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venerdì 23 settembre 2016
Stati Unit: orizzonti inquietanti
martedì 20 settembre 2016
USA. L'Unione è pervasa dalla paura
giovedì 15 settembre 2016
Venezuela: il collasso economico
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Esiste un paese al mondo in cui le persone si sentano più insicure che in Siria, dilaniata da una guerra civile da ormai oltre cinque anni? Sì, esiste. E si trova in Sudamerica. È il Venezuela.
Secondo il “2016 Global Law and Order Report”, un sondaggio realizzato dalla Gallup, la percentuale di siriani che si sentono al sicuro oggi all’interno dei confini del loro paese è del 32%, mentre in Venezuela solo il 14% della popolazione si sente protetta. Il peggior risultato tra tutti i paesi analizzati nel sondaggio. Nella morsa della violenza I venezuelani non sono diventati improvvisamente paranoici. Si sentono insicuri perché le autorità hanno perso completamente il controllo della violenza, divenuta endemica nella nazione sudamericana. È da parecchi anni che la situazione continua a degenerare, con un’escalation di brutalità, ma lo scorso luglio è stato battuto un record nefasto: negli istituti medico-legali di Caracas sono arrivati oltre 535 cadaveri di vittime di crimini. Una media di 17 corpi al giorno, che confermano come la capitale venezuelana sia la città più violenta del mondo. Un indice di 119 omicidi ogni 100 mila abitanti. Per avere un’idea, in Italia l’indice è di 0,8 omicidi ogni 100 mila abitanti. A Rio de Janeiro, che non è proprio in Svizzera, l’indice è circa un decimo di quello registrato a Caracas. L’Organizzazione mondiale della sanità considera la soglia di 10 omicidi ogni 100 mila abitanti come “un’epidemia”. La violenza è naturalmente legata al peggioramento dell’economia del Venezuela, sprofondato in un vortice di crisi che sembra non conoscere fine. Molte voci si stanno alzando in America Latina per chiedere che, a livello internazionale, una tale situazione venga considerata al pari di conflitti veri e propri, come appunto quelli in Siria, in Iraq o in Afghanistan. In fuga dal paese Non c'è da stupirsi, quindi, che i venezuelani fuggano in massa dal proprio paese. Secondo uno studio del Pew Research Center, oltre 10 mila venezuelani hanno già chiesto asilo politico agli Stati Uniti solo tra ottobre 2015 e giugno 2016. Nello stesso periodo dell’anno precedente, meno di 4 mila cittadini avevano presentato domanda d’asilo a Washington. Ma la disperazione è tale che chi lascia il paese cerca rifugio non solo nel “paraíso americano”, ma anche in nazioni teoricamente più povere dello stesso Venezuela. Il piccolo Ecuador, per esempio, ha accolto tra giugno e luglio scorsi oltre 2 mila venezuelani in fuga dall'inferno. Si tratta, di solito, di venezuelani di origine ecuadoriana che, durante gli anni della bonanza economica in Venezuela, sono fuggiti dalla povertà di Quito. Ora che la prosperità ha ceduto il posto ad una crisi conosciuta solo dalle nazioni in guerra, fanno il percorso inverso. Collasso economico e supermercati vuoti La situazione in Venezuela non è legata solo al crollo del prezzo del petrolio, oggi quotato ad un terzo del valore dei picchi raggiunti nel 2012-2013. Il paese era infatti già in crisi quando il petrolio superava i 120 dollari al barile. E le ragioni sono direttamente connesse alle disastrose scelte di politica economica dei governi di Hugo Chávez e Nicolás Maduro. La violenza che attanaglia il paese sudamericano non è altro che un ulteriore segnale del fallimento del cosiddetto “socialismo del XXI secolo”. Gli indicatori che suggellano questo fracasso sono, naturalmente, economici: il Pil è crollato del -4% nel 2014, del -10% nel 2015 e del -6% nel 2016. L’inflazione, secondo i dati ufficiali del governo, ha superato quota 200% (ma, secondo dati ufficiosi e più attendibili, si attesterebbe ad una percentuale dieci volte superiore). Senza contare la scarsità di materie prime, che ha portato alla chiusura di molte industrie. Impossibile continuare l’attività produttiva. La stessa