venerdì 27 marzo 2015
Messico: L'ingresso di Petrobal
di Alessio Pecce
Uno dei maggiori effetti della
riforma energetica varata in Messico è stata la nascita della prima compagnia
petrolifera privata. Tutto ha inizio alcuni decenni fa, grazie al colosso
energetico Pemex, il quale ha ormai aperto i contatti con gli stranieri,
soprattutto per merito dell'imprenditore messicano Alberto Baillares: egli è
considerato il secondo uomo più ricco del paese ed è a capo del gruppo Bal, minerario
siderurgico, oltre ad essere proprietario della miniera d'argento più grande
del mondo, situata nello stato di Zecatecas, in Messico. L'arrivo di Petrobal
coincide con un taglio di 4,17 miliardi di dollari, annunciato da Pemex, per
effetto della riduzione dei prezzi del petrolio. Una delle compagnie
internazionali più attive in Messico è L'ENI, il quale ha firmato, lo scorso
ottobre, un accordo di cooperazione per svolgere attività di esplorazioni di
gas naturale con la stessa Pemex, oltre ad altre attività petrolchimiche
Alessio Pecce
(alessio-p89@libero.it)
Stati Uniti: forse una svolta nei rapporti con l'Iran
venerdì 20 marzo 2015
USA: il confronto fra poteri dell'Unione
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La lettera aperta inviata da 47 (su 54) senatori repubblicani al regime di Teheran con l’intento di far fallire i negoziati condotti dagli Stati Uniti insieme a cinque potenze (Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania), va letta come un complesso atto di lotta politica interna contro la presidenza Obama.
Obama, leader debole? L’inasprimento degli attacchi repubblicani al presidente, che negli ultimi mesi si sono allargati anche alla politica estera, solitamente condotta con metro bipartisan, punta all’indebolimento dell’Amministrazione democratica utilizzando sia la leva politica che quella costituzionale. Bersaglio della critica repubblicana sono innanzitutto gli ondeggiamenti della politica estera mediorientale, dopo il fallito tentativo della mano tesa all’islam proclamato da Obama all’università del Cairo, del giugno 2009. Le vicende di Egitto, Libia e Siria si sono aggiunte al ritiro delle truppe dall’Iraq e Afghanistan, considerato un esplicito ribaltamento della politica interventista di George W. Bush. Oggi i Repubblicani ritengono che il negoziato con l’Iran sul nucleare, premessa di un’implicita intesa per la lotta contro il terrorismo islamista, sia un’ulteriore rinuncia dell’America a svolgere il ruolo egemone internazionale e ad usare la maniera forte che le dovrebbe essere propria. Obiettivo: impastoiare il presidente Oltre alle tradizionali divergenze tra Democratici e Repubblicani sull’uso della forza militare, v’è tuttavia un altro, e più importante, significato dell’attacco ad Obama condotto con l’invito a Netanyahu e con la lettera aperta all’Iran: si tratta del modo di interpretare i poteri presidenziali in politica interna ed estera. È questo il cuore dello scontro in atto, aggravatosi dopo le elezioni di mezzo termine che hanno dato ai Repubblicani la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. La storia insegna che in un sistema bilanciato fondato sui pesi, contrappesi e sulla possibilità di veti reciproci tra Presidenza e Congresso, ogni importante conflitto politico tende a divenire un conflitto costituzionale. E così è in questo momento. Si deve tenere presente che i più controversi atti recenti di Obama sono stati tutti messi in pratica facendo un uso intenso dei poteri presidenziali, espliciti e impliciti, senza l’approvazione del Congresso e per mezzo di ordini esecutivi, delibere amministrative, ed estensione di precedenti decisioni. Così la legalizzazione degli immigrati, l’apertura a Cuba, e la pubblicazione dell’inchiesta su Guantanamo. La presidenza sostiene oggi che anche il negoziato con l’Iran, che dovrebbe tradursi in un trattato internazionale, può essere condotta al di fuori dell’autorizzazione congressuale, mentre i Repubblicani negano questa possibilità, definendo il negoziato un “ordine esecutivo” facilmente ribaltabile. Dietro