L’impatto del crollo dei prezzi del petrolio sta tenendo sul filo del rasoio anche le economie di altri paesi produttori tra cui quelle dell’America Latina che, dopo il Medio Oriente, è l’area che detiene il maggior numero di riserve petrolifere su scala globale. In particolare, Venezuela, Brasile e Messico – i tre principali produttori – sono i Paesi della regione che ne stanno maggiormente risentendo; il Venezuela più degli altri dal momento che la sua economia, diversamente da Messico e Brasile che hanno delle economie diversificate, dipende quasi esclusivamente dal mercato petrolifero in ragione del mancato completamento del processo di diversificazione economica che il governo di Hugo Chávez, prima, e quello di Nicolás Maduro, poi, sono stati incapaci di completare.
martedì 13 gennaio 2015
Venezuela: il calo del petrolio mette a rischio la stabilità venezuelana
di Filippo Romeo
31/12/2014
È ormai stato acclarato da più parti che il crollo del prezzo del petrolio si innesta all’interno della contrapposizione geopolitica in atto tra Russia e Stati Uniti, questi ultimi supportati dai loro stretti alleati sauditi. Secondo autorevoli osservatori, infatti, tale repentino collasso rientrerebbe in una strategia elaborata nel corso dell’incontro tenutosi in una località segreta sulle coste del Mar Rosso tra John Kerry e il Re saudita Abdullah e finalizzata a colpire l’economia russa, che si basa fortemente sulle esportazioni di petrolio e di gas1.
Non è infatti peregrino ipotizzare che l’intento finale di tale strategia, unita al peso delle sanzioni, consista nella creazione di una pesante crisi economica dello Stato russo, tale da compromettere seriamente il ruolo stesso del suo establishment. Peraltro, alcuni analisti, e fra questi F. William Engdahl, ritengono che tale politica provocherà certamente delle conseguenze anche sulla produzione statunitense che verrà, anch’essa, colpita duramente da questo gioco al ribasso. Engdahl, in particolare, sostiene che la strategia arabo-statunitense danneggerà le compagnie che hanno investito nello Shale Oil dal momento che, laddove il prezzo si stabilizzasse sotto la soglia degli 80 dollari al barile, l’attività di perforazione non sarebbe più conveniente.
In altri termini, secondo questa tesi, la nuova situazione prodotta dall’attuale ribasso dei prezzi starebbe offrendo all’Arabia Saudita la ghiotta opportunità di riassumere il controllo globale del mercato del petrolio permettendo, più in particolare, al vecchio establishment saudita di regolare i conti con la nuova guardia che è andata ad investire in USA nello Shale Oil2. Lo Stato saudita, infatti, detenendo ormai il coltello dalla parte del manico, sta ricavando notevoli vantaggi dallo sfruttamento di greggio e sta cercando di far abbassare ulteriormente i prezzi, incentivando al contempo una produzione stabile per poter spremere la quota di mercato degli USA, la cui produzione di petrolio è recentemente aumentata. Da questa valutazione andrebbe dedotta la scelta, adottata dai sauditi in ambito OPEC nella riunione del 27 novembre 2014, di non tagliare la produzione.
Tale linea, sposata anche dai Russi (che non sono membri OPEC), ha suscitato lo stupore di molti, tra cui il ministro del petrolio venezuelano Rafael Ramirez che cercava proprio nei Russi una sponda politica. La scelta dei Russi, infatti, potrebbe essere stata dettata dalla paura di perdere quote di mercato considerato che negli ultimi tempi si è registrato un calo della domanda energetica, anche per via della crisi che ha sancito un drastico calo della produttività, mentre l’offerta continua ad aumentare. A tal proposito basti pensare che economie sviluppate come quella giapponese, o quelle delle maggiori nazioni europee, hanno rallentato il proprio consumo mentre quelle dei nuovi paesi emergenti, bisognosi di energia come la Cina, si sono impegnati a sviluppare energie alternative migliorando la propria efficienza energetica3.
La nuova situazione potrebbe inoltre portare ai Sauditi dei vantaggi anche sullo scacchiere regionale, dal momento che anche l’Iran ovviamente potrebbe subire dei notevoli contraccolpi dal crollo dei prezzi del petrolio.
L’impatto del crollo dei prezzi del petrolio sta tenendo sul filo del rasoio anche le economie di altri paesi produttori tra cui quelle dell’America Latina che, dopo il Medio Oriente, è l’area che detiene il maggior numero di riserve petrolifere su scala globale. In particolare, Venezuela, Brasile e Messico – i tre principali produttori – sono i Paesi della regione che ne stanno maggiormente risentendo; il Venezuela più degli altri dal momento che la sua economia, diversamente da Messico e Brasile che hanno delle economie diversificate, dipende quasi esclusivamente dal mercato petrolifero in ragione del mancato completamento del processo di diversificazione economica che il governo di Hugo Chávez, prima, e quello di Nicolás Maduro, poi, sono stati incapaci di completare.
