Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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sabato 31 dicembre 2016

Tump nuovo presidente


L’America di Trump
Corte Suprema, Donald schiera i falchi
Gabriele Rosana
15/12/2016
 più piccolopiù grande
L’hashtag #Scotus (Supreme Court of the US) è tornato di moda, dopo qualche mese di sonnolenza. Non poteva essere altrimenti, con il Twitter-in-Chief (così lo chiama Alec Baldwin nell’imitazione senza sconti che fa per il Saturday Night Live) Donald Trump sempre più vicino al trasloco dalla sua Tower di eccessi alla Casa Bianca.

Fresco della copertina di Time (stavolta ce l’ha fatta), il magnate che si appresta a diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti è, sin dall’indomani della vittoria, al lavoro per formare la squadra, con ritmi, modalità e fughe di notizie che lasciano la sensazione di assistere a un altro suo reality show, come quando gridava compiaciuto “You’refired!” ai concorrenti di “The Apprentice”.

Solo che, stavolta, il paradigma è ribaltato e alcuni fortunati si sentono invece dire “You’rehired!”. Fra questi, tanti militari di carriera, finanzieri, e ricchi donatori del partito repubblicano.

Il nuovo Scalia
Presto i riflettori si sposteranno dall’amministrazione a una nomina di ben altro spessore e sapore, forse la più importante, per calibro e caratura, che un presidente può mettere a segno. Il tycoon è infatti chiamato a indicare un nuovo giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti per il seggio lasciato vacante dall’ultraconservatore italoamericano Antonin Scalia, morto improvvisamente lo scorso febbraio, ricomponendo così il plenum dell’organo di nove Justices.

Si tratta di una mossa dall’alto significato politico e simbolico, perché i giudici rimangono in carica a vita (a meno di dimissioni volontarie). Nominarne anche solo uno vuol dire mettere in qualche modo in sicurezza la propria visione per gli anni a venire. Nell’ordinamento giuridico americano il ruolo della Corte è infatti centrale; il paese ha spesso compiuto svolte storiche proprio grazie a pronunce fondanti (un caso emblematico è la Roe v. Wade sull’interruzione di gravidanza).

Trump, che ha la fortuna di poterlo fare già al primo vagito del proprio mandato, assicura che consoliderà il dominio della destra nel plenum, scegliendo un giudice che, collocandosi nel solco “originalista” di Scalia, sia interprete fedele del testo costituzionale e nemico di ogni sorta di lettura estensiva del dato letterale.

Una bella sterzata dopo appena due anni di importanti conquiste per il fronte liberal della Corte, che nel 2015 - con appena un voto di margine - ha riconosciuto la costituzionalità del matrimonio omosessuale, estendendolo a tutto il territorio federale. E dire che la sinistra democratica era arrivata ad un passo dalla possibilità di ipotecare la Corte - negli ultimi quarant’anni un fortino tendenzialmente conservatore -, con la sostituzione di Scalia e un paio di dimissioni ben orchestrate sotto una presidenza Hillary.

Garland out
Durante la campagna elettorale, Trump, per una volta spalleggiato dal partito già durante le primarie, ha capeggiato il boicottaggio esercitato dalla maggioranza repubblicana al Senato, che ha rifiutato di prendere in esame Merrick Garland, il giudice proposto da Barack Obama lo scorso marzo, in modo che la nomina fosse riservata al quarantacinquesimo presidente (“e al popolo americano”, in occasione dell’Election Day).

Nessuna audizione è stata concessa a Garland - una candidatura di ampio compromesso -, e così di fatto non si è mai avviata la procedura necessaria perché il Senato esprimesse l’advice and consent necessario alla nomina.

Circolano voci di un’amministrazione Obama pronta a forzare la mano, ricorrendo prima del gong ai privilegi governativi per far passare la nomina - considerando il blocco del Senato come una tacita rinuncia all’esercizio del potere - o calendarizzando il voto su Garland nella ristretta finestra dei rinnovi dei seggi a inizio gennaio così da approfittare di alcune assenze.

È però improbabile che ciò accada dato lo spirito di leale cooperazione che anima i rapporti fra un esecutivo uscente e uno entrante, e il fatto che il primo sia in carica essenzialmente per l’ordinaria amministrazione e per garantire un’efficace transizione di potere. Così, per la prima volta nella storia della Corte, un giudice in pectore viene fatto fuori senza neppure passare dall’audizione parlamentare.

Goodbye, Ivy League
Con un’età media decisamente alta soprattutto fra le punte di diamante del fronte liberal, questa potrebbe essere solo la prima nomina ad appannaggio di Trump. L’83enne Ruth Baden Ginsburg, la matrona dei democratici (che con Trump ha ingaggiato più d’uno scontro nei mesi passati), dovrà tenere duro per almeno ancora quattro anni. La tempra non le manca.

Il presidente-eletto, intanto, è tornato sul nome che proporrà al Senato, ribadendo che lo pescherà dalla lista di 21 nomi resa nota sul suo sito in campagna elettorale (10 a maggio e 11 a settembre): un discreto equilibrio fra rassicurazioni e provocazioni all’establishment conservatore.

Come ha messo in luce il New York Times, il denominatore comune all’elenco è l’assenza di nomi provenienti dalle Law Schools della Ivy League (il circuito delle otto più prestigiose università statunitensi che tradizionalmente sforna i Supreme Justices).

Trump non vuole un giudice né debole né moderato ma possibilmente sulla cinquantina, che possa assicurarsi un lungo mandato di fronte a sé. Fra i favoriti, due giudici federali. Da una parte, l’antiabortista William Pryor, ben visto dalla base religiosa (da Attorney General dell’Alabama propose la cacciata del presidente della Corte Suprema dello Stato che aveva ordinato la rimozione dei Dieci Comandamenti dal palazzo di giustizia). Dall’altra, la forse più moderata Diane Sykes, su posizioni gradite alla lobby delle armi. L’elefante repubblicano è tornato nella cristalleria dei diritti civili.

Gabriele Rosana, giornalista pubblicista e assistente alla comunicazione dello IAI, è LLM Candidate in diritto dell’Ue al Collegio d’Europa di Bruges. (Twitter: @GabRosana).


Buon 2017!


venerdì 23 dicembre 2016

USA: un dilemma da chiarire

Usa e Israele
Trump, l’antisemitismo e gli ebrei americani
Giorgio Gomel
04/01/2017
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“… Per secoli gli ebrei sono vissuti come minoranza nelle terre di altri popoli … Come ebrei statunitensi siamo fieri di avere concorso al tragitto che la nostra nazione ha compiuto per adempiere alla promessa che gli esseri umani sono creati eguali - una promessa che rinnova il postulato biblico che gli esseri umani sono creature eguali ad immagine di Dio … Condanniamo fermamente i molti episodi di antisemitismo che hanno circondato la sua campagna elettorale. Siamo inoltre sgomenti per le parole e gli atti che hanno offeso cittadini statunitensi in ragione del genere, razza, religione, etnia, disabilità o orientamento sessuale.
Espressioni di xenofobia, islamofobia, misoginia intorno alla sua campagna minacciano di compromettere i valori fondanti della nostra nazione … Riteniamo che l’immigrazione e l’integrazione degli immigrati siano state un fattore essenziale nel dare forza e prosperità al Paese. Proprio perché molte delle nostre famiglie giunsero nel Paese fuggendo dalle persecuzioni - e molti morirono per la chiusura dei confini - lottiamo per difendere l’identità dell’America come luogo di rifugio … Noi, come una maggioranza schiacciante di ebrei statunitensi, appoggiamo una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese … Ci aspettiamo che lo stato di Israele rispetti i principi della democrazia, come affermati nella Dichiarazione di indipendenza, e che gli Stati Uniti svolgano un ruolo attivo nella difesa di quei principi … La sua decisione di nominare Stephen Bannon come chiefstrategist è contraria a quei principi e deve essere annullata in nome del popolo americano …
”(1)

Così recita la lettera inviata a Donald Trump pochi giorni dopo la sua elezione da organizzazioni ebraiche della “sinistra”; fra queste, Jstreet, New Israel Fund, Peace Now, Hashomer Hatzair, T’ruah - un movimento rabbinico attivo nella difesa dei diritti umani. Altre organizzazioni più “mainstream” come l’Aipac - America Israel Public Action Committee - e l’American Jewish Commitee sono rimaste silenti almeno nell’agone pubblico.

