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Lo scorso anno si è chiuso con la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite “Situazione dei diritti dell’uomo nella Repubblica Autonoma di Crimea e nella città di Sebastopoli”, con cui 70 Paesi hanno condannato per la prima volta la Federazione Russa come potenza occupante in Crimea e ribadito l’integrità territoriale dell’Ucraina, già espressa nella risoluzione 68/262 del 27 marzo 2014, votata dopo il referendum di annessione alla Russia della Crimea.
Poche settimane fa, anche in conformità a tale risoluzione, l’Ombudsperson ucraina si è recata in Crimea per visitare i cittadini ucraini ancora rinchiusi negli istituti penitenziari, e trasferirli sul territorio controllato da Kiev. Mosca, però, ha opposto il veto al trasferimento degli indagati per delitti politici. E a soffrire di queste accuse sono soprattutto i tatari, che risentono maggiormente dell’occupazione russa nella penisola. Human Rights Watch ha recentemente documentato l’arresto di due avvocati che rappresentavano alcuni dei più importanti leader della comunità tatara, Ciygoz e Umerov, vicepresidenti della disciolta assemblea tatara in Crimea, il Mejlis. La Crimea: pedina di scambio A infiammare il dibattito, con l’inizio del nuovo anno, ci ha pensato Viktor Pinchuk: magnate ucraino, genero dell’ex presidente Leonid Kuchma e con molti interessi economici in Russia. Pinchuk, con un articolo sul Washington Post, ha dichiarato che compromessi dolorosi saranno inevitabili per il popolo ucraino, al fine di adattarsi alla nuova realtà e per pacificare il martoriato Donbass (regioni di Donetsk e Luhansk), dove si combatte da quasi tre anni. Secondo l’uomo d’affari, l’Ucraina dovrebbe rinunciare temporaneamente all’obiettivo dell’ingresso nell’Ue, accettare di non divenire membro della Nato nei prossimi decenni, acconsentire alle elezioni locali nel Donbass, e infine, non lasciare che la Crimea si metta “in mezzo” a un accordo che ponga fine al conflitto nell’Est. Sulla stessa linea anche la parlamentare ucraina, ex pilota militare e ostaggio russo, Nadia Savchenko, che ha proposto di accettare momentaneamente la presa di Mosca sulla Crimea, per riprendere il controllo delle regioni orientali, se Kiev non vuole subire la “Transnistrizzazione” dell’area. L’amministrazione presidenziale ucraina ha ribattuto di essersi posta delle chiare “linee rosse che non saranno oltrepassate, mai!”. Il presidente Poroshenko ha dettato la linea: rinunciare all’integrazione euro-atlantica significherebbe il suicidio politico, soprattutto dopo la rivoluzione della Dignità. Al contrario, Poroshenko ha annunciato di aver programmato un referendum nazionale di adesione alla Nato per il prossimo futuro. Anche Marine Le Pen, candidata del Front National alle prossimi elezioni presidenziali francesi, è la prima figura politica di rilievo a dichiarare senza mezzi termini che la questione della Crimea è chiusa. In un’intervista alla CNN, ha infatti chiarito la sua posizione: “La Crimea, storicamente, è sempre stata russa”, e che bisogna abolire le sanzioni contro la Russia il prima possibile, perché danneggiano i Paesi europei; affibbiando alle proteste di piazza in Ucraina, a inizio 2014, e alla conseguente elezione di Poroshenko il carattere di un vero coup d’état. Incognita Trump: status quo o Yalta 2.0? Nell’Est del Paese, intanto, la situazione si è rapidamente deteriorata intorno alle città di Avdiivka e Yasinuvata, dove è situato uno dei più grandi impianti per la produzione del carbon-coke d’Europa. Il 31 gennaio, la missione di monitoraggio del cessate il fuoco dell’Osce ha registrato oltre diecimila esplosioni nella sola regione di Donetsk; e nel giro di una settimana oltre 50 tra feriti e morti tra le file ucraine e dei separatisti. Vari