questa disputa formale sui poteri costituzionali si cela, dunque, la sostanza del conflitto di politica estera su quel che il presidente può o non può fare, il che significa su quel che Obama nei prossimi venti mesi riuscirà a fare senza dovere negoziare con i Repubblicani. Nel regno del dubbio brilla solo la forza Indipendentemente dal giudizio che in futuro sarà dato sulla politica americana di questa presidenza, certo è che dopo le drammatiche vicende del presidente Bush, Obama si è trovato ad affrontare una lunga serie di situazioni impreviste in contesti del tutto mutati rispetto alle antiche alleanze e divisioni. Chi affronta le discontinuità internazionali finisce sempre per pagare un prezzo di incertezza, soprattutto se sceglie di non tagliare con la spada i nodi che si presentano. Ed è quello che Obama sta pagando nel tentativo di mettere in atto nuove linee strategiche tra cui il negoziato con l’Iran che, certo, ribalta la politica estera seguita dai Repubblicani negli ultimi trent’anni. Massimo Teodori è storico e americanista (m.teodori@mclink.it). |
venerdì 13 marzo 2015
Stati Uniti: la visita di Netanhyau non è una gran bella cosa
La variante Iran tra Usa e Israele Giuseppe Cucchi 06/03/2015 |
A thorn in the ass! (una spina nel sedere!) è una espressione idiomatica americana che viene utilizzata per definire un fastidio forte e prolungato e, negli ultimi giorni, Bibi Netanhyau, il Primo Ministro israeliano, ha svolto perfettamente tale ruolo nei confronti del Presidente Obama e dell’Amministrazione democratica!
Un rapporto con numerosi alti e bassi
Non che il rapporto fra i due paesi sia sempre stato idilliaco. Come tutti i rapporti molto intensi esso ha infatti avuto i suoi alti ed i suoi bassi.
Da parte israeliana lo hanno sempre condizionato i complessi del partner più piccolo che deve di tanto in tanto sottolineare la propria autonomia dal partner più grande con una presa di posizione particolarmente dura.
Da parte americana esso è stato influenzato dalla progressiva scoperta che da un certo punto in poi non erano tanto gli Stati Uniti che guidavano la politica israeliana ma bensì gli israeliani che potevano condizionare quella americana, attraverso l'azione di una lobby il cui peso era cresciuto a dismisura.
Almeno sino ad oggi però non pare che ciò abbia influito sul supporto che gli Usa hanno ininterrottamente continuato a fornire ad Israele. Nonostante i malumori o gli scatti d'ira di vari Presidenti Americani - memorabile il "Ma chi è qui la grande potenza?" di un Clinton incollerito che abbandona la riunione bilaterale in corso alla Casa Bianca - gli israeliani rimangono sempre per gli Usa i figli della mano destra, qualsiasi sia il colore della Amministrazione in carica.
Da un po' di tempo però questa situazione di compromesso sembra essere entrata in un pericoloso periodo di crisi, innescato dalla diversa valutazione di quello che è, o potrebbe essere, il ruolo iraniano nell'area islamica medio orientale e del Golfo Persico.
Visione globale e visione regionale
Per gli Stati Uniti, per cui fa premio la visione globale della superpotenza, l'Iran è un avversario che si sta rapidamente trasformando in un partner potenziale, già oggi indispensabile, tra l'altro, per contenere prima, eliminare poi, la dilagante minaccia dell'Isis che in questo momento appare, agli occhi di Washington, come il pericolo più immediato.
In questa ottica gli Usa sembrano anche disposti ad una conclusione delle trattative sul nucleare di Teheran che, pur non concedendo agli iraniani il possesso della bomba, permetta loro perlomeno di arrestarsi ad un passo dalla realizzazione.
Israele per contro resta focalizzato su di una ottica regionale e continua a valutare il programma nucleare di Teheran come un problema di pura sopravvivenza, in cui nessuna concessione può assolutamente essere fatta ad un avversario la cui politica - almeno quella declamatoria - rimane minacciosa nei suoi riguardi e che continua a finanziare ed a rifornire sia Hezbollah che Hamas, vale a dire i suoi nemici più pericolosi e bellicosi.
