giovedì 23 giugno 2016
domenica 12 giugno 2016
USA. Inizia il confronto finale
|
| |||||||||||||||||||||
sabato 4 giugno 2016
USA: poca coesione in casa democratici
Usa 2016 Sanders fa più danni a Hillary che a Donald Giampiero Gramaglia 28/05/2016 |
Donald Trump, ormai il candidato repubblicano alla Casa Bianca, lo tratta come un orsacchiotto, o - come cantava Patty Pravo negli Anni Sessanta -, come una bambola, che la “fai girar” e poi “la butti giù”.
Ma la decisione del senatore Bernie Sanders di restare in corsa contro Hillary Clinton, nonostante non abbia speranze di ottenere la nomination democratica, si rivela sempre più dannosa per l’ex first lady: da una parte, le impedisce di concentrare l’attenzione - e le spese - sul magnate dell’immobiliare suo avversario l’8 novembre; e, dall’altra, ne evidenzia debolezze e fragilità.
Trump ha raggiunto quota 1237 delegati, cioè la maggioranza assoluta di quelli in palio, e ha la garanzia aritmetica della nomination repubblicana. Alla Clinton, ne mancano un centinaio: li conquisterà il 7 giugno, quando si vota in California e in una manciata di altri Stati. Rischia, però, d’arrivare alla meta con un’immagine offuscata dalle troppe sconfitte.
Trump ci scherza:"Rischiamo di correre contro il folle Bernie! È un pazzo, ma a noi piace la gente un po’ pazza", dice in un comizio ad Anaheim in California, prima di aggiungere: “Ma io voglio correre contro Hillary”.
Lo showman prima è incline ad accettare l’idea d’un dibattito con Sanders, purché ne vengano “10/15 milioni da versare in beneficenza contro le malattie delle donne” - detto a Bismarck, nel North Dakota -; poi, lo esclude per iscritto perché "sarebbe inappropriato dibattere con un candidato che finirà secondo nelle primarie".
Fermenti nei partiti e pressioni su Sanders
Ci sono fermenti nei due maggiori partiti Usa, nonostante la scelta dei candidati alla Casa Bianca sia ormai fatta: più forti fra i repubblicani, dove molti notabili non danno l’endorsement a Trump; più sottili fra i democratici, dove aumentano le pressioni perché il senatore del Vermont si ritiri dalla corsa.
Intorno a lui che agisce da indipendente e si autodefinisce socialista, c’è, però, generale rispetto e diffusa simpatia: la sua figura non è percepita come estranea al fronte progressista.
L’aggressività di Sanders, più popolare della sua rivale fra i giovani, le donne, i bianchi, condiziona Hillary, che deve condurre una campagna strabica, preoccupata di rintuzzare gli attacchi da destra e populisti di Trump, l’‘arcinemico’, ma anche quelli da sinistra e liberal del ‘compagno di squadra’.
Così, mentre Trump appare sulla cresta dell’onda e trasforma in voti dell’anti-politica anche le gaffe e le volgarità, l’ex first lady è ora sulla difensiva nei confronti del senatore anche in California, dove, fino a qualche tempo fa, aveva un vantaggio nettissimo.
La filosofia e l’impatto del senatore socialista
Sanders non dà tregua: a San Bernardino, in California, si presenta come l’uomo giusto per battere Trump, che - assicura - “non diventerà presidente”. Il senatore sta girando la California in lungo e in largo e sostiene: "Abbiamo l'energia e l'entusiasmo per vincere”.
Oltre allo showman, sfida a dibattito pure Hillary, che declina: per lei, ora, c’è un solo rivale, il magnate repubblicano, che la supera, per la prima volta, sia pure d’un soffio statisticamente irrilevante, nella media dei sondaggi. Per WP/Abc, ciascuno dei due probabili avversari è mal visto dal 60% dei potenziali elettori; per Wsj/Nbc l’ex first lady batte il magnate di tre punti, ma il senatore lo batte di ben 15 punti.
In un’intervista alla Ap, Sanders prevede che la convention democratica di Filadelfia a fine luglio si trasformi in un “caos”. "La democrazia non è sempre cordiale, tranquilla, gentile … La democrazia è caos. Ogni giorno, la mia vita è caos -‘mess’, in inglese ndr -. Se volete che tutto sia tranquillo e ordinato, che le cose procedano senza un dibattito vigoroso, questa non è democrazia".