analisti hanno rilevato come l’intensità del conflitto sia cresciuta il giorno dopo la prima telefonata tra i presidenti Trump e Putin (28 gennaio), mentre la tensione s’è poi allentata all’indomani del contatto telefonico tra il presidente americano e quello ucraino (4 febbraio). Coincidenze? Forse. Intanto, queste telefonate di cortesia nei confronti del nuovo presidente Usa contenevano dei punti roventi in agenda, come quello del mantenimento delle sanzioni contro la Russia, e il sostegno militare americano all’Ucraina. Trump, in campagna elettorale, aveva più volte espresso il desiderio di sopprimere le sanzioni economiche contro la Russia se ci fosse stata piena collaborazione su altri dossier. Sembra però stia cambiando il vento in Pennsylvania Avenue, poiché in un fugace incontro con la leader dell’opposizione ucraina Tymoshenko a Washington, Trump pare l’abbia rassicurata che le sanzioni non saranno per il momento abolite. Un’ulteriore conferma arriva dal portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, secondo cui il presidente Usa si aspetta la restituzione della Crimea da parte di Mosca, seguita da una veloce reazione del Cremlino che ricorda, se ce ne fosse ancora bisogno, come la Russia non negozi porzioni del suo territorio. I più importanti collaboratori presidenziali sui temi di politica estera hanno assunto linee più nette: il segretario di Stato Tillerson ha dichiarato, durante la sua audizione di conferma, che fino a quando non si deciderà una strategia nuova nei confronti della Russia, bisognerà mantenere lo status quo delle sanzioni. La rappresentante Usa alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha dichiarato che gli Usa continueranno a chiedere la fine immediata dell’occupazione della Crimea, e che le sanzioni rimarranno in piedi. Politici e giornalisti si divertono a trovare nuove definizioni all’alba di questo nuovo capitolo delle relazioni russo-americane. Se il vice primo ministro ucraino per l’integrazione euro-atlantica Ivanna Klympush-Tsintsadze parla di “Unione Sovietica 2.0”, l’Economist già prevede un tentativo di ‘grand bargain’ (grande accordo) che possa includere una serie di temi quali: il controllo degli armamenti, la lotta al terrorismo internazionale, le relazioni con la Cina, l’abbandono delle sanzioni economiche da parte americana e il riconoscimento della Crimea. Sembra sfumare l’idea, paventata qualche mese fa, di rivedere sulla scena diplomatica il novantenne Henry Kissinger, del quale si vociferava il consenso a disegnare le fondamenta di un nuovo accordo globale, una cosiddetta Yalta 2.0, dove la Crimea era abbandonata da Kiev in cambio del consenso delle truppe russe a lasciare il Donbass. Meglio vale ascoltare gli ammonimenti di Daniel Baer, ex rappresentante Usa presso l’Osce a Vienna, all’Amministrazione Trump: “Facendo accordi con Putin, che minano i principi del diritto internazionale, come ad esempio eliminando prematuramente le sanzioni o modificando la posizione Usa sulla Crimea, la Casa Bianca si piegherà a un sistema basato sugli accordi piuttosto che sulle regole”. Una volta intrapresa questa strada, ricordiamocelo, sarà difficile tornare indietro. Cono Giardullo lavora in Ucraina con l’Osce (Twitter: @conogiardullo). |
martedì 21 febbraio 2017
USA: L'inizio nevrotico della 45ma presidenza
lunedì 20 febbraio 2017
Turbolenze latino.americane
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“Sono tempi difficili”. Così il presidente dell'Ecuador, Rafael Correa (il cui mandato è in scadenza a metà febbraio), è andato dritto al punto parlando del momento problematico che vivono le sinistre in America Latina. Una frase pronunciata non a caso durante il funerale di Fidel Castro, fra gli avvenimenti che più hanno colpito la sinistra latinoamericana nel 2016.