Così Tel Aviv non ha mai del tutto abbandonato l'idea di uno strike preventivo sulle installazioni nucleari iraniane, pur sapendo che una azione del genere finirebbe per coinvolgere inevitabilmente anche gli Stati Uniti, sia perché Israele non possiede da solo la forza e gli armamenti necessari per portare a termine efficacemente l'azione, sia perché l'immediata e violenta reazione finirebbe comunque con l'essere rivolta indiscriminatamente verso tutto l'Occidente, ed in primo luogo verso il Grande Fratello d'oltre oceano.
Per gli Usa il contrasto ha finito in tal modo con il tradursi in una specie di corsa contro il tempo, in cui il Governo e la diplomazia americana si stanno impegnando per raggiungere un accordo con Teheran sia in un quadro bilaterale, di cui sono espressione le attuali trattative del Segretario di Stato Kerry con gli iraniani, sia nell'ambito multilaterale del gruppo dei 5+1, che mira a chiudere il contenzioso entro il prossimo mese di giugno.
La firma di uno strumento diplomatico sancirebbe infatti la definitiva riammissione dell'Iran nel cosiddetto "concerto delle potenze civili" , rendendo molto più difficile, se non impossibile, qualsiasi ipotesi di reazione armata israeliana.
Gli israeliani per contro, e in particolare la fazione che fa capo a Netanyahu (poiché diverse sembrano le opinioni di un’altra parte dello spettro politico israeliano) pur sapendo di non poter riuscire ad interrompere la trattativa mirano tuttavia a renderla più difficile, a ritardarla quanto possibile, ad ottenere che gli americani induriscano al massimo le loro posizioni evitando qualsiasi compromesso che possa domani aprire uno spiraglio al rischio.
Una grande sceneggiata mediatica
È per questo che il premier israeliano si è precipitato a Washington con una scelta di tempo perfetta, sia che la si rapporti agli incontri attualmente in corso sia che la si valuti in termini di scadenze elettorali israeliane.
Netanyahu ha altresì mirato a conferire all'invito rivoltogli dal Congresso tutto il rilievo politico e mediatico possibile. Lo ha fatto, oltretutto, da persona che conosce perfettamente la realtà e la società americana ed è quindi in grado di utilizzarne al meglio pregi e difetti.
Bibi ha infatti trascorso parecchi anni negli Stati Uniti, prima come studente al MIT e ad Harvard, poi lavorando - e guarda caso uno dei suoi compagni di lavoro era Mitt Romney che è stato in passato candidato repubblicano alla Presidenza - ed infine come Ministro Consigliere della Ambasciata israeliana a Washington.
La sua visita è stata quindi articolata su due atti. Prima una riunione con la più influente delle associazioni che sostengono Israele. Poi un discorso alle camere a maggioranza repubblicana cui non è parso vero sentire criticare con decisione quella politica iraniana del Presidente che essa ritiene troppo debole.
Il tutto poi inquadrato in un clima di tensione con Obama - costantemente smentito ma sempre accuratamente mantenuto a livello - mirato a permettergli di guadagnare immediatamente l'attenzione dei mass media di tutto il mondo che per alcuni giorni hanno funzionato da universale cassa di amplificazione delle sue tesi.
Tutto bene, dunque ? Per Bibi, per la lobby israeliana negli Usa e per i Repubblicani certamente. Per Obama, lo ripetiamo, Netanyahu è stato, e resta, 'a thorn in the ass'.
Per gli Stati Uniti... Qui l'interrogativo rimane aperto, considerato come il futuro del grande paese continui ad essere pesantemente condizionato dai suoi disastrosi rapporti con il mondo islamico. Che avrà magari tutte le sue colpe ma che per molti aspetti è anche vittima, oltre che protagonista, del caos attuale.
Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2984#sthash.zYP2WkIc.dpufUn rapporto con numerosi alti e bassi
Non che il rapporto fra i due paesi sia sempre stato idilliaco. Come tutti i rapporti molto intensi esso ha infatti avuto i suoi alti ed i suoi bassi.
