ttip. Alla paura dell’immigrazione incontrollata - negli Stati Uniti vivono 11 milioni di immigrati illegali - Trump risponde minacciando la costruzione di un muro al confine con il Messico (i cui costi di costruzione dovrebbero peraltro essere sostenuti dai messicani!).

Alla minaccia del terrorismo, Trump risponde proponendo di negare l’ingresso negli Usa ai musulmani. Al senso di frustrazione che deriva dal ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti come potenza internazionale, Trump risponde con uno slogan generico e superficiale ma semplice e immediato: Make America Great Again.

Anche i numerosi e rapidi cambiamenti sociali della società americana negli ultimi decenni hanno contribuito a creare un senso di smarrimento in una parte della popolazione che ha grande difficoltà ad adattarvisi. Temi sociali come l’aborto, i diritti degli omosessuali, il matrimonio gay, la liberalizzazione delle droghe leggere, hanno creato forti contrasti e profonde divisioni. Come spesso accade, le élite hanno accettato con relativa facilità - e anzi spesso promosso - questi cambiamenti. Al contrario una parte della base del Paese fatica ad accettarli. Ciò ha aumentato ulteriormente il già forte senso di scollamento tra élite e cittadini.

Politica o reality show televisivo?
Un’altra spiegazione del successo di Trump sta nella comunicazione. Il candidato repubblicano padroneggia perfettamente lo strumento televisivo. Per 11 anni è stato produttore e conduttore di un reality show di grande successo - The Apprentice - nel quale intervistava giovani in carriera con uno stile diretto e ruvido.

In questa campagna elettorale Trump ha trasferito la cultura e i metodi di comunicazione del reality alla politica. Parla con linguaggio semplice e immediato, populista e spettacolare, politicamente scorretto e spesso volgare. Trump deride gli altri candidati, affibbiando loro soprannomi. Ted Cruz diventa “Ted, the liar” (il bugiardo), Jeb Bush diventa “Bush, the soft” (il molle), Marco Rubio diventa “little Marco” (dove “piccolo” è riferito alla sua gioventù e inesperienza ma anche alla sua bassa statura). I concorrenti politici, ma anche i giornalisti poco compiacenti sono ridicolizzati. Ciò fa scalpore e attira attenzione mediatica.

Le debolezze di Hillary
Hillary Clinton ha certamente molti punti di forza rispetto a Trump. Il più importante è l’esperienza politica. Tuttavia la Clinton ha alcuni punti deboli che potrebbero compromettere la sua corsa verso la Casa Bianca. Tra questi il suo carattere divisivo. Una parte del Paese la ama, un’altra la detesta. Oltre a ciò, Hillary non ispira fiducia a molti elettori. Per diverse ragioni. La principale è l’inchiesta - ormai archiviata - dell’Fbi sulle mail che la Clinton ha inviato da PC personale durante la sua attività di Segretario di Stato.

Un secondo motivo di sfiducia è il suo atteggiamento in occasione dell’attacco al consolato Usa di Bengasi nel settembre del 2012, per il quale resta un’impressione di responsabilità in una vicenda che ha visto in particolare la morte dell’ambasciatore Chris Stevens. Un altro punto debole è costituito dai forti legami con l’establishment. Basta scorrere l’elenco dei finanziatori della Clinton Global Initiative per trovarvi i nomi di banche d’affari, multinazionali e paesi stranieri.

Lo scontro elettorale dei prossimi mesi sarà duro. La Clinton sembra garantire maggiori competenze per svolgere il complesso ruolo di Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia sarebbe un grave errore per la candidata democratica sottovalutare l’avversario. Nel corso dell’ultimo anno le primarie dei due partiti hanno mostrato un’America nuova, in parte inaspettata, non sempre facile da decifrare e comprendere. E Trump ha dimostrato, contro ogni attesa, di saperla ascoltare e cavalcare.

Marco Magnani vive da circa 30 anni tra Italia e Stati Uniti. Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School, ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (UTET), “Creating Economic Growth” (PalgraveMamillan) e “Terra e Buoi dei Paesi Tuoi” (UTET) e collabora con IlSole24Ore. In questo semestre insegna il corso Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della LUISS.
 