Nello stesso discorso, il presidente ecuadoriano ha ricordato anche le "battute d'arresto elettorali" di diversi Paesi della regione, dove le sinistre - che hanno sempre prevalso negli ultimi dieci anni - hanno dovuto cedere il passo a governi più conservatori. Le elezioni che hanno avuto luogo nell’ultimo anno e mezzo hanno portato al potere l’imprenditore Mauricio Macri in Argentina, l'ex banchiere Pedro Pablo Kuczynski in Perù, mentre in Brasile è entrato in carica il politico di lungo corso Michel Temer, vice di Dilma Rousseff, a cui è subentrato dopo l’impeachment della “presidenta”. Contando anche i referendum in cui la sinistra è stata sconfitta - come quello su un terzo mandato per il presidente boliviano Evo Morales, o quello sull’accordo con le Farc in Colombia - e la scomparsa, negli ultimi anni, di leader carismatici (non solo Fidel, ma anche Hugo Chávez e Néstor Kirchner), è evidente che i progressisti e i rivoluzionari dell’America Latina devono far fronte a un momento complicato. E il 2017 potrebbe essere l’anno che definirà fino a che punto la regione sterzerà a destra. Nei prossimi mesi si terranno infatti le elezioni presidenziali in Ecuador, Cile e Honduras, le legislative in Argentina e le regionali per il rinnovo dei governatori in Messico. Il 19 febbraio il voto in Ecuador sarà caratterizzato dall'assenza della candidatura socialista di Correa, che - alla guida del Paese da un decennio - non può ripresentarsi per raggiunti limiti di mandato. In Cile, dove si voterà a metà novembre, l’ex presidente Sebastián Piñera, di destra, è in testa ai sondaggi. L’imprenditore è diversi punti davanti un altro ex, Ricardo Lagos, rappresentante della stessa coalizione di centrosinistra del capo dello Stato in carica Michelle Bachelet (non rieleggibile). Alle urne in autunno anche l’Honduras, dove il favorito è il presidente uscente Juan Orlando Hernández, conservatore che punta ad un nuovo mandato. La sua candidatura è stata validata lo scorso dicembre dal Tribunale elettorale supremo, nonostante l'opposizione la consideri illegale, sottolineando come nel 2009 l'ex presidente Manuel Zelaya, che aveva tentato il bis, venne deposto in un colpo di Stato fra i cori di disapprovazione delle sinistre del continente. Effetto pendolo Il fatto che così tanti politici conservatori latinoamericani appaiano come favoriti non è una coincidenza. Secondo la società di sondaggi Latinobarometro, nel 2016 è aumentato il numero dei cittadini sudamericani che si collocano a destra dello spettro politico dei rispettivi Paesi. E si tratta del quarto anno consecutivo in cui questa tendenza viene registrata dai sondaggisti. Il 28% dei cittadini della regione, infatti, si dichiara di destra: nove punti in più rispetto al 19% del 2011. Sempre secondo il sondaggio, solo il 20% dei latinoamericani si considera di sinistra, mentre il 36% si identifica con un più generico “centro”. Ovviamente, si tratta di un fenomeno che ha diverse spiegazioni: anzitutto, la fine del boom dei prezzi delle materie prime, che ha causato molti problemi economici durante la gestione di diversi governi di sinistra, i quali sono così finiti per essere identificati come i responsabili del peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Ma ci sono anche le fasce più umili della popolazione che chiedono un pugno duro contro criminalità e narcotrafficanti, e le religioni evangeliche che avanzano ed esortano i fedeli a difendere posizioni tradizionaliste su questioni come l'aborto o il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i nomi di primo piano del campo progressista latinoamericano degli ultimi anni, come l'ex presidente brasiliano Lula o l'ex leader argentina Cristina Kirchner, si trovano a dover fronteggiare pesanti accuse di corruzione nelle aule dei tribunali. Comunque vadano i processi, le loro immagini sono definitivamente compromesse. In aggiunta vi è la grave crisi economica e politica in atto in Venezuela, che ha portato alla richiesta di un referendum revocatorio del mandato dell'erede politico di Chávez, Nicolás Maduro, e ha contribuito all’aggravarsi della crisi