Da parte israeliana lo hanno sempre condizionato i complessi del partner più piccolo che deve di tanto in tanto sottolineare la propria autonomia dal partner più grande con una presa di posizione particolarmente dura.
Da parte americana esso è stato influenzato dalla progressiva scoperta che da un certo punto in poi non erano tanto gli Stati Uniti che guidavano la politica israeliana ma bensì gli israeliani che potevano condizionare quella americana, attraverso l'azione di una lobby il cui peso era cresciuto a dismisura.
Almeno sino ad oggi però non pare che ciò abbia influito sul supporto che gli Usa hanno ininterrottamente continuato a fornire ad Israele. Nonostante i malumori o gli scatti d'ira di vari Presidenti Americani - memorabile il "Ma chi è qui la grande potenza?" di un Clinton incollerito che abbandona la riunione bilaterale in corso alla Casa Bianca - gli israeliani rimangono sempre per gli Usa i figli della mano destra, qualsiasi sia il colore della Amministrazione in carica.
Da un po' di tempo però questa situazione di compromesso sembra essere entrata in un pericoloso periodo di crisi, innescato dalla diversa valutazione di quello che è, o potrebbe essere, il ruolo iraniano nell'area islamica medio orientale e del Golfo Persico.
Visione globale e visione regionale
Per gli Stati Uniti, per cui fa premio la visione globale della superpotenza, l'Iran è un avversario che si sta rapidamente trasformando in un partner potenziale, già oggi indispensabile, tra l'altro, per contenere prima, eliminare poi, la dilagante minaccia dell'Isis che in questo momento appare, agli occhi di Washington, come il pericolo più immediato.
In questa ottica gli Usa sembrano anche disposti ad una conclusione delle trattative sul nucleare di Teheran che, pur non concedendo agli iraniani il possesso della bomba, permetta loro perlomeno di arrestarsi ad un passo dalla realizzazione.
Israele per contro resta focalizzato su di una ottica regionale e continua a valutare il programma nucleare di Teheran come un problema di pura sopravvivenza, in cui nessuna concessione può assolutamente essere fatta ad un avversario la cui politica - almeno quella declamatoria - rimane minacciosa nei suoi riguardi e che continua a finanziare ed a rifornire sia Hezbollah che Hamas, vale a dire i suoi nemici più pericolosi e bellicosi.
Così Tel Aviv non ha mai del tutto abbandonato l'idea di uno strike preventivo sulle installazioni nucleari iraniane, pur sapendo che una azione del genere finirebbe per coinvolgere inevitabilmente anche gli Stati Uniti, sia perché Israele non possiede da solo la forza e gli armamenti necessari per portare a termine efficacemente l'azione, sia perché l'immediata e violenta reazione finirebbe comunque con l'essere rivolta indiscriminatamente verso tutto l'Occidente, ed in primo luogo verso il Grande Fratello d'oltre oceano.
Per gli Usa il contrasto ha finito in tal modo con il tradursi in una specie di corsa contro il tempo, in cui il Governo e la diplomazia americana si stanno impegnando per raggiungere un accordo con Teheran sia in un quadro bilaterale, di cui sono espressione le attuali trattative del Segretario di Stato Kerry con gli iraniani, sia nell'ambito multilaterale del gruppo dei 5+1, che mira a chiudere il contenzioso entro il prossimo mese di giugno.
La firma di uno strumento diplomatico sancirebbe infatti la definitiva riammissione dell'Iran nel cosiddetto "concerto delle potenze civili" , rendendo molto più difficile, se non impossibile, qualsiasi ipotesi di reazione armata israeliana.
Gli israeliani per contro, e in particolare la fazione che fa capo a Netanyahu (poiché diverse sembrano le opinioni di un’altra parte dello spettro politico israeliano) pur sapendo di non poter riuscire ad interrompere la trattativa mirano tuttavia a renderla più difficile, a ritardarla quanto possibile, ad ottenere che gli americani induriscano al massimo le loro posizioni evitando qualsiasi compromesso che possa domani aprire uno spiraglio al rischio.
