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A pochi giorni dalla fine dei Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, la domanda che si pongono i brasiliani riguarda la futura destinazione delle infrastrutture create per l’occasione, soprattutto nel momento di grave crisi economica che il Brasile sta affrontando in questo periodo.
Checché ne abbiano detto la stampa brasiliana e quella internazionale fino alla vigilia della cerimonia di apertura, se tutto andrà come previsto (e l’inaugurazione è stata propizia in questo senso) i Giochi saranno molto probabilmente ricordati un successo di pubblico e di critica, eguagliando il risultato positivo della Coppa del Mondo del 2014 (prestazioni calcistiche della squadra di casa a parte). Per quanto possa essere confusa la gestione del villaggio olimpico, i benefici della manifestazione sportiva per la città sono ben visibili. L'evento aiuta l'economia locale e lascia un'eredità importante ai cariocas. Anche le promesse non mantenute, come la pulizia della Baia di Guanabara, sono già state digerite dall’opinione pubblica e rinviate a data da destinarsi. Il problema, tuttavia, rimane legato al post-Giochi, soprattutto per quanto riguarda la carenza di fondi e la scarsa capacità di gestione e manutenzione degli impianti sportivi costruiti per l’occasione. Inoltre, secondo diversi specialisti, la costruzione di un villaggio olimpico ex novo è una strategia obsoleta. Probabilmente, Rio de Janeiro sarà l'ultima città in cui verrà realizzato un progetto di questo tipo: dalla prossima Olimpiade non si organizzeranno più Giochi in questo modo. A Tokyo, nel 2020, saranno utilizzati impianti già esistenti, solo ristrutturati per l’occasione, concentrando gli investimenti in opere infrastrutturali come metropolitane, o in miglioramenti urbani che rimarranno a disposizione dei cittadini dopo la manifestazione sportiva. E lo stesso dovrebbe avvenire anche per le città che ospiteranno i Giochi in futuro. Nessun altro costruirà nuovi parchi olimpici. La fine degli elefanti bianchi È questo quanto previsto dall’“Agenda 2020”, un documento approvato nel 2014 dal Comitato olimpico internazionale (Cio) che intende porre fine ai cosiddetti “elefanti bianchi”, mega-infrastrutture costruite per i Giochi olimpici e condannate all’abbandono o al sottoutilizzo dopo la cerimonia di chiusura. A Rio de Janeiro, ad esempio, la costruzione del velodromo è considerato uno dei casi di realizzazione di infrastrutture inutili per la città. Nella metropoli brasiliana - ma in generale in tutto il paese - il ciclismo è poco praticato e non desta particolare interesse nel pubblico: infatti, il sindaco di Rio Eduardo Paes è dovuto correre ai ripari annunciando che la struttura verrà smontata alla fine dei giochi e donata ad una città che ne faccia richiesta. L'obiettivo del Cio è evitare che, a partire dalle prossime Olimpiadi, si verifichino eccessi di spesa per l’organizzazione delle gare nel paese ospitante. Una decisione che punta a scongiurare sprechi e a non appesantire i bilanci pubblici, ma anche ad arginare opportunità di corruzione. Basti pensare che ancora oggi la Grecia non ha recuperato gli investimenti realizzati per i Giochi del 2004 e sconta le conseguenze di un indebitamento mal pianificato. A Rio, invece, la costruzione del