La Anti-defamation League, un’antica associazione dedita alla battaglia contro il pregiudizio etnico e religioso, pur non essendo fra i firmatari, ha assunto una posizione fortemente critica contro i rigurgiti antisemiti manifestatisi nella campagna elettorale e la nomina di Stephen Bannon, direttore della campagna di Trump e di Breitbart, un sito di notizie accusato di razzismo, xenofobia e antisemitismo.

Le divisioni dell’elettorato ebraico Usa
Il rapporto irenico fra gli ebrei statunitensi e il loro Paese rischia di rompersi. Trump è agli antipodi rispetto alle opinioni prevalenti fra gli ebrei statunitensi, dove i “liberals” sono maggioritari, su questioni come l’immigrazione, il pluralismo religioso, la giustizia sociale, la separazione fra stato e chiesa.

Questi temi, secondo un sondaggio svolto appena dopo il voto, contano, insieme all’economia, alla sanità, al terrorismo, assai di più nell’orientare le scelte che non i rapporti fra Stati Uniti e Israele per il 70% di elettori ebrei che hanno votato per Hillary Clinton (2).

Del 24% di elettori ebrei che hanno votato per Trump - un numero percentualmente analogo votò per George Bush (Bush nel 2004 e John McCain nel 2008, il 30% scelse Mitt Romney contro Barack Obama nel 2012 - alcuni sono conservatori “classici”; altri gravitano, nelle interpretazioni prevalenti, soprattutto nel mondo ortodosso.

Secondo il sondaggio sopra citato, infatti, avrebbe votato per Trump solo il 21% degli ebrei aderenti al movimento “riformato”, contro il 25% dei “conservative” e il 39% degli ortodossi. L’antisemitismo non è per questi ultimi così importante quanto la difesa di Israele e l’ostilità verso arabi e mussulmani.

È possibile quindi accettare le lusinghe tentatrici di una destra che ha sì pregiudizi e istinti antisemiti, ma che è saldamente filo-israeliana. Va in questa direzione la nomina appena annunciata come ambasciatore in Israele di David Friedman, un avvocato ebreo di Long Island, noto per le sue posizioni conservatrici e plaudenti alla destra israeliana, contrario alla soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese, sostenitore dell’annessione a Israele di parte rilevante della Cisgiordania e lui stesso finanziatore di una scuola religiosa ebraica nell’insediamento di Beit El.

La nuova destra ebraica
Secondo Peter Beinart, autore di un saggio fondamentale sui mutamenti in seno all’ebraismo americano e nei suoi rapporti con Israele (The crisis of Zionism, Times books, 2012) e altri osservatori, alla radice dello spostamento dell’opinione ebraica verso posizioni più etnocentriche, più precisamente “israelo-centriche” vi sono due fattori: il crescere del peso demografico della comunità ortodossa e dell’influenza politico-finanziaria di grandi donatori come Sheldon Adelson, di simpatie repubblicane, poco sensibili ai temi del razzismo o della diseguaglianza sociale e da cui dipendono molti organismi e movimenti ebraici per le loro attività comunitarie.

In sintesi, l’unico o quasi tema mobilitante è per costoro il sostegno acritico al governo di Israele, e il futuro degli ebrei nel Paese va assicurato perseguendo gli interessi particolari della comunità invece di lottare contro le iniquità e le discriminazioni religiose, etniche e sociali di cui soffrono le altre minoranze nella società americana.

(1) Il testo integrale della lettera è disponibile su www.ameinu.net.
(2) GBA strategies, 2016 post-election Jewish surveys summary findings, 9/11/2016
.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese.

mercoledì 21 dicembre 2016

Trump: si parla solo di eccessi

L’America di Trump
Corte Suprema, Donald schiera i falchi
Gabriele Rosana
15/12/2016
 più piccolopiù grande
L’hashtag #Scotus (Supreme Court of the US) è tornato di moda, dopo qualche mese di sonnolenza. Non poteva essere altrimenti, con il Twitter-in-Chief (così lo chiama Alec Baldwin nell’imitazione senza sconti che fa per il Saturday Night Live) Donald Trump sempre più vicino al trasloco dalla sua Tower di eccessi alla Casa Bianca.

Fresco della copertina di Time (stavolta ce l’ha fatta), il magnate che si appresta a diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti è, sin dall’indomani della vittoria, al lavoro per formare la squadra, con ritmi, modalità e fughe di notizie che lasciano la sensazione di assistere a un altro suo reality show, come quando gridava compiaciuto “You’refired!” ai concorrenti di “The Apprentice”.

Solo che, stavolta, il paradigma è ribaltato e alcuni fortunati si sentono invece dire “You’rehired!”. Fra questi, tanti militari di carriera, finanzieri, e ricchi donatori del partito repubblicano.

Il nuovo Scalia
Presto i riflettori si sposteranno dall’amministrazione a una nomina di ben altro spessore e sapore, forse la più importante, per calibro e caratura, che un presidente può mettere a segno. Il tycoon è infatti chiamato a indicare un nuovo giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti per il seggio lasciato vacante dall’ultraconservatore italoamericano Antonin Scalia, morto improvvisamente lo scorso febbraio, ricomponendo così il plenum dell’organo di nove Justices.

Si tratta di una mossa dall’alto significato politico e simbolico, perché i giudici rimangono in carica a vita (a meno di dimissioni volontarie). Nominarne anche solo uno vuol dire mettere in qualche modo in sicurezza la propria visione per gli anni a venire. Nell’ordinamento giuridico americano il ruolo della Corte è infatti centrale; il paese ha spesso compiuto svolte storiche proprio grazie a pronunce fondanti (un caso emblematico è la Roe v. Wade sull’interruzione di gravidanza).

Trump, che ha la fortuna di poterlo fare già al primo vagito del proprio mandato, assicura che consoliderà il dominio della destra nel plenum, scegliendo un giudice che, collocandosi nel solco “originalista” di Scalia, sia interprete fedele del testo costituzionale e nemico di ogni sorta di lettura estensiva del dato letterale.

Una bella sterzata dopo appena due anni di importanti conquiste per il fronte liberal della Corte, che nel 2015 - con appena un voto di margine - ha riconosciuto la costituzionalità del matrimonio omosessuale, estendendolo a tutto il territorio federale. E dire che la sinistra democratica era arrivata ad un passo dalla possibilità di ipotecare la Corte - negli ultimi quarant’anni un fortino tendenzialmente conservatore -, con la sostituzione di Scalia e un paio di dimissioni ben orchestrate sotto una presidenza Hillary.

Garland out
Durante la campagna elettorale, Trump, per una volta spalleggiato dal partito già durante le primarie, ha capeggiato il boicottaggio esercitato dalla maggioranza repubblicana al Senato, che ha rifiutato di prendere in esame Merrick Garland, il giudice proposto da Barack Obama lo scorso marzo, in modo che la nomina fosse riservata al quarantacinquesimo presidente (“e al popolo americano”, in occasione dell’Election Day).

Nessuna audizione è stata concessa a Garland - una candidatura di ampio compromesso -, e così di fatto non si è mai avviata la procedura necessaria perché il Senato esprimesse l’advice and consent necessario alla nomina.

Circolano voci di un’amministrazione Obama pronta a forzare la mano, ricorrendo prima del gong ai privilegi governativi per far passare la nomina - considerando il blocco del Senato come una tacita rinuncia all’esercizio del potere - o calendarizzando il voto su Garland nella ristretta finestra dei rinnovi dei seggi a inizio gennaio così da approfittare di alcune assenze.

È però improbabile che ciò accada dato lo spirito di leale cooperazione che anima i rapporti fra un esecutivo uscente e uno entrante, e il fatto che il primo sia in carica essenzialmente per l’ordinaria amministrazione e per garantire un’efficace transizione di potere. Così, per la prima volta nella storia della Corte, un giudice in pectore viene fatto fuori senza neppure passare dall’audizione parlamentare.

Goodbye, Ivy League
Con un’età media decisamente alta soprattutto fra le punte di diamante del fronte liberal, questa potrebbe essere solo la prima nomina ad appannaggio di Trump. L’83enne Ruth Baden Ginsburg, la matrona dei democratici (che con Trump ha ingaggiato più d’uno scontro nei mesi passati), dovrà tenere duro per almeno ancora quattro anni. La tempra non le manca.