E il senatore sottolinea che la sua campagna richiama nuovi arrivati, gente che non avevano mai fatto politica: “Il partito democratico deve decidere se diventare più inclusivo o no … Se farà la scelta giusta e aprirà le porte a lavoratori e giovani, si creerà il dinamismo di cui c’è bisogno e ci sarà caos".
In un’intervista alla Nbc, la Clinton è stata molto conciliante con Sanders, riconoscendogli il diritto di continuare la sua corsa, ma insistendo sulla necessità di concentrare l’attenzione su Trump, che “non è un candidato normale” e che “pone pericoli” agli Stati Uniti. Fra i due, c’è stata un’intesa anche sulla composizione della commissione che dovrà redigere la piattaforma per la convention.
Tra il Nonno e la Zia, una storia d’amore e d’odio
Tra Nonno Bernie, 75 anni, e Zia Hillary, 69 anni, è quasi una storia d’amore e d’odio, anche se scomodare Catullo dopo Patty Pravo può stonare. E c’è chi ipotizza che fra i due finirà in un ticket, con il senatore candidato vice-presidente. Ipotesi di cui la Clinton, per il momento, non intende parlare, senza però escluderla. Si sa che la campagna di Hillary sta vagliando la scelta del vice, senza escludere una donna - però, improbabile -, o un ispanico, o altri.
Sanders sarebbe a corto di fondi per la sua campagna: finora, ha speso circa 207 milioni di dollari, contro i 182 della Clinton. All'inizio di maggio il senatore aveva in cassa meno di sei milioni, mentre l’ex first lady ne aveva 30, secondo la commissione elettorale federale. Ad aprile, i due avevano raccolto più o meno la stessa somma, oltre 25 milioni di dollari. Ma poi Bernie ha speso quasi 39 milioni di dollari, 15 più di Hillary.
Il senatore non rallenta però gli sforzi: sabato 21 maggio, era alla frontiera tra San Diego e Tijuana, in Messico, e s’è impegnato per una riforma dell’immigrazione e la riunificazione delle famiglie: "Abbiamo 11 milioni di persone che sono senza documenti e che credo meritino un cammino verso la cittadinanza" - un messaggio in antitesi con Trump ed i suoi propositi di muri e deportazioni.
Il Nonno rosso batte chiodi di sinistra: "È assurdo che la paga media di un amministratore delegato sia 335 volte quella media d’un lavoratore. Questo grottesco divario deve finire"; e "Gli insegnanti stanno facendo il lavoro più importante in America. Meritano rispetto e un salario migliore". Pezzi di programma che sarà forse Hillary a realizzare.
Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3473#sthash.fUqfgzct.dpufMa la decisione del senatore Bernie Sanders di restare in corsa contro Hillary Clinton, nonostante non abbia speranze di ottenere la nomination democratica, si rivela sempre più dannosa per l’ex first lady: da una parte, le impedisce di concentrare l’attenzione - e le spese - sul magnate dell’immobiliare suo avversario l’8 novembre; e, dall’altra, ne evidenzia debolezze e fragilità.
Trump ha raggiunto quota 1237 delegati, cioè la maggioranza assoluta di quelli in palio, e ha la garanzia aritmetica della nomination repubblicana. Alla Clinton, ne mancano un centinaio: li conquisterà il 7 giugno, quando si vota in California e in una manciata di altri Stati. Rischia, però, d’arrivare alla meta con un’immagine offuscata dalle troppe sconfitte.
Trump ci scherza:"Rischiamo di correre contro il folle Bernie! È un pazzo, ma a noi piace la gente un po’ pazza", dice in un comizio ad Anaheim in California, prima di aggiungere: “Ma io voglio correre contro Hillary”.
Lo showman prima è incline ad accettare l’idea d’un dibattito con Sanders, purché ne vengano “10/15 milioni da versare in beneficenza contro le malattie delle donne” - detto a Bismarck, nel North Dakota -; poi, lo esclude per iscritto perché "sarebbe inappropriato dibattere con un candidato che finirà secondo nelle primarie".
Fermenti nei partiti e pressioni su Sanders
Ci sono fermenti nei due maggiori partiti Usa, nonostante la scelta dei candidati alla Casa Bianca sia ormai fatta: più forti fra i repubblicani, dove molti notabili non danno l’endorsement a Trump; più sottili fra i democratici, dove aumentano le pressioni perché il senatore del Vermont si ritiri dalla corsa.