Coca-Cola ha dovuto chiudere i battenti. Il risultato immediato è stata la scarsità di prodotti nei supermercati venezuelani, il cui simbolo più eclatante è stata la carenza di carta igienica in tutto il territorio nazionale. Episodi caricaturali a parte, esistono indicatori molto più drammatici. Il primo è quello della crisi alimentare, che ovviamente sta colpendo la popolazione più povera. E che ha portato a fughe di massa verso la Colombia alla ricerca di cibo, nelle poche ore in cui il governo di Caracas ha permesso l’apertura delle frontiere. Scene degne di esodi biblici riprese dalle televisioni di tutto il mondo. Come se non bastasse, in un recente articolo l’agenzia Reuters ha riportato come un numero crescente di giovani donne ricorra, obbligata dagli eventi, alla sterilizzazione, per evitare le difficoltà di una gravidanza e della crescita di figli in un paese in preda ad una crisi così terribile. Secondo l’agenzia di stampa, “contraccettivi tradizionali sono praticamente scomparsi dagli scaffali, forzando le donne verso un’operazione chirurgica difficilmente reversibile”. Non è complicato comprendere perché i governi di Argentina, Brasile e Paraguay si rifiutino di passare la presidenza del Mercosur al Venezuela. Un paese in piena crisi umanitaria e che continua la sua traiettoria verso il disastro. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. | ||||||||
mercoledì 14 settembre 2016
USA: a due mesi dal voto
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Due mesi, tre dibattiti e un’aleatoria ‘sorpresa d’ottobre’ per decidere chi, tra Hillary Clinton e Donald Trump, sarà il 45° presidente degli Stati Uniti.
Dopo il Labor Day, il Primo maggio Usa, caduto quest’anno il 5 settembre, la campagna maratona di Usa 2016 è entrata nella fase finale e determinante: per i due rivali protagonisti, sarà durata, a conti fatti, un anno e mezzo, perché entrambi sono in corsa dalla primavera 2015. Hillary & Donald saranno anche i due peggiori candidati alla presidenza degli ultimi quarant'anni, come risulta da un aleatorio sondaggio di Huffington Post e YouGov, ma pure per loro valgono scadenze e rituali: a due mesi dall’Election Day, l’8 novembre, si cessa di contare i voti popolari, che negli Usa non bastano a fare un presidente, e s’iniziano a contare quelli dei Grandi Elettori, che pesano davvero: il repubblicano è forse avanti, nel voto popolare, ma Hillary Clinton ha dalla sua più Grandi Elettori. Non è proprio la stessa cosa, ma è un po’ come durante le primarie, nel testa a testa col suo rivale Bernie Sanders: a favore dell’ex first lady, giocarono i Super-Delegati, cioè i notabili del partito, con diritto di voto alla convention. I Grandi Elettori sono quelli ottenuti da un singolo candidato vincendo in uno Stato: chi è davanti anche di un solo voto popolare li prende tutti. Sono 538 e, per fare bingo, bisogna averne 270. Contano solo quelli: se hai preso più voti popolari non serve. Come accadde ad Al Gore: nel 2000, fu sconfitto da George W. Bush per 257 voti o giù di lì in Florida, pur avendone ottenuti oltre mezzo milione in più a livello nazionale. Un agosto a singhiozzo Dopo le convention, agosto doveva elettoralmente essere un mese sotto traccia, con i candidati a caccia più di fondi più che di voti. Invece, è stato un mese a zigzag. Prima, un inferno per il magnate e showman, come se di colpo gli americani ne avessero ‘sgamato’ l’inaffidabilità e l’impreparazione, mentre lui, per tre settimane, non azzeccava una sortita: cambiava stile, senza riuscirci - il Trump misurato, che legge e si censura, perde più fan di quanti non ne conquisti - e cambiava per la seconda volta in pochi mesi il suo staff. Poi, l’ex first lady è di nuovo rimasta impantanata in vicende del passato, che non riesce a scrollarsi di dosso. Così i due candidati, separati d’una decina di punti nella media dei sondaggi due settimane or sono, si ritrovano alla pari a due mesi dall’Election Day. Il partito repubblicano, il cui fulcro moderato non ha mai digerito la nomination di Trump, è sempre “sull’orlo di una crisi di