L’impatto del crollo dei prezzi del petrolio sta tenendo sul filo del rasoio anche le economie di altri paesi produttori tra cui quelle dell’America Latina che, dopo il Medio Oriente, è l’area che detiene il maggior numero di riserve petrolifere su scala globale. In particolare, Venezuela, Brasile e Messico – i tre principali produttori – sono i Paesi della regione che ne stanno maggiormente risentendo; il Venezuela più degli altri dal momento che la sua economia, diversamente da Messico e Brasile che hanno delle economie diversificate, dipende quasi esclusivamente dal mercato petrolifero in ragione del mancato completamento del processo di diversificazione economica che il governo di Hugo Chávez, prima, e quello di Nicolás Maduro, poi, sono stati incapaci di completare.
La sua economia, infatti, si regge al 95% sulle esportazioni petrolifere4 e il dato diventa ancor più cruciale se si tiene conto del fatto che circa l’80% della spesa pubblica viene finanziata dagli introiti derivanti dalla vendita del petrolio e che detta dipendenza comporta una spesa di circa 30-40 miliardi di dollari per coprire i costi di importazione. È chiaro, dunque, che nonostante il Venezuela abbia superato l’Arabia Saudita in termini di riserve di greggio, un’economia così esclusivamente dipendente da tale risorsa non può considerarsi solida nel lungo periodo, soprattutto per la rilevanza di altri fattori, quale per l’appunto l’attuale oscillazione dei prezzi del greggio. Le stime, infatti, pronosticano che quest’anno le entrate del Governo potrebbero già diminuire di 10 miliardi di dollari, mettendo in seria difficoltà i conti pubblici. A ciò si aggiungano i seri problemi economici e sociali che hanno interessato il Paese nel corso dell’ultimo anno che, seppur enfatizzati da certa stampa che sperava di ottenere nel breve periodo un regime change, erano comunque tali da far ritenere che l’economia non versasse in buone acque. La situazione descritta potrebbe altresì peggiorare per via della drastica riduzione delle entrate in valuta estera necessarie a pagare i debiti contratti sui mercati e a garantire l’importazione di beni primari, quali quelli alimentari.
Per quanto concerne il Messico, secondo produttore di petrolio su scala regionale, si osserva che il persistente calo dei prezzi potrebbe mettere a rischio i presunti benefici della riforma energetica intrapresa5, dal momento che non attirerebbe l’interesse di eventuali capitali stranieri poiché, come è ovvio, il petrolio a buon prezzo di mercato gioca un ruolo fondamentale sull’attrazione degli investimenti stranieri. Così il Messico, che sperava attraverso la riforma energetica di migliorare il suo PIL, potrebbe essere costretto a ridimensionare le sue attese.
Il Brasile, invece, è il terzo produttore regionale e la sua produzione viene per la maggior parte reimpiegata nel mercato interno con la conseguenza che il Paese non dipende dai proventi derivanti dalla vendita del petrolio, grazie anche al fatto di avere un’economia diversificata. Nonostante ciò, anche il Brasile è danneggiato (ancorché in modo lieve) da questo calo del prezzo dell’oro nero poiché sarà costretto a posticipare i suoi piani di esplorazione del giacimento “Pre Sal”, situato nelle acque profonde dell’Oceano Atlantico e scoperto nel 2007, dal momento che le esplorazioni sono eccessivamente costose e quindi poco convenienti in un periodo come quello attuale.
In definitiva, si osserva come per il Venezuela la crisi in corso potrebbe tuttavia rappresentare la giusta occasione per fare un decisivo balzo in avanti sulla strada della diversificazione economica. Secondo alcune stime economiche del 2013 il Paese potrebbe ancora beneficiare di circa 21,7 miliardi di dollari che la Banca Centrale detiene come riserve, oltre ad altri 15 miliardi detenuti da varie agenzie governative, per un totale di 36,7 miliardi di dollari6 che potrebbero permettergli di concludere la diversificazione del comparto produttivo. È ovvio che Nicolás Maduro non può perdere altro tempo, dovendo, al contrario, accelerare i tempi al fine di impedire che un eventuale ulteriore peggioramento della situazione vanifichi tutti gli sforzi effettuati da Hugo Chavéz nel corso degli anni, compreso quello di ridurre la povertà. La crucialità di questa fase si coglie maggiormente se si considerano le conseguenze che una crisi economica venezuelana potrebbe comportare a catena a livello regionale. Per un Venezuela indebolito sarebbe difficile, infatti, portare avanti i programmi di assistenza sociale con l’effetto che vi sarebbe il pericolo di uno sfaldamento dei progetti bolivariani portati avanti nell’ultimo decennio.7
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