Il presidente-eletto, intanto, è tornato sul nome che proporrà al Senato, ribadendo che lo pescherà dalla lista di 21 nomi resa nota sul suo sito in campagna elettorale (10 a maggio e 11 a settembre): un discreto equilibrio fra rassicurazioni e provocazioni all’establishment conservatore.

Come ha messo in luce il New York Times, il denominatore comune all’elenco è l’assenza di nomi provenienti dalle Law Schools della Ivy League (il circuito delle otto più prestigiose università statunitensi che tradizionalmente sforna i Supreme Justices).

Trump non vuole un giudice né debole né moderato ma possibilmente sulla cinquantina, che possa assicurarsi un lungo mandato di fronte a sé. Fra i favoriti, due giudici federali. Da una parte, l’antiabortista William Pryor, ben visto dalla base religiosa (da Attorney General dell’Alabama propose la cacciata del presidente della Corte Suprema dello Stato che aveva ordinato la rimozione dei Dieci Comandamenti dal palazzo di giustizia). Dall’altra, la forse più moderata Diane Sykes, su posizioni gradite alla lobby delle armi. L’elefante repubblicano è tornato nella cristalleria dei diritti civili.

Gabriele Rosana, giornalista pubblicista e assistente alla comunicazione dello IAI, è LLM Candidate in diritto dell’Ue al Collegio d’Europa di Bruges. (Twitter: @GabRosana).
 
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Trump: la versione economica

L’America di Trump
Trump, Re Mida dei Bitcoin?
Sabrina Palanza
10/12/2016
 più piccolopiù grande
La recente elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha comportato un immediato calo del valore del dollaro Usa, ma altresì un’impennata del bitcoin, la cripto moneta per eccellenza che viene ormai percepita come una “valuta di rifugio” nei momenti d’incertezza economica e politica (non è un caso che ha registrato una crescita nei giorni successivi alla Brexit, stabilizzando il suo valore intorno ai 600 dollari), quando il sistema finanziario inevitabilmente risente dei più diversi fattori esogeni, tra cui quelli di matrice politica.

Trump, il cyber-liberale
La comunità bitcoin, durante la recente campagna elettorale statunitense, ha avuto modo di schierarsi apertamente con Trump, sostenendolo con una donazione di 1,25 milioni di dollari nel mese di ottobre 2016 e identificandolo come il candidato più vicino al cyber-liberalismo, corrente ideologica nella quale la criptomoneta può essere inserita.

Del resto, lo stesso neo eletto presidente ha dichiarato in diverse interviste che, a suo parere, il governo dovrebbe classificare il Bitcoin (inteso, qui, nella sua tecnologia e rete) come una valuta legale. I legami, quindi, più o meno espliciti, tra Trump e la comunità bitcoin, sembrano conferire una certa coloritura tech al partito repubblicano e al nuovo presidente.

Bitcoin, la moneta Peer-to-peer: cosa sapere
Trump la considera una valuta legale, la Banca centrale europea nel 2012 ha reso nota una relazione dal titolo “Modelli di moneta virtuale”, cercando di classificare i diversi modelli e schemi di moneta virtuale, sempre più persone al mondo la utilizzano, ma nessuno ha mai visto un Bitcoin. Di che stiamo parlando?

Con il termine “Bitcoin” viene indicata la tecnologia delle valute elettroniche, nate nel 2009 e svincolate da qualsiasi organo centrale che ne controlla e ne regola l’immissione nel mercato.

Come ogni moneta, sono un mezzo di pagamento che viene scambiato esclusivamente utilizzando computer e server sparsi nella rete (da qui, la sua natura peer-to-peer), che vengono chiamati wallet. Questo scambio avviene in maniera anonima e crittata, ma tramite un sistema del tutto pubblico, la Blockchain, ossia una sorta di registro in cui vengono archiviate tutte le transazioni effettuate ogni dieci minuti nel mondo.

Questa insita contraddizione rende parzialmente vero il fattore “anonimato”, in quanto le attività di ogni Bitcoinadress, ossia il codice alfanumerico che identifica ogniwallet, possono essere consultate da chiunque, pur non risalendo al nome dell’utente.

Ad ogni modo, affinché si possa registrare ogni transazione sulla Blockchain, e quindi portarla a conclusione, questa viene precedentemente presa in carico da un miners, ossia un “minatore” che, svolgendo una serie complessa di calcoli e decrittazioni, traduce il codice alfanumerico della transazione in Bitcoins, guadagnando per questo servizio 25 Bitcoins, che vanno ad incrementare il numero totale dei Bitcoins presenti nella rete mondiale.

A tal proposito, è stato calcolato che potranno essere “minati” (coniati) solo 21 milioni di Bitcoins, prevedendo così una quantità massima e fissa di “moneta” nel sistema, raggiunta la quale i minatori di Bitcoins saranno probabilmente compensati soltanto da numerose piccole commissioni di transazione.

Moneta globale, valute tradizionali e controllo politico
Stando alla definizione di moneta fornitaci dall’economista Friedrich Hayek “La moneta è quella cosa che non diventa più economica a seguito della concorrenza con le altre valute, al contrario è quel bene il cui punto di forza risiede proprio in tale fattore”; i Bitcoin sembrano essere fedeli a tali principio in quanto non hanno eliminato le valute tradizionali, ma coesistono con loro e svolgono il ruolo di competitor.

Secondo l’economista, un sistema decentralizzato e denazionalizzato riuscirebbe a creare non solo una valuta migliore, ma un sistema più stabile, nel quale i governi non potranno più eccedere nella spesa per stimolare il mercato e l’occupazione, creando instabilità a danno dei cittadini.

Eppure, anche in ciò, vi è una contraddizione insita nel sistema: per “minare” bitcoins ci deve essere una certa “autorità” che ne regoli l’alimentazione, e l’assenza di un intermediario, come una Banca Centrale, genera alcune difficoltà, prima su tutte l’assenza di prestito di denaro.

Inoltre, il mancato controllo sul denaro da parte di un governo potrebbe comportare dei problemi al sistema politico. Ad oggi, per esempio, è possibile monitorare le transazioni finanziare, scoraggiando il riciclaggio di denaro. Con i Bitcoin, tutto ciò diventerebbe complicato, non riuscendo a rintracciare i movimenti di denaro benché, come è stato detto precedentemente, l’anonimato nelle transazioni sia solo parziale.

Secondo Juniper Research, il volume di tutti i Bitcoin andrà ad eccedere i 92 miliardi di dollari entro la fine del 2016, offrendo un salvacondotto per coloro che prevedono possibili disordini in materia economica, in particolare in relazione alle decisioni politiche ed economiche che il nuovo governo statunitense vorrà intraprendere.

Nonostante la giurisprudenza statunitense sia scissa tra il riconoscimento legale o meno della moneta virtuale, occorre ricordare che Trump in campagna elettorale ha dichiarato la sua intenzione di voler riconoscere come valuta legale il Bitcoin.

Da un lato, quindi, l’incertezza che aleggia sulle future politiche economiche sta spingendo sempre più cittadini d’oltreoceano ad investire in Bitcoin, dall’altro lo stesso neo eletto presidente sembra strizzare l’occhiolino al mondo della criptovaluta, con il fine ultimo, forse, di porla sotto il tanto auspicato da alcuni, controllo politico.

Rilevata, quindi, la portata innovativa della criptomoneta e della realizzazione di quanto teorizzato da Hayek, solamente dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca si potrà capire quale futuro si prospetta per la valuta digitale.

Sabrina Palanza, laureata in Relazioni Internazionali presso l'Università degli studi di Perugia, attualmente studia i fenomeni legati alla privacy e agli sviluppi tecnologici da un punto di vista giuridico.

Venezuala: come uscire dalla crisi

America Latina
Venezuela fuori dal Mercosur: l’agonia del chávismo
Carlo Cauti
04/12/2016
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Il referendum revocatorio del mandato del presidente Nicolás Maduro era uno degli ultimi, se non l’ultimo, percorso pacifico e legale che rimaneva per il cambiamento di cui il Venezuela ha disperatamente bisogno.

La sospensione da parte del Consiglio nazionale elettorale (Cne, controllato dal governo), della consultazione ha portato l’Assemblea nazionale - dove gli oppositori dell’esecutivo hanno la maggioranza - a parlare di un vero e proprio colpo di stato.