Una grande sceneggiata mediatica
È per questo che il premier israeliano si è precipitato a Washington con una scelta di tempo perfetta, sia che la si rapporti agli incontri attualmente in corso sia che la si valuti in termini di scadenze elettorali israeliane.
Netanyahu ha altresì mirato a conferire all'invito rivoltogli dal Congresso tutto il rilievo politico e mediatico possibile. Lo ha fatto, oltretutto, da persona che conosce perfettamente la realtà e la società americana ed è quindi in grado di utilizzarne al meglio pregi e difetti.
Bibi ha infatti trascorso parecchi anni negli Stati Uniti, prima come studente al MIT e ad Harvard, poi lavorando - e guarda caso uno dei suoi compagni di lavoro era Mitt Romney che è stato in passato candidato repubblicano alla Presidenza - ed infine come Ministro Consigliere della Ambasciata israeliana a Washington.
La sua visita è stata quindi articolata su due atti. Prima una riunione con la più influente delle associazioni che sostengono Israele. Poi un discorso alle camere a maggioranza repubblicana cui non è parso vero sentire criticare con decisione quella politica iraniana del Presidente che essa ritiene troppo debole.
Il tutto poi inquadrato in un clima di tensione con Obama - costantemente smentito ma sempre accuratamente mantenuto a livello - mirato a permettergli di guadagnare immediatamente l'attenzione dei mass media di tutto il mondo che per alcuni giorni hanno funzionato da universale cassa di amplificazione delle sue tesi.
Tutto bene, dunque ? Per Bibi, per la lobby israeliana negli Usa e per i Repubblicani certamente. Per Obama, lo ripetiamo, Netanyahu è stato, e resta, 'a thorn in the ass'.
Per gli Stati Uniti... Qui l'interrogativo rimane aperto, considerato come il futuro del grande paese continui ad essere pesantemente condizionato dai suoi disastrosi rapporti con il mondo islamico. Che avrà magari tutte le sue colpe ma che per molti aspetti è anche vittima, oltre che protagonista, del caos attuale.
Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
lunedì 2 marzo 2015
L'ARRIVO DI NETFLIX A CUBA
di Alessio Pecce
All'annuncio del 17 dicembre 2014, momento in
cui sono ripresi gli accordi bilaterali tra Washington e l'Avana, fa seguito
un'altra notizia considerevole che risale al 9 febbraio 2015, giorno in cui
approda a Cuba Netflix, azienda statunitense, grazie alla quale il popolo
cubano che ha accesso alla rete a banda larga e alle carte di credito
internazionali, sarà in grado di vedere i video in streaming. Da sempre i
contenuti trasmessi nelle radio, tv e giornali sono controllate dal governo, ma
nel corso del tempo la programmazione si è allargata e soprattutto
diversificata, offrendo ai cubani la possibilità di avere a disposizione una
vasta offerta nazionale e internazionale, contenente film, programmi sportivi
oltre ai canali d'informazione. Uno dei punti deboli è la scarsa produzione
nazionale, per ciò che concerne i telefilm: le difficoltà economiche di Cuba,
riducono e limitano a tal proposito, le capacità creative e tecniche dei
soggetti deputati alla produzione televisiva, con il risultato di copioni poco
coinvolgenti. Per questo motivo il popolo cubano è insoddisfatto e cerca delle
alternative, ma l'arrivo di Netflix, contenente all'interno del suo pacchetto due
miliardi di ore di serie tv e film, potrebbe accontentare di gran lunga i
cubani, e fare concorrenza ai canali pubblici e alternativi. I telespettatori
che si abboneranno a Netflix, addebiteranno il costo di tale servizio ai loro
parenti residenti all'estero. Viste le attuali condizioni informatiche, in cui
scaricare un' email o vedere un video su YouTube rappresenta una dura impresa,
la maggior parte dei cubani che sarà grado di connettersi ad internet e
usufruire di Netflix avrà la strada spianata e una visione globale nell'accesso
ai video in streaming. L'altra faccia della medaglia è rappresentato dal fatto
che attualmente, solo pochi cubani potranno usufruire di tale servizio a causa
della connessione internet molto lenta. Basti pensare che fino al 2008, ogni
1000 abitanti soltanto tra 100 e 250
avevano la possibilità di accedere ad internet, mentre il numero di persone
abbonate a un servizio di trasmissione digitale dati a banda larga erano meno
di 1 ogni 1000 abitanti.