villaggio olimpico è stata realizzata con una mega-speculazione immobiliare dal gigante delle costruzioni Odebrecht, invischiato negli scandali di corruzione a tutti i livelli di governo e il cui amministratore delegato e principale azionista, Marcelo Odebrecht, è agli arresti da oltre un anno nell’ambito dell’operazione “Lava Jato”, la Mani Pulite brasiliana. Infine, non è un caso che lo Stato di Rio de Janeiro abbia dichiarato bancarotta poche settimane prima dell’apertura dei Giochi. Nondimeno, per permettere che in futuro i Giochi si svolgano in paesi in via di sviluppo, dove le infrastrutture sono scarse, il Cio permetterà il raggruppamento di diverse città, ognuna dotata di diverse strutture sportive adeguate o dove sono necessari pochi adattamenti, evitando di concentrare tutti gli eventi in un unico luogo. I paesi del Golfo Persico o quelli dell’America centrale e dei Caraibi si sono già interessati alla possibilità. Così facendo, le nazioni meno sviluppate non dovranno preoccuparsi di realizzare opere gigantesche. Fino ad oggi, i costi per la realizzazione di un’Olimpiade sono lievitati al punto da permettere solo alle città “ricche” di potersi candidare. A partire da questa edizione, saranno invece i Giochi a doversi adattare alle città-sede, e non le città ai Giochi. Opportunità carioca Questa strategia è stata già in parte applicata a Rio 2016. Per il maxi-evento, la città ha trasformato il suo volto. La zona portuale, fino a pochi anni fa squallida ed abbandonata, è stata riqualificata ed oggi è diventata il nuovo “salotto buono” della metropoli brasiliana, arrivando a rivaleggiare con la tradizionale Copacabana. Nuove infrastrutture di trasporto sono state costruite per consentire l’accesso al parco olimpico, e sono stati lanciati programmi sociali destinati a restare anche dopo la fine delle Olimpiadi. La maggior parte delle opere sono state realizzate attraverso una partnership pubblico-privata, cercando di non appesantire troppo le casse pubbliche. Ma l’edizione è comunque costata oltre 40 miliardi di reais (oltre 10,5 miliardi di euro). Rio 2016 potrà essere ricordato come un caso di successo, al pari delle Olimpiadi di Barcellona del 1992, oppure come un costoso fallimento, nel solco di Atene 2004. Non esiste una formula magica per assicurare un ritorno a lungo termine in tutti i settori legati ai grandi progetti sportivi. Il segreto è l'adattamento. Pechino e Sydney, ad esempio, hanno subito un calo significativo del turismo dopo i Giochi, tanto che a Sydney diversi alberghi hanno chiuso dopo le Olimpiadi per mancanza di clienti. Nel caso di Barcellona, ci sono voluti dieci anni per recuperare il numero di turisti del periodo delle Olimpiadi, ma la città catalana è riuscita ad affermarsi come meta turistica mondiale, diventando una metropoli “alla moda”. Ed è a questo esempio che si ispira Rio. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. | ||||||||
mercoledì 31 agosto 2016
Brasile: il fallimento delle Olimpiadi
venerdì 26 agosto 2016
USA: inizia la volata finale
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Le due convention sono ormai storia, anzi cronaca scaduta: di qui all’Election Day, l’8 novembre, restano cento giorni esatti. Agosto se ne andrà sotto traccia, con i candidati a caccia di finanziatori più che di elettori.
