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Da quando è stato firmato l’accordo ad interim sul nucleare, delegazioni diplomatiche e imprenditoriali di tutto il mondo si sono affollate a Teheran. Negli Stati Uniti hanno destato particolare attenzione le missioni provenienti dai tradizionali partner europei della Repubblica Islamica - come Germania e Italia - sullo sfondo della relativa distensione determinata dall’avanzamento del processo negoziale lo scorso novembre.
Italia in prima linea In un contesto di crescente competizione per le risorse del pianeta, l’Iran, ricco di materie prime, offre potenzialmente numerose opportunità di guadagno e investimento. Il paese dispone di una consistente classe media e di uno dei pochi mercati ancora isolati dall’economia mondiale. Roma è stata fra le prime in Europa a riallacciare i contatti con Teheran. L’obiettivo è di preparare il campo a una rinnovata cooperazione in settori che vanno dall’industria all’energia, dall’archeologia al turismo. Dal canto suo, il presidente iraniano Hassan Rohani ha definito l’Italia come “la via di accesso all’Europa”. Più in generale, il vecchio continente è un elemento chiave della offensiva carismatica di Teheran, finalizzata alla normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale. L’obiettivo dell’attuale dirigenza iraniana è di convincere l’Occidente che lo sviluppo di armi nucleari non rientra nella strategia di sicurezza della Repubblica islamica. Quest’ultima punterebbe invece a un approccio costruttivo con il resto del mondo, attraverso il rafforzamento delle relazioni energetiche, industriali e commerciali. È questo messaggio che Rohani ha portato al World Economic Forum di Davos. Apertura business-oriented Con l’intensificarsi delle sanzioni, l’Iran aveva adottato un’economia di “resistenza” di impronta autarchica e finalizzata a ridurre la dipendenza del paese dagli introiti petroliferi. Questa strategia era stata ufficializzata dalla Guida Suprema Ali Khamenei che aveva proclamato il 2011 “anno del jihad economico” e il 2012 “anno della produzione nazionale”. Malgrado le sofferenze causate dalle sanzioni alla società iraniana (ulteriormente aggravate da alcune scelte errate dell’amministrazione Ahmadinejad), il processo di riconversione economica era stato portato avanti con relativo successo. Lo conferma il fatto che nel 2012 le esportazioni non petrolifere avevano coperto il 60% delle importazioni. Tuttavia, dopo i problemi evidenziati dalla gestione centralistica di Ahmadinejad, l’elezione di Rohani ha segnato l’ascesa al potere di una classe politica più favorevole all’imprenditoria privata e all’integrazione con l’economia mondiale. Tale classe ritiene che, in un contesto di globalizzazione economica, la strategia autarchica non sia sufficiente ad assicurare al paese lo sviluppo e la ricchezza necessari a garantirgli un posto di rilievo nel consesso internazionale. È questa convinzione - e non il presunto imminente crollo dell’economia del paese, come molti hanno pensato in Occidente - ad aver contribuito a portare Teheran al tavolo negoziale. Crescita e affari Dopo che il Pil iraniano si è contratto dell’1,9% nel 2012, e dell’1,5% nel 2013, il Fondo monetario internazionale prevede nuove espansioni nei prossimi due anni, con un tasso di crescita dell’1,3% nel 2014 e di quasi il 2% nel 2015. La temporanea sospensione di alcune sanzioni marginali, garantita dall’accordo negoziale di novembre, favorirà solo moderatamente la crescita economica dell’Iran. Tuttavia la definitiva rimozione delle sanzioni americane ed europee darebbe un impulso enorme allo sviluppo del paese, viste le sue considerevoli potenzialità. La strategia dell’amministrazione Rohani si prefigge perciò di creare le premesse per una generale perdita di consenso nei confronti dell’impianto sanzionatorio promosso dagli Stati Uniti. Incognite sul negoziato nucleare I dirigenti iraniani sono consapevoli del fatto che giungere a un accordo definitivo sul nucleare sarà molto difficile, soprattutto qualora gli Stati Uniti insistano per lo smantellamento di una porzione consistente delle installazioni. Un’eventualità del genere è infatti considerata inaccettabile. Inoltre, anche qualora si trovasse un’intesa, il sistema di sanzioni americane è talmente stratificato e complesso che la loro abrogazione richiederà anni. A giudicare dall’afflusso di uomini d’affari a Teheran, la diplomazia economica iraniana si sta rivelando efficace, ma i suoi frutti sono ancora di là da venire. Allo stato attuale, l’Iran continua a essere tagliato fuori dal sistema finanziario internazionale. L’accordo ad interim fornisce ossigeno all’economia del paese per un valore stimato non superiore ai 7 miliardi di dollari e per appena sei mesi. Nel caso in cui lo sforzo di giungere a un accordo nucleare definitivo dovesse fallire, a Teheran probabilmente avrebbero di nuovo il sopravvento i sostenitori di un’economia di “resistenza”. Ciò in attesa che il consolidarsi di un mondo multipolare, scalzando gli Usa dal centro economico e finanziario mondiale, renda di fatto ininfluenti le sanzioni americane. Molti a Teheran sono convinti che questo momento non sia troppo lontano. Nel frattempo però, i rischi regionali di un fallimento dell’accordo nucleare sarebbero estremamente elevati. Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Ha collaborato con il Budapest Centre for the International Prevention of Genocide and Mass Atrocities. È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di prossima pubblicazione. | ||||||||
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