Ma ha anche provocato una ferma opposizione da parte dei governi di Paesi vicini, in particolare Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay, che - come annunciato - il 2 dicembre hanno sospeso all’unanimità il Venezuela dal Mercosur.

Caracas - nell’organizzazione latinoamericana da appena quattro anni - perde non solo il diritto di voto ma anche di partecipare ai vertici del Mercosur e ai negoziati commerciali con Paesi terzi o con altre organizzazioni internazionali.

Non sono state imposte sanzioni economiche al Venezuela, ma la sospensione è un segnale inequivocabile di come la situazione nel Paese stia precipitando, con il regime chávista sul viale del tramonto.

Caracas e il mercato unico sudamericano
Non sorprende che il Mercosur abbia finalmente deciso di indurire il gioco con il Venezuela, dopo aver dato a Caracas, lo scorso settembre, tre mesi di tempo per ripristinare il rispetto dei diritti umani e la libertà di stampa. A margine di un incontro a Buenos Aires con il suo omologo uruguaiano, il presidente argentino Mauricio Macri era stato incisivo: “Così come vanno le cose, il Venezuela non può far parte del Mercosur e deve essere condannato da tutti i Paesi del continente e del mondo”.

I membri del blocco economico sudamericano, sollecitati anche da alcune Ong venezuelane, hanno così discusso della violazione, da parte di Caracas, della “clausola democratica” prevista dal Protocollo di Ushuaia del 1998. Inoltre, il Venezuela non avrebbe adattato al suo ordinamento interno ben 238 norme facenti parte dell’acquis del Mercosur, tra cui la norma che garantiva la libera circolazione dei cittadini dei Paesi membri e il Protocollo di Asunción sul Compromesso con la Promozione e la Protezione dei Diritti Umani del 2005. L’accusa di violazione dei principi dell’organizzazione potrebbe andare ben oltre la sospensione in atto, aprendo le porte all’espulsione del Venezuela.

L’adesione del presidente uruguaiano Tabaré Vásquez alla decisione di sospendere Caracas è stata ancora più importante, dato che era l’unico capo di stato del Mercosur che ancora faceva resistenze, per ragioni di politica interna, ad inquadrare il Venezuela come un regime antidemocratico. Per quanto riguarda gli altri partner sudamericani, Brasile e Paraguay hanno guidato l’efficace opposizione alle pretese di Maduro di conquistare la presidenza rotativa dell’organizzazione.

Per la ministra degli Esteri venezuelana Delcy Rodriguez la sospensione - che Caracas si rifiuta di riconoscere - è una provocazione da parte di “burocrati che stanno distruggendo il Mercosur” che sono “compromessi con mandati imperiali”. La Rodriguez ha promesso che parteciperà ai prossimi vertici dell’organizzazione, pur non essendo invitata, ed eserciterà la presidenza “legittima”.

Nell’ultimo vertice del Mercosul, tenutosi a Montevideo, la Rodriguez aveva personalmente “invaso” la sala dove si teneva la riunione, reclamando la presidenza e portando i rappresentanti di Brasile e Paraguai ad abbandonare la stanza.

Al fianco del disastrato regime chávista restano appena i pochi e reticenti alleati bolivariani, come l’Ecuador e la Bolivia (associati al mercato unico sudamericano), oltre all’archeologico comunismo cubano.

Il “golpe del referendum”
Anche la decisione del Cne di sospendere il referendum revocatorio del mandato presidenziale era attesa. Tenere la consultazione popolare prima del prossimo 10 gennaio, come chiesto dalle opposizioni (le quali avevano adempiuto alle contorte esigenze legali ordite appositamente per ostacolare il voto), avrebbe senza dubbio portato alla fine anticipata del mandato di Maduro, così come indicato da tutti i sondaggi di opinione. Risultato al quale sarebbero seguite nuove elezioni, che avrebbero definitivamente tolto di mezzo il Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv), dopo 17 anni di disastrosa gestione del potere.

Se il referendum dovesse quindi aver luogo dopo il 10 gennaio e il presidente dovesse perdere - eventualità per nulla scontata - sarebbe sostituito dal suo vice, Aristóbulo Istúriz, o da un altro personaggio indicato dallo stesso Maduro. E così il regime bolivariano si manterrà solido al comando del Venezuela. Cambiare tutto per non cambiare niente.

Infine, non è escluso che il Cne possa semplicemente annullare il referendum. E a quel punto, fine dei giochi.

La denuncia di golpe da parte del Parlamento definisce i fatti con esattezza. L’opposizione ha già fatto i primi passi per aprire il processo di impeachment di Maduro. Un’operazione tutt’altro che semplice. Il presidente, nell’ansia di sopravvivere a qualsiasi costo, utilizzerà sicuramente tutte le risorse a sua disposizione, così come già fatto più volte in passato.

E se tutte le manovre dovessero fallire, l’erede di Chávez potrebbe fare appello alla sua ben addestrata militanza, che negli anni ha dato molte prove di ciò di cui è capace (da ultimo, la presa d’assalto del palazzo dell’Assemblea legislativa, il giorno dopo la denuncia del colpo di stato).

Il referendum era l’ultimo percorso pacifico e legale che restava per un cambiamento di cui il Paese ha disperato bisogno per non cadere definitivamente nell’oscurità di una dittatura pura e semplice. Era l’ultima occasione per superare la profonda crisi economica e sociale in cui il chávismo ha immerso il Venezuela.

A partire da questo momento, resta all’opposizione solo l’appello a manifestazioni popolari, alle quali ha già chiarito che non rinuncerà. La grande manifestazione del 26 ottobre e lo sciopero generale del 28, entrambi repressi con brutalità dalle milizie cháviste, ne sono una prova concreta. Il rischio di violenze tende solo ad aumentare.

La mediazione vaticana
Indipendentemente dal risultato della crisi attuale in Venezuela, nulla nel Paese sarà come prima. La mobilitazione popolare e la seguente repressione sottolineano ancora una volta il carattere autoritario del regime. Solo che questa volta non si torna indietro. Sarà impossibile convincere i venezuelani e la comunità internazionale delle “grandi virtù del processo bolivariano”: la maschera della rivoluzione chávista e di un governo solo teoricamente a servizio dei poveri è caduta.

Il tentativo di papa Francesco di promuovere un dialogo tra Maduro e le opposizioni - con la mediazione del presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, monsignor Claudio Maria Celli, e del nunzio apostolico in Argentina, monsignor Emil Paul Tscherrig - potrebbe essere l’ultima possibilità di uscita pacifica da una crisi che ha seminato solo miseria e odio in Venezuela. Ma il curriculum di Maduro, nel quale il golpe del referendum è solo l’episodio più recente, non consente di alimentare questa speranza.

Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile.

Trump: il volto verso il cortile di casa

America Latina
Trump e i vicini latinoamericani
Ilaria Masiero
03/12/2016
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Durante la campagna elettorale statunitense, Donald Trump ha incendiato il dibattito sul tema dei rapporti con i Paesi latino-americani, soprattutto il Messico, con commenti politicamente scorretti e promesse plateali in materia di immigrazione e accordi commerciali.

In molti ipotizzano (e auspicano) che, messa in saccoccia la vittoria, il presidente eletto adotti posizioni più moderate - ma sono disposti a scommetterci in pochi. Nell’attesa che Trump scopra le sue carte, il peso dell’incertezza si fa sentire e si prospettano nuovi, possibili scenari.

Immigrazione: Stati Uniti e America Latina sono più lontani
“Stupratori” e “criminali”. Con questi termini Trump si è riferito ai migranti latino-americani che attraversano il confine tra Messico e Stati Uniti, chiarendo sinteticamente la sua posizione in merito all’immigrazione illegale.

Fedele a questa linea, il candidato repubblicano ha promesso, da un lato, di dare vigore alla deportazione degli irregolari già in territorio Usa, dall’altro di prevenire nuovi ingressi attraverso il completamento e rafforzamento della barriera che già si estende per circa un terzo del confine tra Stati Uniti e Messico. A elezioni compiute, si cerca di distinguere l’arrosto dal il fumo ma, per il momento, i segnali sono ambigui.

Nella prima intervista dopo la vittoria, il neo-presidente ha annunciato che deporterà gli immigrati irregolari con precedenti criminali (come peraltro stava già facendo Obama). D’altra parte, Trump ha temporeggiato sul destino degli altri clandestini, affermando che deciderà solo dopo aver messo in sicurezza la frontiera. Per quel che riguarda il muro al confine, il presidente eletto non ha fatto dietro-front, ma ha ammesso che in alcuni tratti si accontenterebbe di semplici recinzioni.