Poi, dal Labour Day, il Primo Maggio Usa, quest’anno il 5 settembre, si entrerà negli ultimi due mesi decisivi di questa campagna maratona, che, per i due protagonisti, Hillary Rodham Clinton e Donald Trump, sarà durata, a conti fatti, quasi 18 mesi. Gli appuntamenti di Cleveland - i repubblicani, dal 18 al 21 luglio - e di Filadelfia - i democratici, dal 25 al 28 luglio - e i discorsi finali sono stati specchio fedele dei due partiti e dei due candidati. Hillary non dice una parola fuori posto, ma non scalda i cuori; simula un’empatia, che non prova, con il suo pubblico; e dissimula, senza magari mentire in modo esplicito. Trump è un fiume in piena che le spara grosse a ogni capoverso e che nasconde dietro la contestazione del politically correct e, quindi, dietro il paravento della franchezza, la banalità delle idee e la genericità delle affermazioni, quando non sono pure e semplici balle. I sondaggi ci diranno se l’effetto convention ha rilanciato la Clinton in testa alla corsa, dopo che Trump aveva goduto dello slancio della kermesse repubblicana. Ma Filadelfia ha mediaticamente avuto meno impatto di Cleveland, dove si temevano incidenti che non ci sono sostanzialmente stati. Un discorso senza errori e senza acuti Quello di accettazione della nomination di Hillary è stato un discorso senza errori, ma senza acuti. C’è quasi da dare ragione a Trump, che chiosa: "Una collezione di cliché e di retorica riciclata". L’ex first lady chiude la convention democratica, impegnandosi ad agire, se sarà eletta, per unire l’America e non per dividerla, come - è esplicito - fa il suo rivale. E parla di sicurezza, armi, terrorismo, razzismo, diritti civili; tranquillizza gli alleati sul rispetto degli impegni. Introdotta sul palco del Wells Fargo Center, dopo un’esibizione di Kate Perry, dalla figlia Chelsea, che l’ha presentata come “una lottatrice che non s’arrende”, la Clinton sforna frasi fatte, come “Siamo alla resa dei conti" e "Siamo più forti se uniti". L’ex first lady, mamma e nonna, era vestita di bianco, Chelsea di rosso: lo sfondo blu completava i colori della bandiera americana, ripetuti dalle migliaia di palloncini piovuti sul palco nel tripudio finale. Se Trump è corrosivo, il presidente Barack Obama, che mercoledì sera aveva dato il suo appoggio all’ex first lady, presentandola come suo successore, commenta: "Grande discorso. È esperta. È pronta. Non si arrende mai. Ecco perché Hillary deve essere il nostro prossimo presidente". Dalla fiera di paese al grande cinema Il copione delle convention è sostanzialmente identico, per i repubblicani e per i democratici: sussulti di contestazione all’inizio, perché questa è una democrazia; il voto che zittisce - o almeno acquieta - le polemiche; il crescendo degli interventi - quello dei democratici è incomparabile, Michelle, Bill, Barack, Hillary. Ci sono sfumature di differenze: i repubblicani hanno un contesto più da kermesse, un po’ scaciato, noi diremmo coatto; i democratici sono perfettini, ingessati, pure nella rabbia, o nell’entusiasmo. Così, mentre a Cleveland i repubblicani avevano organizzato una fiera di paese, al Wells Fargo Center di Filadelfia è stato grande cinema: tutti da Oscar: gli attori protagonisti, mogli e mariti, presidenti e aspiranti, ciascuno recita la sua parte da consumato professionista. I meno bravi sono stati i vice. Mike Pence, il repubblicano, e Tim Kaine, il democratico, non valgono i loro boss e si vede: non hanno carisma e non fanno il peso, l’uno troppo rozzo, l’altro troppo prete. Chiunque eleggano, gli americani passeranno i quattro anni del prossimo mandato incrociando le dita che il titolare non debba essere sostituito in corsa. Alle convention, e non solo, tutto è finto, ma tutto pare terribilmente vero; e tutti ci credono, o fingono di farlo: l’unità repubblicana dietro Trump; la complicità tra Obama e Hillary che giusto otto anni or sono stavano a sbranarsi; persino la ‘love story’ di Bill e l’incontro “con una ragazza” - lui che ne ha sicuramente incontrato decine, anche se ne ha sposato una sola. Il lato debole e il