nervi”, quasi in preda al panico: l’8 novembre gli americani non voteranno solo per il presidente, ma rinnoveranno tutta la Camera e un terzo del Senato. Se Trump affonda malamente, i conservatori rischiano di perdere il controllo d’uno o d’entrambi i rami del Congresso. I sondaggi e la conta dei Grandi Elettori Un sondaggio della Cnn, dopo il Labor Day, dà Trump avanti ad Hillary di due punti, 45 a 43%, nelle intenzioni di voto degli elettori su scala nazionale: statisticamente, è match pari. Il libertario Gary Johnson è al 7%; la verde Jill Stein solo al 2%, malgrado lo slogan ammiccante ‘Jill, not Hill’: lei sottrae voti all’ex first lady, Johnson è più repubblicano di Trump e prende un po’ di conservatori moderati. Il Washington Post, invece, fa la conta dei Grandi Elettori Stato per Stato: la democratica è in testa d’almeno quattro punti - oltre il margine d’errore del rilevamento - in 20 Stati e a Washington DC, che assieme danno 244 Grandi Elettori, solo 26 meno dei 270 necessari per andare alla Casa Bianca. Anche Trump ha un vantaggio di almeno quattro punti in 20 Stati, ma i suoi sono meno popolosi e danno appena 126 Grandi Elettori. Negli altri 10 Stati (168 voti elettorali) la differenza fra i due è inferiore ai quattro punti e, dunque, il giornale non li assegna. Il sito 270towin.com, che aggiorna regolarmente la stima dei Grandi Elettori, ne dà 239 alla Clinton e 153 a Trump, lasciando in sospeso Stati in bilico tradizionali e spesso decisivi - Florida, Ohio, Iowa, Wisconsin, Nevada -, ma anche Stati di solito schierati come Pennsylvania, North Carolina, Georgia, Missouri, Arizona, oltre che il New Hampshire. Le cartine del Washington Post e del sito non si sovrappongono, ma si assomigliano molto. Per Trump, il quadro è critico, anche perché gli voltano le spalle i maschi bianchi, soprattutto i laureati, persino in Texas. I dibattiti televisivi e la sorpresa d’ottobre Determinanti saranno i tre dibattiti in diretta tv: testa a testa Hillary & Donald perché nessun altro candidato in lizza, né il libertario Johnson, né la verde Stein, superano nei sondaggi la soglia per esservi ammessi. I confronti si terranno il 26 settembre, il 9 ottobre e il 19 ottobre, mentre quello fra i candidati vice si svolgerà il 4 ottobre - Tim Keane e Mike Pence sono finora stati molto discreti, poco incisivi. Esauriti i dibattiti, ci sarà, prima del voto, il tormentone della ‘sorpresa d’ottobre’: l’evento inatteso che scompiglia i giochi. Se ne parla sempre, ma, a partire dal 1864, quando ci fu davvero - il Paese era nel pieno della Guerra Civile e i nordisti rovesciarono le sorti del conflitto a loro favore -, non s’è mai verificata. Quest’anno, però, la ‘sorpresa d’ottobre’ s’accompagna all’inquietudine per la minaccia terroristica e per le tensioni razziali, dopo che l’Unione ha vissuto un’estate calda, tra storie di neri inermi uccisi da poliziotti bianchi e stragi di poliziotti ad opera di killer neri reduci di guerra. Attentati e violenze, e pure il tema dell’immigrazione, fanno il gioco di Trump, che gioca la carta della paura e parla ai maschi bianchi frustrati dalla presidenza Obama e dal fatto di non essere più né maggioranza né elite nel loro Paese. Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI. | ||||||||
USA: la campagna elettorale sempre più incomprensibile
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Brasile: verso la soluzione della crisi istituzionale
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Il primo presidente donna brasiliano è stato costretto a lasciare. Ieri i senatori brasiliani hanno votato rispondendo alla domanda: "Ha commesso l'accusata, la Presidente della Repubblica Dilma Vana Rousseff, i crimini di responsabilità corrispondenti all’ottenimento di prestiti da istituti finanziari controllati dall'Unione e l'apertura di crediti senza autorizzazione da parte del Congresso Nazionale, dei quali è accusata e deve essere condannata alla perdita del suo mandato, restando, di conseguenza, interdetta all'esercizio di qualsiasi carica pubblica per un periodo di otto anni?”.