Se questi annunci sembrano implicare una linea più moderata, a rimescolare le carte in tavola è arrivata la nomina a ministro della giustizia di Jeff Sessions, uno dei più estremi esponenti anti-immigrazione del Senato, su cui addirittura grava l’ombra del razzismo.

È presto fare previsioni sull’impatto delle future politiche anti-immigrazione del nuovo presidente, tuttavia si può dire che, all’indomani delle elezioni, ci sono dati che mostrano un aumento del flusso di migranti speranzosi di raggiungere gli Stati Uniti prima dell’insediamento di Trump.

Trump il Nafta e il Cafta-Dr
Durante la campagna elettorale, Trump ha duramente criticato il Nafta (North American Free Trade Agreement), l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico entrato in vigore nel 1994. Il candidato repubblicano ha sostenuto che il trattato avvantaggia il Messico a scapito degli Stati Uniti, e ha minacciato di rinegoziare o abrogare del tutto l’accordo e introdurre una tassa del 35% sulle importazioni messicane.

Se Trump deciderà di andare fino in fondo, le cose si metteranno male per il Messico, che attualmente vende circa l’80% delle sue esportazioni agli Stati Uniti. Alcuni economisti stimano che la tassa sulle importazioni potrebbe costare al paese circa il 5% del suo Pil.

È difficile da credere che il neo-presidente voglia davvero fare fuori il Nafta: il Messico è il secondo maggiore mercato per le esportazioni statunitensi e sei milioni di posti di lavoro dipendono da questa partnership. Inoltre, gli Stati Uniti non possono tirare troppo la corda col vicino del sud perché hanno bisogno della collaborazione messicana in materia di narco-traffico e immigrazione. D’altra parte, non sarebbe la prima volta che Trump contraddice tutte le previsioni.

Nell’attesa che il presidente eletto sveli i suoi piani, l’ombra del protezionismo statunitense ha già iniziato a danneggiare l’economia messicana. Il peso ha sofferto una sostanziale svalutazione rispetto al dollaro e gli investitori stanno mettendo in attesa i loro piani per capire se valga ancora la pena fare progetti in Messico.

Il Nafta non è l’unico accordo in bilico. Trump ha annunciato che ritirerà gli Stati Uniti dal Ttp (Trans-Pacific Partnership), il trattato commerciale non ancora ratificato dal Congresso, ma firmato da Obama e altri undici paesi dell’area pacifica, tra cui Messico, Perù e Cile.

Nell’incertezza, tremano anche i Paesi del centro-America, a loro volta firmatari di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti (il Cafta-DR, Dominican Republic-Central America Free Trade Agreement).

Più in generale, l’enfasi protezionista e anti-delocalizzazione del presidente è una cattiva notizia per tutti i paesi latino-americani: con la nuova amministrazione, gli scambi commerciali con il gigante del nord saranno meno fluidi - e meno redditizi.

Interessi cinesi in America Latina
Con gli Stati Uniti chiusi in sé stessi, in America Latina si libera posto per partnership commerciali alternative, e la Cina sembra pronta a cogliere al volo l’opportunità di farsi spazio in una storica area di influenza statunitense.

In una recente visita alla regione, il presidente Xi Jinping si è mosso in questa direzione, dando impulso a una serie di intese commerciali che intensificheranno il legame tra la Repubblica Popolare e vari paesi dell’America Latina.

Dalla partnership commerciale a quella strategica il passo è breve - soprattutto in una regione che vive una rinnovata fase di anti-americanismo aizzata dalla retorica di Trump -, e certi equilibri geopolitici dati per assodati potrebbero presto cambiare.

Ilaria Masiero è laureata in Discipline Economiche e Sociali e dottoranda in Economia presso la Fundação Getulio Vargas di San Paolo.

Trump: metamorfosi impossibili

L’America di Trump
Una squadra di generali, razzisti, miliardari
Giampiero Gramaglia
06/12/2016
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Dal giorno che Donald Trump ha conquistato la Casa Bianca, pur avendo ottenuto oltre due milioni di voti popolari in meno di Hillary Clinton, l’1,5% dei suffragi espressi, il tam-tam dei media batte lo stesso annuncio: “Il presidente sarà diverso dal candidato”.

Ora, a parte che non si capisce come un uomo di 70 anni possa cambiare la sua indole da un giorno all’altro, specie dopo essere stato premiato per i suoi atteggiamenti aggressivi, sessisti, grossolani, è un fatto che tutte le scelte finora fatte inducono a pensare esattamente l’opposto.

Prendiamo la composizione della squadra di governo, le cui caselle Trump riempie più celermente di tutti i suoi predecessori, almeno a partire da Ronald Reagan.

Il magnate e showman snocciola nomine, che vanno (quasi) tutte nello stesso senso: pare di stare in uno di quei film sul razzismo dell’aristocrazia del denaro del Profondo Sud, l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’, o il Mississippi di ‘The Help’. Ma Steve Bannon, il super-consigliere, megafono mediatico dei suprematisti bianchi, sarebbe a suo agio nel Texas de ‘La Caccia’.

Le scelte cadono su ex generali e miliardari in servizio permanente effettivo. Pochi invece i politici.

La ricerca del segretario di Stato: ridda di nomi
Trump è ancora alla ricerca di un segretario di Stato potabile, che gli dia credibilità internazionale e che accetti d’entrare nella sua Amministrazione. Nelle quotazioni della stampa, i favoriti sono tre: Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, mai in sintonia con la campagna del magnate; Rudolph Giuliani, sindaco di New York l’11 Settembre 2001, il leader repubblicano più vicino a Trump; e David Petraeus, generale in congedo ed ex direttore della Cia.

Nessuno dei tre ha un profilo ideale: Romney è l’anti-Trump per antonomasia fra i repubblicani; Giuliani è stato indebolito da rivelazioni dei media su rapporti d’affari con Paesi terzi, che configurano conflitti d’interesse; Petraeus uscì di scena nel 2012 per uno scandalo che ne offuscò l’immagine (e l’affidabilità).

Così, la rosa dei nomi s’allarga. Il New York Times rimette in pista l’ex ambasciatore degli Usa all’Onu, John R. Bolton, un diplomatico competente, ma rigido e scostante nell’approccio: e cita pure Jon M. Huntsman, ex governatore dello Utah, ex ambasciatore in Cina e candidato nel 2012 alla nomination repubblicana;Joe Manchin III, un senatore democratico della West Virginia; e, infine, Rex W. Timmerson il presidente e ceo di Exxon Mobil.

Il presidente eletto ha anche sondato il senatore del Tennessee Bob Corker e il generale dei marines John Kelly - il figlio maggiore cadde in Afghanistan nel 2010 -, nomi apparentemente deboli per quel ruolo.

L’eterogeneità delle ipotesi indica che la ricerca del segretario di Stato è complessa: non è facile trovare un candidato preparato e affidabile che accetti di lavorare al fianco di un presidente capace di creare, in ogni momento, più o meno consapevolmente, un incidente diplomatico.

Trump rimette in discussione la distensione con Cuba, al momento stesso della morte di Fidel Castro; intende ripristinare l’uso della tortura nella lotta contro il terrorismo, nonostante le reticenze delle agenzie di sicurezza che ci sono già passate; infiamma le relazioni con la Cina, rispondendo alla telefonata della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen (“Che male c’è?, mi ha chiamato lei”).

La sicurezza in mano ai militari: il nodo dell’Iran
Il segretario alla Difesa è James N. Mattis, 66 anni, generale in congedo che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003: avido lettore di storia militare, ha nomignoli come ‘il monaco guerriero’, per il suo carattere ascetico - non è mai stato sposato -, oppure ‘cane pazzo’. Ai suoi soldati, impone di studiare usi e costumi delle terre dove sono mandati in missione.

Mattis guarda con preoccupazione all’Iran, ma non è favorevole a stracciare l’accordo nucleare definito con Teheran. In merito, John Brennan, direttore della Cia uscente, ha lanciato un monito alla futura Amministrazione: denunciare l’intesa sarebbe “disastroso” e potrebbe aprire una corsa agli armamenti in Medio Oriente.