Alessio Pecce (alessio-p89@libero.it)
USA: turbolenze nei rapporti con Israele
Relazioni Usa-Israele L’errore di hubris di Netanyahu Riccardo Alcaro 01/03/2015 |
Uno dei segreti di Pulcinella della politica internazionale riguarda le relazioni personali tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
I due, per dirla senza tanti giri di parole, si detestano. Per anni hanno però mantenuto le loro differenze nell’ambito del legittimo disaccordo tra governi amici.
Questo è cambiato quando Netanyahu ha accettato l’invito di John Boehner, il presidente della Camera dei rappresentanti Usa, a parlare di fronte al Congresso riunito.
L’amministrazione Obama ha smesso di recitare il rituale ritornello secondo cui le divergenze tra Casa Bianca e governo israeliano riguardavano solo questioni secondarie. Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale Usa e fedelissima di Obama, non ha usato mezzi termini: il discorso di Netanyahu al Congresso potrebbe avere un effetto ‘devastante’ sulle relazioni tra Stati Uniti e Israele.
Nucleare, il pomo della discordia tra Obama e Netanyahu
Dietro al livore dell’amministrazione Obama ci sono diverse ragioni. La prima è che il discorso di Netanyahu costituisce una rottura senza precedenti del protocollo diplomatico. L’invito al premier israeliano è stato infatti orchestrato da Boehner e dall’ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer, senza nemmeno informare la Casa Bianca.
In secondo luogo, l’amministrazione Obama ha rimarcato l’inopportunità di dare a un capo di governo straniero il palcoscenico del Congresso degli Stati Uniti nel mezzo di una campagna elettorale - gli israeliani infatti voteranno un nuovo parlamento il 17 marzo.
Questo è anche il motivo ufficiale con cui Obama ha motivato la sua scelta di non incontrare Netanyahu durante la sua permanenza a Washington.
Il vero pomo della discordia è che Netanyahu userà l’occasione per condannare senza mezzi termini il tentativo di Obama di raggiungere un accordo con l’Iran sulla questione nucleare, ovvero l’iniziativa di politica estera di maggiore profilo del presidente statunitense.
L’accordo, dirà Netanyahu, non s’ha da fare. Secondo il premier israeliano, Obama si illude se crede di potersi fidare del regime clericale iraniano.
Non c’è alcun dubbio che Netanyahu veda più di un parallelismo tra sé e l’unico altro capo di governo a cui è stato concesso l’alto privilegio di rivolgersi direttamente al Congresso Usa, Winston Churchill, per ben tre volte.
Così come Churchill fu il più aspro critico dell’appeasement nei confronti di Hitler, Netanyahu si vede come l’ultimo argine prima di un nuovo ‘accordo di Monaco’ che lasci mani libere a un regime ostile agli ebrei (nonostante l’Iran si definisca antisionista, ma non antisemita; in realtà in Iran vive una piccola comunità ebraica che ha anche diritto ad una rappresentanza parlamentare).
Alleati di Netanyahu a Washington
Netanyahu può contare su alleati potenti a Washington. Il primo e più importante è il partito repubblicano che controlla entrambi i rami del Congresso. Boehner, che presiede la Camera dei rappresentanti dal 2010, ha apertamente ammesso che l’invito a Netanyahu sia un modo per mettere in imbarazzo Obama.
Israele gode anche di ampio sostegno nei media statunitensi e di diffusa simpatia popolare. Mobilitare l’opinione pubblica contro l’accordo è l’obiettivo di Netanyahu e dei repubblicani.
Netanyahu non ha però solo amici. Agli occhi dei critici, il premier israeliano ha commesso un imperdonabile errore di hubris le cui ricadute sulle relazioni tra Israele e Stati Uniti potrebbero essere nefaste.