Intorno a lui che agisce da indipendente e si autodefinisce socialista, c’è, però, generale rispetto e diffusa simpatia: la sua figura non è percepita come estranea al fronte progressista.
L’aggressività di Sanders, più popolare della sua rivale fra i giovani, le donne, i bianchi, condiziona Hillary, che deve condurre una campagna strabica, preoccupata di rintuzzare gli attacchi da destra e populisti di Trump, l’‘arcinemico’, ma anche quelli da sinistra e liberal del ‘compagno di squadra’.
Così, mentre Trump appare sulla cresta dell’onda e trasforma in voti dell’anti-politica anche le gaffe e le volgarità, l’ex first lady è ora sulla difensiva nei confronti del senatore anche in California, dove, fino a qualche tempo fa, aveva un vantaggio nettissimo.
La filosofia e l’impatto del senatore socialista
Sanders non dà tregua: a San Bernardino, in California, si presenta come l’uomo giusto per battere Trump, che - assicura - “non diventerà presidente”. Il senatore sta girando la California in lungo e in largo e sostiene: "Abbiamo l'energia e l'entusiasmo per vincere”.
Oltre allo showman, sfida a dibattito pure Hillary, che declina: per lei, ora, c’è un solo rivale, il magnate repubblicano, che la supera, per la prima volta, sia pure d’un soffio statisticamente irrilevante, nella media dei sondaggi. Per WP/Abc, ciascuno dei due probabili avversari è mal visto dal 60% dei potenziali elettori; per Wsj/Nbc l’ex first lady batte il magnate di tre punti, ma il senatore lo batte di ben 15 punti.
In un’intervista alla Ap, Sanders prevede che la convention democratica di Filadelfia a fine luglio si trasformi in un “caos”. "La democrazia non è sempre cordiale, tranquilla, gentile … La democrazia è caos. Ogni giorno, la mia vita è caos -‘mess’, in inglese ndr -. Se volete che tutto sia tranquillo e ordinato, che le cose procedano senza un dibattito vigoroso, questa non è democrazia".
E il senatore sottolinea che la sua campagna richiama nuovi arrivati, gente che non avevano mai fatto politica: “Il partito democratico deve decidere se diventare più inclusivo o no … Se farà la scelta giusta e aprirà le porte a lavoratori e giovani, si creerà il dinamismo di cui c’è bisogno e ci sarà caos".
In un’intervista alla Nbc, la Clinton è stata molto conciliante con Sanders, riconoscendogli il diritto di continuare la sua corsa, ma insistendo sulla necessità di concentrare l’attenzione su Trump, che “non è un candidato normale” e che “pone pericoli” agli Stati Uniti. Fra i due, c’è stata un’intesa anche sulla composizione della commissione che dovrà redigere la piattaforma per la convention.
Tra il Nonno e la Zia, una storia d’amore e d’odio
Tra Nonno Bernie, 75 anni, e Zia Hillary, 69 anni, è quasi una storia d’amore e d’odio, anche se scomodare Catullo dopo Patty Pravo può stonare. E c’è chi ipotizza che fra i due finirà in un ticket, con il senatore candidato vice-presidente. Ipotesi di cui la Clinton, per il momento, non intende parlare, senza però escluderla. Si sa che la campagna di Hillary sta vagliando la scelta del vice, senza escludere una donna - però, improbabile -, o un ispanico, o altri.
Sanders sarebbe a corto di fondi per la sua campagna: finora, ha speso circa 207 milioni di dollari, contro i 182 della Clinton. All'inizio di maggio il senatore aveva in cassa meno di sei milioni, mentre l’ex first lady ne aveva 30, secondo la commissione elettorale federale. Ad aprile, i due avevano raccolto più o meno la stessa somma, oltre 25 milioni di dollari. Ma poi Bernie ha speso quasi 39 milioni di dollari, 15 più di Hillary.
Il senatore non rallenta però gli sforzi: sabato 21 maggio, era alla frontiera tra San Diego e Tijuana, in Messico, e s’è impegnato per una riforma dell’immigrazione e la riunificazione delle famiglie: "Abbiamo 11 milioni di persone che sono senza documenti e che credo meritino un cammino verso la cittadinanza" - un messaggio in antitesi con Trump ed i suoi propositi di muri e deportazioni.