soffitto di cristallo Il discorso di Bill è troppo mieloso: questo è il lato debole del copione del kolossal democratico. La condiscendenza, in nome del potere, presente e futuro, di Hillary moglie tradita nei confronti di Bill marito fedifrago, ma governatore o presidente, aliena molte simpatie specie femminili alla candidata democratica. Anche se la letteratura è fitta e variegata, su come Hillary reagì al Sexgate, i giochini erotici del marito nello Studio Ovale con la stagista Monica Lewinski: solidale in pubblico, furibonda in privato fino a scagliargli contro un libro, secondo i racconti di biografi ‘gossippari’. Filadelfia celebra, tuttavia, lo storico evento della prima donna candidata alla Casa Bianca da uno dei due maggiori partiti statunitensi: in un video di neppure due minuti, la Clinton rompe non solo metaforicamente il 'tetto di cristallo', come viene metaforicamente chiamata la barriera invisibile che ostacola da sempre l’ascesa delle donne al vertice. Nel montaggio sfilano i 44 uomini che l'hanno preceduta alla Casa Bianca: una carrellata di volti che alla fine compongono un tetto di vetro vero e proprio. E, in un crescendo, il volto di Hillary viene in primo piano tra i vetri infranti: vestita con un fiammante abito rosso, circondata da donne. Folgorante anche la chiusa del video, indirizzata alle bambine "forse all'ascolto": "Può essere che io diventi la prossima presidente degli Stati Uniti. Ma una di voi sarà sicuramente la successiva". Il passaggio di testimone In questo clima, la convention ha assistito, mercoledì sera, a un passaggio del testimone simbolico tra il presidente Obama e la Clinton: fra i due, sul palco, un abbraccio quasi intenso, romantico. “Sono orgoglioso di te”, dice lui. L’unità del partito dietro la sua candidata è suggellata dalla lealtà di Sanders, che placa la rivolta degli irriducibili ‘sanderistas’, dalla sfilata di ispanici, neri, donne, personaggi dello showbiz, dall’endorsement del magnate dell’editoria ed ex sindaco di New York Mike Bloomberg. Tutti sono con Hillary, che “è la scelta giusta”. E tutti sono contro Trump, che “è un demagogo” e “un incompetente”, ma che “è pericoloso”. Come a Cleveland, anche a Filadelfia l’unità è più forte contro che per. Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI. | ||||||||
I |
lunedì 22 agosto 2016
Brasile; di crisi in crisi
lunedì 1 agosto 2016
Brasile. Le olimpiadi
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Lo spettro di nuovi attentati terroristici firmati dall’autoproclamatosi “stato islamico”- già richiamato dall’Europol in relazione agli europei di calcio svoltisi gli scorsi mesi di giugno e luglio in Francia – potrebbe tornare ad aleggiare in occasione delle ormai prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro.
I numeri che ruotano attorno all’evento sono oggettivamente rilevanti: sono attese circa 300 mila persone tra turisti, spettatori e team di atleti internazionali, controbilanciate da un contestuale dispiegamento di circa 80.000 agenti di polizia, forze armate ed operatori di sicurezza. Una ipotesi di rischio attentati è data come possibile da diversi osservatori, ma non ovviamente sostanziabile quanto a eventuali target e modalità di azione su suolo brasiliano. I margini di imprevedibilità sono elevatissimi, come gli eventi di Dacca del 1̊ luglio e di Nizza del 14 luglio e di Monaco del 22 luglio hanno tristemente dimostrato. I fattori di rischio sociale per la propaganda di Isis Alcuni fattori di rischio precursori e facilitanti sono stati individuati dall’Abin (Agencia Brasileira de Inteligencia), ovvero il servizio intelligence federale brasiliano e veicolati ai media. In un contesto socio-economico fortemente degradato rispetto a 10 anni fa (con un Pil contrattosi del 7% negli ultimi due anni), richiami radicalizzanti nel Paese verde-oro potrebbero attecchire più facilmente in individui appartenenti alle fasce sociali più indigenti, facendosi strada in aree a devianza criminale endogena (favelas, criminalità comune, narcotraffico, tifoseria violenta). Il timore è quello di una