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Brasile: verso la soluzione della crisi istituzionale

Brasile
La fine di Dilma 
Carlo Cauti
01/09/2016
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Il primo presidente donna brasiliano è stato costretto a lasciare. Ieri i senatori brasiliani hanno votato rispondendo alla domanda: "Ha commesso l'accusata, la Presidente della Repubblica Dilma Vana Rousseff, i crimini di responsabilità corrispondenti all’ottenimento di prestiti da istituti finanziari controllati dall'Unione e l'apertura di crediti senza autorizzazione da parte del Congresso Nazionale, dei quali è accusata e deve essere condannata alla perdita del suo mandato, restando, di conseguenza, interdetta all'esercizio di qualsiasi carica pubblica per un periodo di otto anni?”.

Nel complesso quesito, approvato con 61 voti a favore e 20 contrari, sono riassunte le ragioni formali che hanno portato all’impeachment dell’ormai ex-presidente del Brasile, Dilma Rousseff.

Prima di spiegare nel merito le accuse, è necessario sottolineare come il processo abbia seguito l’iter previsto dalla Costituzione del 1988. Un procedimento estremamente articolato, durato otto mesi e 17 giorni, con oltre 100 ore di dibattiti tra accusa e difesa, ripetuti interventi della Corte dei Conti e del Supremo tribunale federale (Stf), votato per ben quattro distinte sedute dalla Camera e dal Senato a maggioranze qualificate, e conclusosi con l’allontanamento definitivo della presidente solo dopo un’estenuante seduta-fiume finale durata una settimana, presieduta dal più alto magistrato del paese, il presidente del Stf.

Il tutto trasmesso in diretta nelle case dei brasiliani, nel migliore stile delle telenovelas locali, con tanto di pianti degli avvocati di accusa e difesa. Non si è trattato, quindi, di una rottura democratica, né di un golpe bianco, ma di un processo che ha seguito i dettami della Carta fondamentale, per quanto possa essere stato politicamente traumatico per il Brasile.

Pedaladas fiscais e contabilità creativa
Tra le accuse rivolte alla Rousseff, il primo punto riguarda le cosiddette “pedaladas fiscais”, ovvero il mancato pagamento del governo federale di Brasilia di crediti concessi da diverse banche pubbliche. Una pratica espressamente vietata dall’art 36 della Legge di Responsabilità Fiscale (101/2000), varata proprio per evitare azioni fiscalmente irresponsabili da parte dell’esecutivo, che avrebbe potuto utilizzare le istituzioni finanziarie sotto il suo controllo per aumentare senza limiti la spesa pubblica, dissestando così conti pubblici, devastando la contabilità delle banche statali e generando un’impennata inflattiva.

Gli istituti di credito pubblici, i cui vertici sono nominati direttamente da Brasilia, avevano anticipato ingenti somme per finanziare i programmi sociali varati dall’esecutivo. Una pratica normale nei governi precedenti, i quali avevano rimborsato le banche pochi mesi dopo la concessione degli anticipi. Il governo Rousseff, invece, non lo ha fatto, utilizzando questi crediti come entrate accessorie per oltre 56 miliardi di reais, circa l’1% del Pil. Il tutto senza contabilizzare queste operazioni e truccando così il bilancio federale.

Per ragioni puramente formali, nelle accuse non sono state inserite operazioni analoghe, ma molto più imponenti, portate avanti dal Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social (Bndes), la banca pubblica di sviluppo brasiliana, che ha fornito prestiti sussidiati ad aziende “amiche” del governo per un valore superiore a 500 miliardi di reais, oltre il 10% del Pil. Le stesse aziende che negli anni hanno generosamente finanziato le campagne elettorali del Partido dos Trabalhadores (PT) della Rousseff. Benché non presenti tra i capi d’imputazione, i senatori brasiliani, e l’opinione pubblica, ne hanno naturalmente tenuto conto.

La seconda accusa riguarda i decreti di credito supplementare firmati dalla Rousseff senza l’autorizzazione del Congresso. Questi decreti permettevano un aumento della spesa pubblica aggirando i limiti previsti dalla legge di bilancio votata annualmente da Camera e Senato. L’art 167 della Costituzione Federale proibisce chiaramente questo tipo di aumento delle uscite, indicando nella violazione di tale norma una ragione per l’impeachment del capo dello Stato.

Questi due capi d’accusa, sostanzialmente contabilità creativa, possono sembrare poca cosa e non giustificare la perdita di un mandato presidenziale derivante da elezioni libere e democratiche, come quelle realizzatesi nell’ottobre 2014. Ed è esattamente questa la strategia politica che il PT, vincitore di quella tornata, ha fatto sua per propagandare la narrativa del “golpe” in Brasile e all’estero.