Nel complesso quesito, approvato con 61 voti a favore e 20 contrari, sono riassunte le ragioni formali che hanno portato all’impeachment dell’ormai ex-presidente del Brasile, Dilma Rousseff. Prima di spiegare nel merito le accuse, è necessario sottolineare come il processo abbia seguito l’iter previsto dalla Costituzione del 1988. Un procedimento estremamente articolato, durato otto mesi e 17 giorni, con oltre 100 ore di dibattiti tra accusa e difesa, ripetuti interventi della Corte dei Conti e del Supremo tribunale federale (Stf), votato per ben quattro distinte sedute dalla Camera e dal Senato a maggioranze qualificate, e conclusosi con l’allontanamento definitivo della presidente solo dopo un’estenuante seduta-fiume finale durata una settimana, presieduta dal più alto magistrato del paese, il presidente del Stf. Il tutto trasmesso in diretta nelle case dei brasiliani, nel migliore stile delle telenovelas locali, con tanto di pianti degli avvocati di accusa e difesa. Non si è trattato, quindi, di una rottura democratica, né di un golpe bianco, ma di un processo che ha seguito i dettami della Carta fondamentale, per quanto possa essere stato politicamente traumatico per il Brasile. Pedaladas fiscais e contabilità creativa Tra le accuse rivolte alla Rousseff, il primo punto riguarda le cosiddette “pedaladas fiscais”, ovvero il mancato pagamento del governo federale di Brasilia di crediti concessi da diverse banche pubbliche. Una pratica espressamente vietata dall’art 36 della Legge di Responsabilità Fiscale (101/2000), varata proprio per evitare azioni fiscalmente irresponsabili da parte dell’esecutivo, che avrebbe potuto utilizzare le istituzioni finanziarie sotto il suo controllo per aumentare senza limiti la spesa pubblica, dissestando così conti pubblici, devastando la contabilità delle banche statali e generando un’impennata inflattiva. Gli istituti di credito pubblici, i cui vertici sono nominati direttamente da Brasilia, avevano anticipato ingenti somme per finanziare i programmi sociali varati dall’esecutivo. Una pratica normale nei governi precedenti, i quali avevano rimborsato le banche pochi mesi dopo la concessione degli anticipi. Il governo Rousseff, invece, non lo ha fatto, utilizzando questi crediti come entrate accessorie per oltre 56 miliardi di reais, circa l’1% del Pil. Il tutto senza contabilizzare queste operazioni e truccando così il bilancio federale. Per ragioni puramente formali, nelle accuse non sono state inserite operazioni analoghe, ma molto più imponenti, portate avanti dal Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social (Bndes), la banca pubblica di sviluppo brasiliana, che ha fornito prestiti sussidiati ad aziende “amiche” del governo per un valore superiore a 500 miliardi di reais, oltre il 10% del Pil. Le stesse aziende che negli anni hanno generosamente finanziato le campagne elettorali del Partido dos Trabalhadores (PT) della Rousseff. Benché non presenti tra i capi d’imputazione, i senatori brasiliani, e l’opinione pubblica, ne hanno naturalmente tenuto conto. La seconda accusa riguarda i decreti di credito supplementare firmati dalla Rousseff senza l’autorizzazione del Congresso. Questi decreti permettevano un aumento della spesa pubblica aggirando i limiti previsti dalla legge di bilancio votata annualmente da Camera e Senato. L’art 167 della Costituzione Federale proibisce chiaramente questo tipo di aumento delle uscite, indicando nella violazione di tale norma una ragione per l’impeachment del capo dello Stato. Questi due capi d’accusa, sostanzialmente contabilità creativa, possono sembrare poca cosa e non giustificare la perdita di un mandato presidenziale derivante da elezioni libere e democratiche, come quelle realizzatesi nell’ottobre 2014. Ed è esattamente questa la strategia politica che il PT, vincitore di quella tornata, ha fatto sua per propagandare la narrativa del “golpe” in Brasile e all’estero. Il Brasile di Dilma in crisi Tuttavia, bisogna considerare il contesto in cui l’impeachment è stato votato. In un paese in profonda crisi economica, con tre anni consecutivi di contrazione del Pil ( arrivato a -3,8% nel 2015 e a -4% previsto nel 2016), un’inflazione che ha sfiorato l’11% e che ha superato il 150% tra i beni alimentari, una disoccupazione passata dal 4,8% all’11,3%, un real svalutatosi da 1,75 a 4 in relazione al dollaro, interi settori economici completamente dissestati da scelte