Ma il successore di Brennan sarà Mike Pompeo, 59 anni, deputato del Kansas, origini italiane, un Tea Party vicino al vice-presidente Mike Pence: per lui, la priorità è l’abolizione dell’accordo con l’Iran, perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al Mondo”.

Il consigliere per la Sicurezza nazionale sarà il generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall’Amministrazione Obama ed entrato nelle fila repubblicane in campagna elettorale.

Come ambasciatrice all’Onu, altra figura importante della politica estera e di sicurezza, Trump ha scelto Nikki Haley, 44 anni, governatrice della South Carolina, origini indiane, che non lo aveva sostenuto nella campagna. Mentre il capo dello staff alla Casa Bianca sarà un repubblicano ‘doc’, fra i pochi ad essergli stato vicino: Reince Priebus, 44 anni.

Tesoro, Giustizia e altre nomine
Alcune delle nomine finora fatte vanno esattamente in senso opposto alle promesse più improbabili del Trump candidato, a dimostrazione che la coerenza non è una caratteristica del presidente eletto: s’era presentato come l’incubo di Wall Street e della finanza protetta da Hillary Clinton e sceglie due finanzieri miliardari, Steven Mnuchin e Wilbur L. Ross, al Tesoro e al Commercio.

Mnuchin, 54 anni, ha gestito gli aspetti finanziari della campagna presidenziale, ha legami con Hollywood e con Wall Street, ma non ha esperienza di gestione della cosa pubblica.

Ross, 79 anni, fa l’investitore ed entra in squadra, come molti altri, perché è un grande finanziatore del partito repubblicano - suo vice è Todd Ricketts, 46 anni, proprietario dei Chicago Cubs che hanno appena vinto il campionato di baseball e figlio del fondatore di Ameritrade: nessuno di questi appare in sintonia con i minatori degli Appalachi e il metallurgici della Pennsylvania che hanno consegnato a Trump la Casa Bianca con i loro voti.

Il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, 69 anni, sarà segretario alla Giustizia: è favorevole all’espulsione degli immigrati irregolari ed è contrario all’aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Nel suo CV, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.

Trump ha pure nominato uno dei suoi rivali per la nomination repubblicana, Ben Carson, 65 anni, neurochirurgo nero, all’Edilizia pubblica - va già bene che un creazionista come lui non sia finito altrove; Tom Price, 62 anni, deputato della Georgia, fra i critici più radicali dell’Obamacare, andrà alla Sanità; Elaine Chao, 63 anni, origini asiatiche, già ministro con George W. Bush, ai Trasporti; e Betsy DeVos, 58 anni, altra miliardaria, donatrice repubblicana, all’Istruzione - vuole dare i soldi dei contribuenti alle famiglie perché possano mandare i loro figli alle scuole private.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

giovedì 1 dicembre 2016

Colombia: una prospettiva

 di Martha Alvarez

La solitudine della piazza colombiana tra bocciature interne
 e promozioni internazionali