Il Brasile di Dilma in crisi
Tuttavia, bisogna considerare il contesto in cui l’impeachment è stato votato. In un paese in profonda crisi economica, con tre anni consecutivi di contrazione del Pil ( arrivato a -3,8% nel 2015 e a -4% previsto nel 2016), un’inflazione che ha sfiorato l’11% e che ha superato il 150% tra i beni alimentari, una disoccupazione passata dal 4,8% all’11,3%, un real svalutatosi da 1,75 a 4 in relazione al dollaro, interi settori economici completamente dissestati da scelte dirigiste sbagliate del governo e il più grande scandalo di corruzione della storia del Brasile: l’operazione “Lava Jato”.

Un’indagine che ha come epicentro il gigante statale petrolifero Petrobras, di cui Dilma è stata per anni presidente del consiglio di amministrazione, e che ha colpito in pieno il PT, accusato di avere saccheggiato la statale per finanziare le proprie campagne elettorali. Elezioni presidenziali incluse.

Lula, padrino da difendere
Dilma ha perso definitivamente l’appoggio dei parlamentari che ancora la sostenevano, o che erano in dubbio su come votare, quando la scorsa primavera ha cercato di nominare ministro l’ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva, suo padrino politico. L’obiettivo, smascherato dalla pubblicazione di intercettazioni telefoniche tra Dilma e Lula, era quello di garantire a quest’ultimo un foro privilegiato ed evitare così che venisse processato dal tribunale ordinario che sta indagando sulla Lava Jato, la mani pulite locale. Un atto che ha indignato i brasiliani, facendo sprofondare la già bassa popolarità della presidente al 9% tra la popolazione.

L’impeachment, di per sé, non è mai un voto puramente tecnico. Essendo il Congresso a giudicare è necessariamente un atto anche politico. Dilma Rousseff, quindi, non ha perso il suo mandato solo per le ragioni giuridiche, ma anche per un contesto di pessima gestione economica, maldestra articolazione politica e scandalosa attuazione personale. Da mesi in Brasile appariva chiaro che il governo Rousseff non fosse più sostenibile.

Il voto del 31 agosto 2016 genererà infiniti scritti, fiumi di parole, intense battaglie retoriche, virulente dispute politiche e non farà sicuramente parte della memoria condivisa del paese. Ma viste le condizioni in cui versa il Brasile, era necessario girare pagina.

Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile.

venerdì 2 settembre 2016

USA: Elezioni presidenziali 2016

Usa2016
Le ragioni di Trump: perché il tycoon va avanti
Jean-Pierre Darnis
28/08/2016
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Nella corsa alla presidenza americana, la convention democratica sembra aver segnato una svolta per Hillary Clinton: partito compattato, vantaggio nella raccolta di donazioni da parte dei sostenitori e progressi nei sondaggi vanno di pari passo con una serie di intoppi per Donald Trump.

L’immagine che danno i media e gli analisti americani appare dunque come assai univoca, descrivendo anche la candidatura di Hillary Clinton come l’unica concepibile, mentre l’erratico Donald Trump sarebbe un fenomeno da dimenticare al più presto. Uno sguardo più attento rivolto alle mobilitazioni in corso, però, fa emergere una serie di cambiamenti in atto, il bisogno di rattoppare il racconto nazionale americano e di rimettere in moto la mobilità sociale, delineando lo scenario di una possibile vittoria di Trump.

America bianca e povera
La candidatura del tycoon traduce il malessere dell’uomo bianco americano con un livello di educazione relativamente bassa. D'altronde, il campo Clinton difende una serie di altre categorie: le donne, i neri, gli ispanici, la comunità lgbt, la Silicon Valley.

Assistiamo quindi a una frattura fra un’America bianca relativamente povera che, di fronte a delle difficoltà economiche e sociali, segue un discorso vago di ripiego nazionalista con slanci xenofobi,e una “United Colors of America” di cui si fanno campioni i democratici, portatori un modello comunitario trasformato, nel quale anche la lingua inglese viene affiancata a un forte elemento ispanico, come bene illustra la presenza nel ticket per la Casa Bianca del candidato vicepresidente Tim Kaine, fluente in spagnolo.

Al di là dell’apprezzamento per l’uso della lingua di Cervantes (o di Garcia Lorca…), l’elemento comunitario e identitario sembra un fattore caratteristico della candidatura della Clinton, che tra l’altro critica il campo Trump per il suo pessimismo e la sua visione di crisi. Detto in sintesi, i democratici difendono il bilancio della presidenza Obama e insistono sull’ulteriore integrazione delle diverse comunità che compongono il tessuto sociale degli Stati Uniti e sulla difesa dei loro diritti in un contesto segnato anche da violenze razziali.