dirigiste sbagliate del governo e il più grande scandalo di corruzione della storia del Brasile: l’operazione “Lava Jato”. Un’indagine che ha come epicentro il gigante statale petrolifero Petrobras, di cui Dilma è stata per anni presidente del consiglio di amministrazione, e che ha colpito in pieno il PT, accusato di avere saccheggiato la statale per finanziare le proprie campagne elettorali. Elezioni presidenziali incluse. Lula, padrino da difendere Dilma ha perso definitivamente l’appoggio dei parlamentari che ancora la sostenevano, o che erano in dubbio su come votare, quando la scorsa primavera ha cercato di nominare ministro l’ex-presidente Luiz Inácio Lula da Silva, suo padrino politico. L’obiettivo, smascherato dalla pubblicazione di intercettazioni telefoniche tra Dilma e Lula, era quello di garantire a quest’ultimo un foro privilegiato ed evitare così che venisse processato dal tribunale ordinario che sta indagando sulla Lava Jato, la mani pulite locale. Un atto che ha indignato i brasiliani, facendo sprofondare la già bassa popolarità della presidente al 9% tra la popolazione. L’impeachment, di per sé, non è mai un voto puramente tecnico. Essendo il Congresso a giudicare è necessariamente un atto anche politico. Dilma Rousseff, quindi, non ha perso il suo mandato solo per le ragioni giuridiche, ma anche per un contesto di pessima gestione economica, maldestra articolazione politica e scandalosa attuazione personale. Da mesi in Brasile appariva chiaro che il governo Rousseff non fosse più sostenibile. Il voto del 31 agosto 2016 genererà infiniti scritti, fiumi di parole, intense battaglie retoriche, virulente dispute politiche e non farà sicuramente parte della memoria condivisa del paese. Ma viste le condizioni in cui versa il Brasile, era necessario girare pagina. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. |
venerdì 2 settembre 2016
USA: Elezioni presidenziali 2016
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Nella corsa alla presidenza americana, la convention democratica sembra aver segnato una svolta per Hillary Clinton: partito compattato, vantaggio nella raccolta di donazioni da parte dei sostenitori e progressi nei sondaggi vanno di pari passo con una serie di intoppi per Donald Trump.
L’immagine che danno i media e gli analisti americani appare dunque come assai univoca, descrivendo anche la candidatura di Hillary Clinton come l’unica concepibile, mentre l’erratico Donald Trump sarebbe un fenomeno da dimenticare al più presto. Uno sguardo più attento rivolto alle mobilitazioni in corso, però, fa emergere una serie di cambiamenti in atto, il bisogno di rattoppare il racconto nazionale americano e di rimettere in moto la mobilità sociale, delineando lo scenario di una possibile vittoria di Trump. America bianca e povera La candidatura del tycoon traduce il malessere dell’uomo bianco americano con un livello di educazione relativamente bassa. D'altronde, il campo Clinton difende una serie di altre categorie: le donne, i neri, gli ispanici, la comunità lgbt, la Silicon Valley. Assistiamo quindi a una frattura fra un’America bianca relativamente povera che, di fronte a delle difficoltà economiche e sociali, segue un discorso vago di ripiego nazionalista con slanci xenofobi,e una “United Colors of America” di cui si fanno campioni i democratici, portatori un modello comunitario trasformato, nel quale anche la lingua inglese viene affiancata a un forte elemento ispanico, come bene illustra la presenza nel ticket per la Casa Bianca del candidato vicepresidente Tim Kaine, fluente in spagnolo. Al di là dell’apprezzamento per l’uso della lingua di Cervantes (o di Garcia Lorca…), l’elemento comunitario e identitario sembra un fattore caratteristico della candidatura della Clinton, che tra l’altro critica il campo Trump per il suo pessimismo e la sua visione di crisi. Detto in sintesi, i democratici difendono il bilancio della presidenza Obama e insistono sull’ulteriore integrazione delle diverse comunità che compongono il tessuto sociale degli Stati Uniti e sulla difesa dei loro diritti in un contesto segnato anche da violenze razziali. La società secondo Donald Va tuttavia sottolineato che il campo democratico non riprende la pertinente analisi di cui è stato portatore Bernie Sanders durante le primarie, relativamente alla percezione di un arresto economico e sociale della società americana. Si tratta di un problema che non è