Nel merito, Netanyahu sta condannando un accordo i cui contorni non sono stati ancora definiti. Come ha ricordato il segretario di stato Usa, John Kerry, Netanyahu aveva criticato anche l’accordo ad interim raggiunto con l’Iran a fine 2013 come un ‘errore storico’.
Eppure, l’opinione generale oggi è che quell’accordo abbia congelato i progressi in campo nucleare dell’Iran e di conseguenza servito gli interessi di sicurezza di Israele. Netanyahu, ha sostenuto Kerry, si era sbagliato allora e potrebbe avere torto anche oggi.
La forma dell’intera operazione ha però destato sconcerto. Negli Stati Uniti non mancano i critici della politica verso l’Iran di Obama. Per molti osservatori, qualunque sia la loro posizione sul negoziato con l’Iran, ricorrere a un capo di governo straniero per fare pressione sul presidente degli Stati Uniti equivale a subordinare il prestigio presidenziale (e quindi nazionale) a un interesse di parte.
Democratici in imbarazzo
Accettando l’invito di Boehner, Netanyahu ha consapevolmente messo in imbarazzo i democratici, costretti a schierarsi a favore di un presidente del loro stesso partito o di Israele.
Come se non bastasse, Netanyahu ha anche declinato l’invito da parte della leadership democratica del Congresso a un incontro a porte chiuse. Di conseguenza, almeno trentasette democratici hanno deciso di seguire l’esempio del vice-presidente Joe Biden e boicottare l’evento.
Così facendo, Netanyahu ha non solo imbarazzato i democratici. Ha anche ridotto le chance che questi si accodino ai repubblicani e votino subito, senza cioè aspettare l’esito del negoziato, nuove sanzioni contro l’Iran in numero sufficiente da rendere invalido il veto presidenziale.
L’ironia della vicenda, quindi, è che l’effetto del discorso di Netanyahu sul negoziato iraniano sarà nullo o addirittura controproducente.
Più difficile prevederne l’impatto sulle relazioni tra Usa e Israele. I due paesi sono legati da decenni di amicizia e le cose cambieranno drasticamente. Da martedì prossimo in poi Israele farebbe però meglio a non dare più per scontato l’ampio e quasi acritico sostegno bipartisan di cui ha sempre goduto a Washington.
Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello IAI e non-resident Fellow presso il CUSE della Brookings Institution di Washington.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2978#sthash.e0m6pP5y.dpuf
I due, per dirla senza tanti giri di parole, si detestano. Per anni hanno però mantenuto le loro differenze nell’ambito del legittimo disaccordo tra governi amici.
Questo è cambiato quando Netanyahu ha accettato l’invito di John Boehner, il presidente della Camera dei rappresentanti Usa, a parlare di fronte al Congresso riunito.
L’amministrazione Obama ha smesso di recitare il rituale ritornello secondo cui le divergenze tra Casa Bianca e governo israeliano riguardavano solo questioni secondarie. Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale Usa e fedelissima di Obama, non ha usato mezzi termini: il discorso di Netanyahu al Congresso potrebbe avere un effetto ‘devastante’ sulle relazioni tra Stati Uniti e Israele.
Nucleare, il pomo della discordia tra Obama e Netanyahu
Dietro al livore dell’amministrazione Obama ci sono diverse ragioni. La prima è che il discorso di Netanyahu costituisce una rottura senza precedenti del protocollo diplomatico. L’invito al premier israeliano è stato infatti orchestrato da Boehner e dall’ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer, senza nemmeno informare la Casa Bianca.
In secondo luogo, l’amministrazione Obama ha rimarcato l’inopportunità di dare a un capo di governo straniero il palcoscenico del Congresso degli Stati Uniti nel mezzo di una campagna elettorale - gli israeliani infatti voteranno un nuovo parlamento il 17 marzo.
Questo è anche il motivo ufficiale con cui Obama ha motivato la sua scelta di non incontrare Netanyahu durante la sua permanenza a Washington.
Il vero pomo della discordia è che Netanyahu userà l’occasione per condannare senza mezzi termini il tentativo di Obama di raggiungere un accordo con l’Iran sulla questione nucleare, ovvero l’iniziativa di politica estera di maggiore profilo del presidente statunitense.