a Cuba. Dei Trump latinos all’orizzonte? Non ci sono solo le contingenze che hanno favorito l’avanzata delle destre nella regione, ma è anche in atto la ricerca di qualcosa che vada oltre la semplice ideologia. I cittadini reclamano soluzioni pratiche che superino il mero assistenzialismo statale; il che potrebbe aumentare l’alternanza al potere, permettendo anche la vittoria di candidati alternativi o populisti. Tanti potenziali “Trump latinos”, fino ad ora quasi emarginati nei rispettivi Paesi, potrebbero emergere con forza. In questo modo, l’affermarsi delle correnti più conservatrici nel 2017 confermerebbe la virata a destra della regione, segnando una tendenza chiara già prima delle presidenziali del 2018 in Brasile, Messico, Colombia, Venezuela e Paraguay. Conservatori sociali Tuttavia, se il prossimo anno i governi pro-mercato di Buenos Aires, Brasilia o Lima non saranno riusciti a cogliere risultati concreti dalle loro politiche economiche, la tensione sociale potrebbe tornare ad aumentare, lasciando prefigurare un nuovo cambio di direzione delle tendenze politiche sudamericane. In sostanza, il 2017 sarà probabilmente ricordato come l’inizio della ventata conservatrice in America Latina. Ma se i partiti di destra non riusciranno a far tornare i loro Paesi sulla strada della crescita e a risolvere o quantomeno attenuare i problemi sociali che ancora li affliggono, il pendolo politico tornerà a sinistra molto rapidamente. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. | ||||||||
venerdì 10 febbraio 2017
USA. In campagna elettorale si può dire tutto.
USA. Rivisitazione della politica di disgelo con l'Avana
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Se la politica estera di Donald Trump emerge lentamente dalle nebbie dell’ambiguità e dell’imprevedibilità, il rapporto che si instaurerà tra gli Usa del nuovo presidente e Cuba pare già abbastanza chiaro.
Durante la campagna elettorale Trump aveva promesso di rivedere la politica di disgelo con L’Avana iniziata da Barack Obama, di tagliare i legami economici stabiliti negli ultimi anni e di chiudere nuovamente l’ambasciata americana, riaperta lo scorso luglio dopo 54 anni di rottura delle relazioni diplomatiche. Una posizione che riflette i desiderata del milione e mezzo di esuli cubani negli Stati Uniti, i quali lo hanno appoggiato in massa durante le elezioni presidenziali e che premono per un ritorno alla linea dura verso il regime castrista, considerata l’unica forma per ottenere cambiamenti tangibili in un sistema che si mantiene al potere con il pugno di ferro da 58 anni. I rapporti con Cuba sono rimasti in secondo piano durante la campagna elettorale (scavalcati da Messico, Cina, Russia e naturalmente dall’email-gate di Hillary Clinton), ma la morte di Fidel Castro ha rimesso al centro la questione e ha dato modo a Trump di esprimersi direttamente sulla situazione nell’isola caraibica attraverso il suo mezzo preferito: Twitter. A novembre, il futuro inquilino della Casa Bianca, ormai famoso per i suoi 140 caratteri tanto diretti quanto ruvidi, ha plaudito alla morte di Fidel, bollandolo come “dittatore brutale”, accusandolo di aver provocato “tragedie, morti e dolore” a Cuba e affermando di sperare che la sua scomparsa segni la fine degli “orrori” commessi dal regime negli ultimi decenni. Amministrazione ambigua Se la retorica trumpiana si mostra durissima verso Cuba, le azioni dell’amministrazione repubblicana si annunciano però molto meno univoche. Un’ambiguità che si riflette nelle nomine già realizzate dal presidente. Per fare solo due esempi, se da un lato Mauricio Claver-Carone, noto critico della politica di Obama a Cuba, è stato nominato importante membro della squadra di transizione, dall’altro Trump ha scelto come vice-consigliere per la sicurezza nazionale la veterana Kathleen Troia McFarland, che in passato ha difeso la normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’isola. Da parte sua, Reince Priebus, capo di gabinetto del presidente, ha già messo in chiaro che le condizioni per il mantenimento del processo di avvicinamento sono, tra le altre