La società secondo Donald
Va tuttavia sottolineato che il campo democratico non riprende la pertinente analisi di cui è stato portatore Bernie Sanders durante le primarie, relativamente alla percezione di un arresto economico e sociale della società americana.

Si tratta di un problema che non è semplicemente riconducibile a questioni di integrazione comunitaria o razziale, ma che richiama una buona vecchia analisi di classi socio-economiche, con alcuni elementi forti: l’aumento del divario fra la parte più ricca del paese e il resto della collettività, ma anche l’inceppamento della mobilità sociale.

Quest’ultimo punto risulta dolente in un paese in cui la possibilità di farcela nell’ambito di una generazione è alla base del sogno collettivo, e rimanda anche al dibattito sui costi e l’accessibilità del sistema universitario.

Non è che Trump dia delle risposte particolarmente convincenti e strutturate a questi problemi. Però persiste nel denunciare, anche in modo ingarbugliato, una serie di problematiche fortemente sentite dalla pancia del paese: quelle di una società con ridotti margini di progresso economico e sociale per alcune fasce, una percezione negativa combinata con l’accento sull’identità bianca, anglosassone e maschile (per non dire maschilista) minacciata dalla diversità della società statunitense.

È ovvio che per molti aspetti questa visione di ripiego rimanda a delle componenti razziste che sono difficilmente digeribili. Ma bisogna ascoltare il senso della protesta economico e sociale espressa dal consenso intorno a Trump, anche per constatare come la candidatura Clinton non dia risposte soddisfacenti a questi appelli.

Al di là delle debolezze strutturali di una nomination democratica ritrita che assomiglia a un riassunto delle puntate di “House of Cards”, va anche osservato che dietro le numerose difficoltà, l’impresentabile Trump riesce comunque ad addomesticare il partito repubblicano. Dopo alcune vicissitudini interne al partito, hanno dato il loro appoggio anche figure istituzionali come lo speaker della Camera Paul Ryan e i senatori John McCain e Kelly Ayotte, placando anche quei repubblicani che non riescono a passare il Rubicone per votare Clinton.

Di fronte a questa navigazione difficile, molti interpretano ogni tribolazione di Trump come un passo falso. Però il tycoon va avanti, e vanno rilevati alcuni elementi importanti: la sua raccolta fondi ha segnato recentemente un progresso netto, con un’impennata di piccoli donatori che dimostra come egli registri maggiori consensi nella parte medio bassa dell’elettorato, mentre Hillary Clinton trionfa nel ricevere finanziamenti da parte di milionari o star dello show business.

Inoltre, Donald Trump ha recentemente annunciato la creazione di un comitato di esperti economici, composto da imprenditori piuttosto solidi ma anche classici (soltanto vecchia economia, poca tecnologia): una mossa che può accrescere la serietà delle sue proposte, ma segna anche una visione conservatrice di un capitalismo relativamente diffidente nei confronti della Silicon Valley.

Tutto questo corrisponde anche a un emergente dibattito all’interno del partito repubblicano, con alcune voci che chiedono una crescita di investimenti pubblici seguendo una visione keynesiana e rimettono in discussione il dogma reaganiano del taglio lineare delle tasse. Questi sostengono che una riduzione generalizzata delle imposte non corrisponda a una crescita dell’insieme della società, non potendo il problema del divario fra fasce alte e basse di redditi essere trattato in questo modo.

Partita aperta per la presidenza
Donald Trump ha sconvolto gli equilibri all’interno del partito repubblicano, e questo lascia anche spazio per delle importanti revisioni intellettuali. Certo, non va visto come il campione di un nuovo pensiero; semmai come il goffo e spesso inquietante interprete di tendenze contraddittorie. Ma si tratta di tendenze di fondo che rappresentano un sostrato solido per la sua candidatura e che ne determinano anche potenti leve di voto.

Se aggiungiamo a quest’insieme di fattori la combinazione fra la pressione mediatica e la danarosa campagna democratica, che provoca un’impressione di perpetua denigrazione nei confronti del candidato repubblicano, osserviamo un Trump bashingche potrebbe avere effetti perversi nelle urne e provocare le adesioni di molti che non si vogliono lasciare imporre una verità da parte dei media e dell’establishment. Il risultato delle elezioni di novembre è, quindi, tutt’altro che scontato.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e direttore del Programma di ricerca su sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).