Il Nonno rosso batte chiodi di sinistra: "È assurdo che la paga media di un amministratore delegato sia 335 volte quella media d’un lavoratore. Questo grottesco divario deve finire"; e "Gli insegnanti stanno facendo il lavoro più importante in America. Meritano rispetto e un salario migliore". Pezzi di programma che sarà forse Hillary a realizzare.
Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
I Rapporti del Vaticano con l'America latina
Politica estera del Vaticano La visione neo bolivariana di papa Francesco Aldo Maria Valli 26/05/2016 |
L’azione geopolitica di papa Francesco per l’America Latina si ispira a una visione neo bolivariana del continente: il sogno è un’unione sudamericana che dia vita a una “grande patria” fondata sull’asse Brasile - Argentina.
Bergoglio ritiene che si debba ragionare in termini di Stato continentale. Alla base c’è la Teologia del pueblo, derivazione argentina della Teologia della liberazione che rifiuta la lettura marxista della realtà e la lotta di classe, ma valorizza il ruolo del popolo (il “santo popolo”, come lo definisce spesso Bergoglio), considerato come la risorsa numero uno dell’America Latina.
Di qui, con evidenti venature populiste, per non dire peroniste, le dure critiche ai processi di globalizzazione e alla politiche neoliberiste, con la richiesta di integrare l’economia di mercato con una visione sociale.
America Latina, la terra della speranza
Alla vigilia del viaggio che lo ha portato in Ecuador, Bolivia e Paraguay, Francesco, riprendendo l’espressione di Giovanni Paolo II, ha parlato del Sudamerica come continente della speranza perché da esso, ha detto, si attendono nuovi modelli di sviluppo in grado di integrare giustizia, equità, riconciliazione, sviluppo.
Il papa, ha detto il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, vede nel Sudamerica un laboratorio politico e sociale (intervista a Radio Vaticana, 2 luglio 2015): per questo dice no alle colonizzazioni ideologiche, all’imposizione di modelli, e predica il Vangelo della vita, della famiglia e del rispetto del creato.
Il Vaticano e la crisi del Venezuela
All’atto pratico però Francesco incontra grandi difficoltà. Circa il disastrato Venezuela, il previsto viaggio di monsignor Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, è stato annullato nei giorni scorsi “per motivi che non dipendono dalla Chiesa”, come ha fatto sapere la nunziatura apostolica.
Presenziando alla nomina del nuovo nunzio apostolico per il Venezuela, Gallagher avrebbe dato un segnale a favore della destituzione del presidente Nicolas Maduro, come sperava il leader dell’opposizione Enrique Capriles, ma il governo si è nettamente opposto. La polarizzazione dello scontro in Venezuela ha raggiunto il punto di rottura e lo spettro della guerra civile non è lontano. La Chiesa è forse l’unico attore internazionale che potrebbe contribuire ad allentare la tensione, ma la diplomazia vaticana sta incontrando ostacoli al momento insormontabili.
Se in Colombia, anche grazie alla mediazione vaticana, c’è ottimismo circa gli accordi di pace tra governo e Farc, molti altri fronti restano problematici. Il 19 maggio, ricevendo in Vaticano i vescovi del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), Francesco, tornando a parlare di “patria grande” e di integrazione dei popoli, non ha nascosto le sue preoccupazioni ed ha citato in particolare Venezuela, Brasile, Bolivia e Argentina.
Guerra fredda tra Francesco e Macri
In particolare, circa l’Argentina, a sei mesi dall’inizio del mandato del presidente Maurizio Macri che ha messo fine alla lunga egemonia della famiglia Kirchner-Fernandez, la Chiesa incomincia ad attaccare.
Il primo maggio il presidente della Conferenza episcopale argentina, José María Arancedo ha accusato la politica economica che usa il lavoro come merce e come un semplice scalino della catena finanziaria. L’Università Cattolica di Buenos Aires ha poi diffuso un rapporto che denuncia il dilagare del traffico di droga, specie nei quartieri poveri. Il periodo di osservazione è terminato e ormai si parla apertamente di guerra fredda tra Francesco e Macri.