cose, l’apertura economica, la liberazione di prigionieri politici, la fine della repressione e la libertà di espressione. Richieste tutt’altro che accettabili per un regime che orgogliosamente predica devozione al socialismo reale e al marxismo scientifico, e che, come ha già dichiarato Raúl Castro durante la visita ufficiale di Obama lo scorso marzo, “non ha prigionieri politici nelle sue carceri”. Il futuro delle relazioni con l’isola A questo punto, è possibile considerare due possibili scenari nei futuri rapporti tra Washington e L’Avana. Se la nuova amministrazione statunitense dovesse scegliere la linea dura, gli esponenti più ortodossi del regime e più ostili a qualsiasi normalizzazione delle relazioni potrebbero guadagnare potere, sentendosi legittimati ad accusare los gringos di tradimento degli accordi stipulati e chiamando a raccolta i cubani ad una nuova unione rivoluzionaria contro l’imperialismo yankee. Propaganda a parte, ciò si tradurrebbe in concreto nell'ennesima chiusura dell’isola, con un aumento della repressione verso la dissidenza e la messa all’angolo delle forze riformiste. È lo scenario “Cuba nuova Corea del Nord tropicale”. Dall’altro lato, se Trump dovesse optare per una linea più pragmatica, l’intensificarsi delle relazioni commerciali e un’eventuale uscita di scena di Raúl Castro (ormai ottantacinquenne) potrebbero portare all’emersione di una classe dirigente più disposta all’apertura. Ciò, ovviamente, non eliminerebbe il rischio di eventuali colpi di coda da parte di irriducibili del castrismo più intransigente, soprattutto tra i membri delle forze armate, né assicurerebbe un cambiamento politico reale. Basti pensare che il figlio di Raúl, Alejandro, già si muove da delfino e fa affari con gruppi di investitori americani in prospettiva di un’apertura economica ma del contemporaneo mantenimento del controllo politico. L’élite castrista non è affatto disposta a perdere la posizione di privilegio economico di cui gode, ed è quindi molto probabile che tenti di trasformare Cuba in un regime su modello cinese o vietnamita, con spazi per l’economia di mercato accompagnati da un rigido controllo politico. È lo scenario “Cuba nuovo Vietnam tropicale”. D’altronde, nessun regime comunista ha mai avuto la capacità di autoriformarsi politicamente e arrivare alla democrazia in maniera graduale. Le dittature marxiste o implodono come il blocco comunista dell’Europa dell’Est, o rimangono prigioniere dei loro stessi governanti, seguendo una linea più o meno contraddittoria rispetto all’ortodossia socialista, come appunto Cina o Vietnam. Un disgelo obbligato Tuttavia, per Cuba portare avanti il processo di disgelo è una necessità. Non ci sono più le condizioni economiche per la sopravvivenza dell’isola, vista la carenza di aiuti dai Paesi amici. L’assistenza sovietica non arriva più dal 1991. Il Venezuela è ormai al collasso e non riesce più a fornire petrolio a prezzo di favore. E il Brasile, che aveva finanziato il mega-porto di Mariel e “importato” medici cubani a peso d’oro (pagandone lo stipendio direttamente al governo cubano), ha cambiato nettamente orientamento politico dopo 13 anni di governi del partito di Lula. L’apertura è quindi un percorso obbligato per mancanza di alternative. Infine, non bisogna dimenticare che le redini della politica estera statunitense sono comunque tenute dal Senato americano, a maggioranza repubblicana. Il quale, non a caso, non ha mai avallato la politica di avvicinamento di Obama, né approvato l’invio di un rappresentante diplomatico statunitense a Cuba, portando alla situazione alquanto paradossale di aprire un’ambasciata senza avere un ambasciatore. In sostanza, i futuri rapporti tra Washington e L’Avana saranno sì influenzati dalle scelte dell'amministrazione Trump, ma non potranno evitare di fare i conti con la realtà di un’isola economicamente allo stremo da un lato, e con un’eventuale ostilità dell’establishment statunitense a qualsiasi concessione al regime castrista dall’altro. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. |
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