Colombia si muove nella piazza pubblica

Ora che il mondo ritorna multipolare e sulle forze populiste si tessono i nuovi nazionalismi: Italia ha Grillo, gli Stati Uniti navigano nell’incertezza delle proprie scelte, la Russia è ritornata ad essere un impero zarista, la Gran Bretagna ha la sua Brexit da pilotare e in Colombia non poteva mancare la tempesta che si è alzata dopo la sconfitta del ‘Sì’ al referendum, che ha spinto i  cittadini a scendere nelle piazze a premere sul governo, le forze contrapposte degli alzati in armi e i promotori del ‘No’, a fare la scelta tra salvare gli Accordi già firmati lavorandoci sopra o ricominciare d’accapo.
La società colombiana vuole la pace e la comunità internazionale così lo ha compresso e se il Presidente Santos, che continua a lavorare per la pace ascoltando le parti, riesce in breve tempo nell’intento d’avviare tutti i suoi sforzi diplomatici e legali che li sono conferiti e raggiungerà un’accordo equo, in grado di soddisfare tutte le componenti del popolo colombiano, senza dubbio passerà alla storia come figura di libertà. 
Ora che la geopolitica crea barriere materiali e immateriali e tuttavia, diventa di flussi e movimentazioni. In momenti come questi che i conflitti regionali sono globalizzati e il bisogno di pace in Colombia risulta voce da bar, da salotto e di tutti i cittadini di questo pianeta. E indifferenti o no, si rispolverano le parole del caudillo colombiano, la cui morte diede avvio allo spirale della violenza che ha occupato la comunità internazionale amica della Colombia, Jorge Eliecer Gaitàn quando ferventemente ha detto: “é vicino il momento in qui vedremo se è il popolo a comandare, se è il popolo a ordinare, se il popolo è il popolo e non una moltitudine di servi”.
Ecco che le piazze ritornano allo loro funzione vitale per la democrazia. Ora, quando la geografia sembrava stabilita d’una volta per tutte e le frontiere della propria sovranità erano state definite anni fa e dove i governi ricercano la sicurezza, essi si trovano l’instabilità geografica, che diffonde paure mondiali finanziate con pochi euro. Popoli che amano e ricercano la giustizia, soffrono d’egoismo e si strozzano nell’architettura delle rogatorie.
La Colombia si muove in questo mondo interessante che è pieno di diversità, alla ricerca l’unità nella cooperazione internazionale; in una società delle nazioni, che sta organizzata  come l’insieme di popoli amanti della pace e tuttavia vede aumentare le conflittualità locali. Popoli che aderiscono ai problemi della globalizzazione nonostante le frammentazioni interne, sempre alla ricerca dei propri nazionalismi, che diano identità alle genti delle regioni, che dispersi nelle differenti nazioni, non sono state considerate nel momento che le potenze li hanno divisi.
Nei numerosi trattati, la comunità internazionale allenta i propri vincoli nazionali, alla ricerca del coordinamento, la solidarietà e l’accettazione ed ecco la Colombia. che è un popolo libero dal 1819, e tuttavia, ha nel suo territorio legittimità stanziali potenti non proprie e capaci di violentare fisica e ideologicamente le proprie genti. Una nazione ricca di risorse utili per il proprio sviluppo e ciò nonostante ha una base economica di sussistenza e si lascia irredimibilmente  spogliare costantemente.
Oggi lo spirito dei tempi ci fa vedere che la Russia, ieri simbolo d’ateismo, ora ritornata  potenza col richiamo all’identità religiosa; e ora la Colombia, un popolo dichiaratamente cattolico che sembra libero d’una fede, laico e indifferente alle questioni religiose, e ciononostante cade nelle trappole dell’analfabetismo funzionale, immergendosi nelle comunità religiose di garage, dove cerca di purgare le proprie colpe e aggregarsi politicamente, aiutando così ad spegnere lo spirito dell’illuminismo.
La geografia si muove in una serie di nazioni scosse delle scelte della secolarizzazione e che comunque ricerca il redentismo nelle guerre sante, tra polvere e sangue; e vede il popolo ‘cristiano’ colombiano, fiero di dichiararsi laico, che ritorna alla schiavitù del sacro, ma dimenticando le parole di Gesù, che solo la “verità renderà liberi”, si fa ingannare e imprigionare negli slogan pubblicitari.
L’economia globalizzata e trasformata alla volontà delle multinazionali, che muovono i fili di governi consenzienti in lasciare opprimere i propri popoli, ecco le Prime Nazioni colombiane che tornano ad esser protagonisti, si proclamano fieri del proprio origine e allontanando gli evangelizzatori, bollandoli come mercanti di morte. E nelle ferite aperte che tutti i popoli hanno,  trovandosi dentro un sistema economico iniquo, si fanno evidenti com’effetti collaterali i consumi poco legali o illegalizzati  di sostanze e d’informazione.
In un sistema economico che ha visto la crescita delle diseguaglianze nell’uso e approfittamento delle risorse dichiarate bene comune, vede in Colombia una nazione d’ingiustizia economica e sociale, dove il povero, che nelle urne non ha voluto guardare al futuro, e ora vuole che la realtà della scarna e povera piazza, decidesse e li dessi gli ascensori sociali di che ha bisogno per affermarsi come persona. 
In un mondo connesso, si produce la notizie e alla velocità della luce lo comunica ai popoli che dormono e ignorano; tuttavia in Colombia, gli abitanti della città e più connessi, hanno potuto scegliere aiutare al contadino produttore degli alimenti e generi di prima necessità ad uscire della spirale di violenza partitica e di guerriglia, in che innocentemente per quasi 70 anni si ha visto coinvolto. I figli dei contadini conoscendo cosa è la guerra, volevano la pace e hanno accompagnato i loro genitori al seggio elettorale; mentre che d’altra parte i figli dei quartieri poveri delle grandi città, non sapevano nulla perché i loro genitori avvolti nella propria povertà e ignoranza, hanno preferito restare a guardare, come si guarda una partita di calcio; e ora tutti due formando un solo gruppo, cercano di legittimare d’una parte, la propria scelta uscita sconfitta delle urne, e l’altra parte si cerca di annientare la propria pigrizia intellettiva e la passività politica,  coinvolgendo insieme alla piazza. Una piazza colombiana vuota fino al 2 ottobre, ma attualmente riempita dei giovani svogliati e alla ricerca d’identità, che ora vogliono fare la differenza.
Una piazza piena di genti che si sente essenzialmente scolarizzate e tuttavia ricerca interpreti delle proprie verità e si lascia guidare dei propri sciamani politici. Una piazza dive si trova rappresentata una società civile che vive fluidamente nell’indifferenza, e tuttavia, sconcertata vuole ricominciare d’accapo.
Mossi nelle acque buie, stagne delle mancanza di creatività politica, i popoli della Terra sono alla ricerca dei colpevoli, ed ecco che il mondo si muove in slogan politici che risultano vincenti e tuttavia, non danno le risposte tangibili desiderate. L’incertezza uscita delle urne colombiane ha fatto urlare senza esprimere un suono: chi si guiderà nel processo?. Ecco che la piazza internazionale mostra la solidarietà con il popolo colombiano. La diplomazia ha  spalleggiato subito al presidente Santos.
Juan Manuel Santos, presidente della Repubblica della Colombia, è stato insignito col Premio Nobel per la pace il passato 7 ottobre “per i suoi sforzi risoluti” per lograre la pacificazione all’interno della nazione che rappresenta la democrazia più antica dell’America Latina e una speranza per la comunità internazionale. Il presidente Santos è alla guida della Colombia dal 2010 e attualmente è al secondo mandato, dopo che nel 2014 è stato rieletto sul presupposto del raggiungimento d’un accordo di pace con l’organizzazione guerrigliera più longeva del pianeta: le “Farc”, Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia.
L’evento sociopolitico colombiano, anche se sembra dimenticato per il fluire dei giorni, esso è vivo e presente nelle piazze italiane, nei flussi dei turisti che arrivano a visitare i nostri monumenti, a confessarsi nei luoghi della fede, a sentire il sapore delle nostre ricette, a portare almeno in fotografia i simboli della grandezza e bellezza italiana ed a riscontrasi col la realtà delle nostre affollate metropolitane, con la singolare delinquenza e la sporcizia dei quartieri romani. Le urne colombiane ci ricordano che siamo a portata d’areo.
 Le reti del web muovono i cittadini colombiani dispersi nel mondo e sono la principale fonte d’informazione istantanea. Nel resto dei paesi democratici la comunità colombiana del ’Si’, ha chiamato a partecipare alle manifestazioni pubbliche spontanee. Il richiamo d’un nuovo plebiscito, in una raccolta firme come risposta alla vita, è rilevante e ha avuto importante partecipazione nella “Tavola Sociale per la Pace”, con partecipazione trasversale: da Norvegia, passando per la piazza Times Square a New York, a Parigi e Lione, nel Paese Vasco, a Ginevra, Sidney tra le centinaia di città solidali col popolo e il governo colombiano. In altre s’attendono i dovuti permessi.
Oggi evento internazionale è importante per manifestare. Durante la partita di calcio contro la nazionale dell’Uruguay, svoltasi 11 d’ottobre nella città di Barranquilla,  i colombiani si sono presentati con camicette e fazzoletti bianchi che hanno agitato durante l’esecuzione musicale del inno patrio e durante l’intervallo. 
The New York Times, ha identificato al ex presidente Uribe come “l’uomo che blocca la pace in Colombia”. Il fronte promotore del ‘No’ è stato subito interrogato dal quotidiano “El Tiempo”, nella voce più importante, la del ex presidente Uribe, si dimostra palesemente l’impreparazione al risultato. Uribe, ha dichiarato: “E’ stata una decisione del popolo colombiano. Il Presidente ha il dovere di trovare le strade per avviare nuovamente il dialogo, ma con l’importante contributo della maggior parte dei colombiani, che hanno votato no”.
Il ‘No’ ha ottenuto solo il 0.43%, ciò significa che il popolo, nelle piazze ancora cerca di capire l’incidenza effettiva e quali siano le proposte valide e innovative che hanno da fare agli Accordi. Basandosi nelle affermazioni del ex presidente Uribe, in una conferenza in Spagna, per molti è evidente che il fronte del ‘No’ porti d’oltranza i dialoghi, attendendo l’arrivo della nuova campagna elettorale del 2018, in che il partito che guida, il“Centro Democràtico”, spera tornare al governo.