islamizzazione di micro-contesti, catalizzando i disagi e gli squilibri sociali. Sotto questa prospettiva, gli arresti operati dalla polizia federale brasiliana nel mese di luglio nei confronti di una sedicente cellula jihadista brasiliana avrebbero evidenziato l’esistenza di una retorica jihadista già annidata in alcuni circuiti web locali. Non va inoltre dimenticata l’esistenza di diversi milioni di brasiliani di ascendenza araba, principalmente di origine libanese e siriana (ed in quota minoritaria maghrebina, egiziana, giordana ed irachena). Giunti nel Paese sin dalla metà dell’Ottocento, sono oggi per la gran parte di cittadini di terza o quarta generazione, generalmente ben integrati, dei quali solo poche migliaia arabo-parlanti e di fede musulmana. Elementi di mitigazione del rischio Di contro, c’è da dire che il Brasile non è certo un Paese politicamente esposto o inviso di per sé agli occhi dell’estremismo jihadista. Nel 2014 l’ex ministro degli Esteri brasiliano, Luiz Alberto Figueiredo, aveva addirittura ribadito la contrarietà brasiliana all’effettuazione di raid aerei contro lo “stato islamico” in assenza di una legittimazione forte dell’Onu. La distanza geografica dai centri di interesse del “Califfato” è inoltre notevole e storicamente il Brasile non ha subito episodi di terrorismo di matrice jihadista. Altro elemento di mitigazione del rischio su cui riflettere è che in Brasile, a differenza dell’Europa e delle sue periferie urbane, la gran parte degli arabo-brasiliani è di religione cattolica e, soprattutto, parte attiva della vita economica locale. Ciò in virtù nei processi integrativi di lungo corso esercitati nel tempo sulle diaspore libanesi e siriane in Brasile, oggi per lo più dinamici rappresentanti dell’imprenditoria e del mondo degli affari locali. Vi è infine da osservare come la cultura di vita brasiliana - intesa come liberalità di agire e di costumi - sia per molti versi incompatibile con i precetti oscurantisti dell’islamismo più radicale. Tra opportunità mediatiche e modelli di minaccia I terroristi cercano di massimizzare il danno prodotto, secondo differenti metriche del danno e della perdita: numero di vittime, distruzione materiale, economica o simbolica. Secondo un principio di visibilità mediatica, le Olimpiadi di Rio potrebbe essere un target di opportunità sostanzioso, caratterizzando la città carioca in senso narrativo-manipolativo come “lasciva e corruttrice”. Nella selezione degli obiettivi da colpire, inoltre, quasi sempre le grandi città metropolitane - come Bali (2002), Casablanca (2003), Madrid (2004), Londra (2005), Mumbai (2008), Boston (2013), Parigi (2015), Ankara (2016), Bruxelles (2016) o Dacca (2016) per citare casi di eventi associati al jihadismo islamico - sono state ritenute dai terroristi appetibili nelle Nazioni -bersaglio individuate. Detto quanto sopra dei luoghi e dei possibili scenari rappresentativi per lo “stato islamico”, un’analisi strutturale dei network terroristici porta a enunciare il seguente principio generale: maggiore è il numero di componenti della cellula, maggiore è la probabilità che la stessa venga intercettata dalle forze di sicurezza. Nel caso di una radicalizzazione improvvisa o di una azione condotta su base isolata, come potrebbe essere il caso di un ipotetico lupo solitario brasiliano, appare molto più difficile un’opera di prevenzione e monitoraggio. In definitiva, un attentato terroristico appartiene ad una classe di eventi del tutto peculiare, basata certo su singole, caotiche e talvolta contraddittorie volontà umane, ma possibilmente da inquadrare anche all’interno di principi tendenzialmente lineari.In questo contesto, massima attenzione andrà esercitata dagli apparati di sicurezza affinché i colori del carnevale olimpico restino immacolati, preservando i valori ecumenici sottesi all’evento a cinque cerchi. Diego Bolchini è analista di relazioni identitarie, autore di contributi per diverse riviste specializzate nei settori afferenti geopolitica, sicurezza e difesa. |
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