semplicemente riconducibile a questioni di integrazione comunitaria o razziale, ma che richiama una buona vecchia analisi di classi socio-economiche, con alcuni elementi forti: l’aumento del divario fra la parte più ricca del paese e il resto della collettività, ma anche l’inceppamento della mobilità sociale. Quest’ultimo punto risulta dolente in un paese in cui la possibilità di farcela nell’ambito di una generazione è alla base del sogno collettivo, e rimanda anche al dibattito sui costi e l’accessibilità del sistema universitario. Non è che Trump dia delle risposte particolarmente convincenti e strutturate a questi problemi. Però persiste nel denunciare, anche in modo ingarbugliato, una serie di problematiche fortemente sentite dalla pancia del paese: quelle di una società con ridotti margini di progresso economico e sociale per alcune fasce, una percezione negativa combinata con l’accento sull’identità bianca, anglosassone e maschile (per non dire maschilista) minacciata dalla diversità della società statunitense. È ovvio che per molti aspetti questa visione di ripiego rimanda a delle componenti razziste che sono difficilmente digeribili. Ma bisogna ascoltare il senso della protesta economico e sociale espressa dal consenso intorno a Trump, anche per constatare come la candidatura Clinton non dia risposte soddisfacenti a questi appelli. Al di là delle debolezze strutturali di una nomination democratica ritrita che assomiglia a un riassunto delle puntate di “House of Cards”, va anche osservato che dietro le numerose difficoltà, l’impresentabile Trump riesce comunque ad addomesticare il partito repubblicano. Dopo alcune vicissitudini interne al partito, hanno dato il loro appoggio anche figure istituzionali come lo speaker della Camera Paul Ryan e i senatori John McCain e Kelly Ayotte, placando anche quei repubblicani che non riescono a passare il Rubicone per votare Clinton. Di fronte a questa navigazione difficile, molti interpretano ogni tribolazione di Trump come un passo falso. Però il tycoon va avanti, e vanno rilevati alcuni elementi importanti: la sua raccolta fondi ha segnato recentemente un progresso netto, con un’impennata di piccoli donatori che dimostra come egli registri maggiori consensi nella parte medio bassa dell’elettorato, mentre Hillary Clinton trionfa nel ricevere finanziamenti da parte di milionari o star dello show business. Inoltre, Donald Trump ha recentemente annunciato la creazione di un comitato di esperti economici, composto da imprenditori piuttosto solidi ma anche classici (soltanto vecchia economia, poca tecnologia): una mossa che può accrescere la serietà delle sue proposte, ma segna anche una visione conservatrice di un capitalismo relativamente diffidente nei confronti della Silicon Valley. Tutto questo corrisponde anche a un emergente dibattito all’interno del partito repubblicano, con alcune voci che chiedono una crescita di investimenti pubblici seguendo una visione keynesiana e rimettono in discussione il dogma reaganiano del taglio lineare delle tasse. Questi sostengono che una riduzione generalizzata delle imposte non corrisponda a una crescita dell’insieme della società, non potendo il problema del divario fra fasce alte e basse di redditi essere trattato in questo modo. Partita aperta per la presidenza Donald Trump ha sconvolto gli equilibri all’interno del partito repubblicano, e questo lascia anche spazio per delle importanti revisioni intellettuali. Certo, non va visto come il campione di un nuovo pensiero; semmai come il goffo e spesso inquietante interprete di tendenze contraddittorie. Ma si tratta di tendenze di fondo che rappresentano un sostrato solido per la sua candidatura e che ne determinano anche potenti leve di voto. Se aggiungiamo a quest’insieme di fattori la combinazione fra la pressione mediatica e la danarosa campagna democratica, che provoca un’impressione di perpetua denigrazione nei confronti del candidato repubblicano, osserviamo un Trump bashingche potrebbe avere effetti perversi nelle urne e provocare le adesioni di molti che non si vogliono lasciare imporre una verità da parte dei media e dell’establishment. Il risultato delle elezioni di novembre è, quindi, tutt’altro che scontato. Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e direttore del Programma di ricerca su sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis). |
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