L’accordo, dirà Netanyahu, non s’ha da fare. Secondo il premier israeliano, Obama si illude se crede di potersi fidare del regime clericale iraniano.
Non c’è alcun dubbio che Netanyahu veda più di un parallelismo tra sé e l’unico altro capo di governo a cui è stato concesso l’alto privilegio di rivolgersi direttamente al Congresso Usa, Winston Churchill, per ben tre volte.
Così come Churchill fu il più aspro critico dell’appeasement nei confronti di Hitler, Netanyahu si vede come l’ultimo argine prima di un nuovo ‘accordo di Monaco’ che lasci mani libere a un regime ostile agli ebrei (nonostante l’Iran si definisca antisionista, ma non antisemita; in realtà in Iran vive una piccola comunità ebraica che ha anche diritto ad una rappresentanza parlamentare).
Alleati di Netanyahu a Washington
Netanyahu può contare su alleati potenti a Washington. Il primo e più importante è il partito repubblicano che controlla entrambi i rami del Congresso. Boehner, che presiede la Camera dei rappresentanti dal 2010, ha apertamente ammesso che l’invito a Netanyahu sia un modo per mettere in imbarazzo Obama.
Israele gode anche di ampio sostegno nei media statunitensi e di diffusa simpatia popolare. Mobilitare l’opinione pubblica contro l’accordo è l’obiettivo di Netanyahu e dei repubblicani.
Netanyahu non ha però solo amici. Agli occhi dei critici, il premier israeliano ha commesso un imperdonabile errore di hubris le cui ricadute sulle relazioni tra Israele e Stati Uniti potrebbero essere nefaste.
Nel merito, Netanyahu sta condannando un accordo i cui contorni non sono stati ancora definiti. Come ha ricordato il segretario di stato Usa, John Kerry, Netanyahu aveva criticato anche l’accordo ad interim raggiunto con l’Iran a fine 2013 come un ‘errore storico’.
Eppure, l’opinione generale oggi è che quell’accordo abbia congelato i progressi in campo nucleare dell’Iran e di conseguenza servito gli interessi di sicurezza di Israele. Netanyahu, ha sostenuto Kerry, si era sbagliato allora e potrebbe avere torto anche oggi.
La forma dell’intera operazione ha però destato sconcerto. Negli Stati Uniti non mancano i critici della politica verso l’Iran di Obama. Per molti osservatori, qualunque sia la loro posizione sul negoziato con l’Iran, ricorrere a un capo di governo straniero per fare pressione sul presidente degli Stati Uniti equivale a subordinare il prestigio presidenziale (e quindi nazionale) a un interesse di parte.
Democratici in imbarazzo
Accettando l’invito di Boehner, Netanyahu ha consapevolmente messo in imbarazzo i democratici, costretti a schierarsi a favore di un presidente del loro stesso partito o di Israele.
Come se non bastasse, Netanyahu ha anche declinato l’invito da parte della leadership democratica del Congresso a un incontro a porte chiuse. Di conseguenza, almeno trentasette democratici hanno deciso di seguire l’esempio del vice-presidente Joe Biden e boicottare l’evento.
Così facendo, Netanyahu ha non solo imbarazzato i democratici. Ha anche ridotto le chance che questi si accodino ai repubblicani e votino subito, senza cioè aspettare l’esito del negoziato, nuove sanzioni contro l’Iran in numero sufficiente da rendere invalido il veto presidenziale.
L’ironia della vicenda, quindi, è che l’effetto del discorso di Netanyahu sul negoziato iraniano sarà nullo o addirittura controproducente.
Più difficile prevederne l’impatto sulle relazioni tra Usa e Israele. I due paesi sono legati da decenni di amicizia e le cose cambieranno drasticamente. Da martedì prossimo in poi Israele farebbe però meglio a non dare più per scontato l’ampio e quasi acritico sostegno bipartisan di cui ha sempre goduto a Washington.
Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello IAI e non-resident Fellow presso il CUSE della Brookings Institution di Washington.
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