Intanto a Cuba, terminata l’era dell’arcivescovo Jaime Lucas Ortega y Alamino, grande elettore di Bergoglio al conclave, andato in pensione per raggiunti limiti d’età, è incominciata quella Juan de la Caridad García Rodríguez, cubano, classe 1948, ottimo conoscitore della realtà dell’isola e uomo di mediazione: una nomina nel segno della continuità dopo lo storico accordo tra l’Avana e Washington, raggiunto anche grazie alla decisiva mediazione vaticana.
Aldo Maria Valli è vaticanista di Rai1.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3469#sthash.NwgQikRW.dpufBergoglio ritiene che si debba ragionare in termini di Stato continentale. Alla base c’è la Teologia del pueblo, derivazione argentina della Teologia della liberazione che rifiuta la lettura marxista della realtà e la lotta di classe, ma valorizza il ruolo del popolo (il “santo popolo”, come lo definisce spesso Bergoglio), considerato come la risorsa numero uno dell’America Latina.
Di qui, con evidenti venature populiste, per non dire peroniste, le dure critiche ai processi di globalizzazione e alla politiche neoliberiste, con la richiesta di integrare l’economia di mercato con una visione sociale.
America Latina, la terra della speranza
Alla vigilia del viaggio che lo ha portato in Ecuador, Bolivia e Paraguay, Francesco, riprendendo l’espressione di Giovanni Paolo II, ha parlato del Sudamerica come continente della speranza perché da esso, ha detto, si attendono nuovi modelli di sviluppo in grado di integrare giustizia, equità, riconciliazione, sviluppo.
Il papa, ha detto il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, vede nel Sudamerica un laboratorio politico e sociale (intervista a Radio Vaticana, 2 luglio 2015): per questo dice no alle colonizzazioni ideologiche, all’imposizione di modelli, e predica il Vangelo della vita, della famiglia e del rispetto del creato.
Il Vaticano e la crisi del Venezuela
All’atto pratico però Francesco incontra grandi difficoltà. Circa il disastrato Venezuela, il previsto viaggio di monsignor Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, è stato annullato nei giorni scorsi “per motivi che non dipendono dalla Chiesa”, come ha fatto sapere la nunziatura apostolica.
Presenziando alla nomina del nuovo nunzio apostolico per il Venezuela, Gallagher avrebbe dato un segnale a favore della destituzione del presidente Nicolas Maduro, come sperava il leader dell’opposizione Enrique Capriles, ma il governo si è nettamente opposto. La polarizzazione dello scontro in Venezuela ha raggiunto il punto di rottura e lo spettro della guerra civile non è lontano. La Chiesa è forse l’unico attore internazionale che potrebbe contribuire ad allentare la tensione, ma la diplomazia vaticana sta incontrando ostacoli al momento insormontabili.
Se in Colombia, anche grazie alla mediazione vaticana, c’è ottimismo circa gli accordi di pace tra governo e Farc, molti altri fronti restano problematici. Il 19 maggio, ricevendo in Vaticano i vescovi del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), Francesco, tornando a parlare di “patria grande” e di integrazione dei popoli, non ha nascosto le sue preoccupazioni ed ha citato in particolare Venezuela, Brasile, Bolivia e Argentina.
Guerra fredda tra Francesco e Macri
In particolare, circa l’Argentina, a sei mesi dall’inizio del mandato del presidente Maurizio Macri che ha messo fine alla lunga egemonia della famiglia Kirchner-Fernandez, la Chiesa incomincia ad attaccare.
Il primo maggio il presidente della Conferenza episcopale argentina, José María Arancedo ha accusato la politica economica che usa il lavoro come merce e come un semplice scalino della catena finanziaria. L’Università Cattolica di Buenos Aires ha poi diffuso un rapporto che denuncia il dilagare del traffico di droga, specie nei quartieri poveri. Il periodo di osservazione è terminato e ormai si parla apertamente di guerra fredda tra Francesco e Macri.
Intanto a Cuba, terminata l’era dell’arcivescovo Jaime Lucas Ortega y Alamino, grande elettore di Bergoglio al conclave, andato in pensione per raggiunti limiti d’età, è incominciata quella Juan de la Caridad García Rodríguez, cubano, classe 1948, ottimo conoscitore della realtà dell’isola e uomo di mediazione: una nomina nel segno della continuità dopo lo storico accordo tra l’Avana e Washington, raggiunto anche grazie alla decisiva mediazione vaticana.
Aldo Maria Valli è vaticanista di Rai1.
Iscriviti a:
Post (Atom)