Il giornale colombiano “La Republica”, ha riportato l’affermazioni di Juan Velez, tra i principali strateghi della campagna del ‘No’, in che hanno segnalato difficoltà nel reperire finanziamenti e come hanno giocato di astuzia, riuscendo a fare una campagna molto economica con un “apparente” alto beneficio. La loro strategia menzognera si ha sviluppato guardavano silenzio e non collaboravano nel dare giusta risposta che poggiasi o dessi spiegazione giusta agli Accordi e ha preferito concentrare il fuoco della strategia nell’indignazione. Il martellamento mediatico usando i dialetti e le paure, assieme ad un costante volantinaggio e il potere virale delle reti sociali, sono stati più efficace che il richiamo della ragione. Diffondendo la paura che i guerriglieri fossero pagati e onorati mente la nazione stava sommersa nei debiti e le persone annaspando nella povertà. I dibattiti parlamentari per una nuova riforma tributaria, sono stati strumentalizzati e agli anziani fecero credere che li veniva tolto il 7% della pensione, per finanziare e sussidiare chi abbandonava l’armi, e la campagna del ‘No’ è stata così incidente, che ancora i cittadini sono convinti che il guerrigliero senza apportare nulla, andava a guadagnare più del semplice operaio, che il latifondista sarebbe espropriato. Ai religiosi hanno detto che gli omosessuali prenderebbero la guida della nazione pervertendo a tutte le famiglie e disgregandole. Nelle frontiere usarono l’arma della situazione politico-economica del popolo venezuelano, affermando che Colombia dal giorno del voto si trasformava in una repubblica “castrochavista”.
Il castrochavismo è uno slogan coniato da Uribe, che sta diventando internazionale per fare una “geopolitica comparata”, mettendo d’una parte la situazione del popolo colombiano facendole credere che stanno meglio del popolo cubano e venezuelano, ciò nonostante, sia in Colombia, Venezuela o Cuba è palese i differenti indici della disoccupazione e della povertà, la poca libertà d’opinione, di partecipazione politica e di movimento e le numerose situazioni d’ingiustizia  giuridico-legale, per non dire socioeconomica. 
La pace colombiana è letteralmente sequestrata. Le querelle per avviare l’azione penale per presunta frode al suffragante, possono prendere la propria strada giuridica. L’unica certezza è che ora è necessario attendere e alla somma finale, nessuno sarà completamente soddisfatto.
La pace è un utopia più che mai per il popolo colombiano grazia a Uribe, l’ex presidente che durante il suo governo aveva duramente colpito le Farc attraverso il Ministro di Difesa Santos, e oggi si lo ritrova come proprio Presidente. Uribe che si era affermato nel immaginario dei suoi seguaci con slogan populisti che richiamano costantemente l’uso della forza. Un presidente che aveva desiderato sconfiggere le Farc investendo ogni risorsa possibile e che no ha risparmiato nulla, né falsità e costanti violazioni dei diritti umani, ma che riuscì ad internazionalizzare il conflitto con le sue persecuzioni. Un capo del governo che non ebbe cura delle persone che appartengono alla sicurezza e hanno il monopolio dell’uso delle forza, che legali e legalizzate, li ha usate, convertendole in delinquenti, terroristi e palesi violatori dei diritti umani. Un rappresentante del popolo che con la forza della violenza del proprio genitore e del mal affare personale, ha forse per sempre, allontanato i legittimi proprietari terrieri dei suoi numerosi possedimenti. Un governante che mentre svendeva le risorse energetiche nazionali, vietava al contadino la detenzione delle sementi naturali per favorire la semina d’OGM nelle coltivazioni colombiane. Un capo d’una nazione laica, che non ha paura d’strumentalizzare il sentimento religioso del proprio popolo, per ripristinare un radicalismo religioso.
La forza della volontà popolare si fa avanti nella ricca nazione colombiana che è alla ricerca della propria identità geopolitica, d’associare all’economia d’sviluppo e ad una modernizzazione industriale e finanziera, lontano dei prodotti globalmente accettati, tuttavia ancora ritenuti illeciti per maggior parte della comunità delle nazioni. Una nazione latinoamericana che diretta e indirettamente, con il carattere dinamico delle proprie contraddizioni sociali, cerca di diminuire i livelli di povertà economica e la disuguaglianza nel godimento delle multipli risorse naturali. Una nazione che contando con la dinamicità delle proprie genti, possa il proprio destino sul sistema elettorale, ma non si conforma al volere d’esigua maggioranza. Un popolo che gode d’una vecchia e consolidata democrazia, e tuttavia è la ricerca d’invenzioni nuove per promuovere la partecipazione politica. Un governo, che attualmente progetta di riflesso, nelle proprie relazioni esterne, il bisogno di riconoscimento come popolo che ricerca la pace.  
La comunità delle nazioni americane hanno dimostrato che non lasciano il popolo colombiano allo sbando. Stiamo imparando che se un’altra nazione guadagna e si converte in epicentro di sviluppo, esso si trasforma in benessere per le proprie genti nelle migrazioni e diversi scambi. Ottobre è il mese dell’artista e dell’arte colombiano, dove trovavano spazio le differenti manifestazioni culturali,  allora è naturale che tra slogan creativi, musica, canti e danze passi il tempo nel foro. Tuttavia, la piazza pubblica colombiana è stata trasformata da scenario civile e democratico, a luogo avvinto alla partecipazione violenta che la ha trasformata in scenario d’incertezze e minacce e la ha convinta dal giorno fatidico, il 9 aprile 1948, nel momento dell’omicidio del carismatico leader del partito liberale e candidato alla presidenza della Repubblica della Colombia Jorge Elicer Gaitàn.
Le frontiere del cyberspazio ci hanno ricordato che oggi le nostre identità sono porose, in quanto molteplici e veloci sono i cambiamenti geopolitici globali e che la Colombia non è un luogo sperduto. 
Colombia occupa una zona geo-strategica singolare per situarsi sotto l’orbita geo-stazionaria naturale, la vicinanza al Canale di Panama e i bellissimi paesaggi dell’Ande che inoltrandosi nel territorio colombiano, si snoda in tre cordigliere fertili.  Nel triangolo dei dipartimenti di Caldas, Risaralda e Quindìo si produce il migliore caffè del mondo. Le cordigliere pianure, savane e selva amazzonica, albergano nel loro sottosuolo minerali preziosi e industriali. Nelle sue frontiere si nascondono nei microclimi unici al mondo come il deserto di Tatacoa e di Villa de Leyva, e questa diversità dei climi tropicali, incidono inoltre, nella gioia, la fantasia, creatività e integrazione culturale delle genti che l’abitano dal livello del mare, alle zone sottostanti al Pico Cristobal Colòn a 5770 m.s.l.m., e altre alture significative.
Nel contesto d’una nazione in pieno sviluppo, la spirale della violenza si è insediata coinvolgendo pienamente distretti produttivi e comuni tradizionalmente tranquilli, che sono mutati in teatro di battaglie campali, in cui sono stati intrappolati persone di tutte le età e condizioni: ricattati, umiliati, scomparsi e assassinati. Lo spazio pubblico si è, nella resilienza del popolo colombiano, trasformato alla volontà d’una stancante violenza, che ha coniato 10 anni di violenza partitica e infine, ha portato alla formazione di gruppi ribelli al  governo che ancora sono attivi, tra esse: le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia e l’Esercito del Popolo (Farc- EP), la più importante organizzazione guerrigliera.
Le Farc sono un’organizzazione di resistenza ideologica, d’ispirazione marxista-leninista e bolivariana, rappresentata per operai, contadini, indigeni e cittadini che s’opposero allo Stato, chiedendo giustizia e opportunità, con la convinzione che per portare il cambiamento e le riforme strutturali, dovevano sovvertire l'ordinamento statale per instaurare una democrazia popolare e socialista. Nata sotto la guida del leader guerrigliero Manuel Marulanda Velez, il 27 maggio 1964, quando lo Stato colombiano, durante l’Operazione “Marquetalia”, col appoggio statunitense che in quel periodo aveva avviato la campagna anticomunista del maccartismo, ha voluto reprimere con la forza una volontà popolare riuscendo solo ad avviare una lotta armata fratricida di conseguenze riconosciute  internazionalmente.
 Le Farc sono presenti in 242 municipi, nelle 14 regioni donde abita più del 12% della popolazione colombiana; tuttavia la guerriglia sconfinava le diverse frontiere terresti della Colombia, inoltrandosi nei territori Brasile, Ecuador, Panama, Perù e Venezuela, cagionando costanti confronti diplomatici ed obbligando ai paesi vicini a partecipare indirettamente al conflitto, con l’smistamento di numerose forze sorveglianti la propria frontiera.
A marzo 2008, il fronte sud delle Farc inseguito dalle milizie governative, s’inoltrò nella selva ecuadoriana, e dopo un’effettivo attacco,  morì il comandante Farc “Raúl Reyes” insieme ad altre 16 persone. Basandosi nell’indagini svolte dalle forze di sicurezza, su informazioni e dati dei computer trovati nei luoghi di conflitto, la “Revista Semana”, elaborò una mappa dove è evidente che le forze ribelli avevano una piazza pubblica che coinvolgeva circa 30 nazioni differenti.
Per 52 anni, le Farc e governo sono vissuti in costante rapporto di sfiducia, derivato della mancanza di volontà politica per cambiare le condizioni di vita dei contadini e del popolo che con fatica riesce a sopravvivere e della forza belligerante, che con la forza dell’ideale d’uguale opportunità, contava con forti simpatie popolari. I tentativi di pacificazione sono stati numerosi. Ma, mettere d’accordo gli interessi dei meno abbienti contro le classi ricche è un impressa millenaria; convincere al governo a limitare l'ingerenza degli  Stati Uniti (che ha combattuto duramente le Farc essendo il principale fautore del “Plan Colombia”, nella lotta al narcotraffico), negli affari interni della Colombia è una questioni d’opportunità politica e diplomatica; opporsi alla privatizzazione delle risorse naturali e lottare contro le multinazionali è un’impressa globale; porre fine alla violenza delle organizzazioni paramilitari, d’autodifesa, para-politica, estradabili, bande criminali, eserciti irregolari anti-restituzioni di terre, micro cartelli della droga e delinquenza comune, costituiscono una sfida interna per la Colombia dei prossimi anni e per la comunità internazionale che vuole partecipare alla crescita economica. Internazionalmente le Farc, sono state considerate dall’ONU come un gruppo guerrigliero; tuttavia, a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti e la Unione Europea, le hanno catalogato come un’organizzazione terroristica.
In differenti periodi e sotto differenti governi, le Farc hanno voluto rientrare nella vita civile e democratica, avviando attività di reinserimento politicamente viabili. Tuttavia, la presenza d’altre forze destabilizzanti come il narcotraffico, il para -militarismo, e altre forze statali  deviate, hanno portato al quasi annientamento del“Unión Patriótica” (UP), un partito nato il 28 maggio 1985, frutto dei negoziati delle Farc e del governo Betancur. Un partito che aveva ricevuto il sostegno immediato da movimenti politici di sinistra, raggiungendo un significativo e rapido successo elettorale nelle elezioni del 1986 e del 1988.
La UP, d’accordo all’informe 5/97- caso 11.227, ante la Commissione Interamericana dei Diritti Umani, (CIDH), era stata percepito piuttosto come un'alternativa politica alla struttura di potere tradizionale, per canalizzare manifestazioni di protesta civile e popolare e come meccanismo politico, per una possibile re-assimilazione delle Farc alla vita civile. Lo Stato colombiano è stato condannato diverse volte per la CIDH, come responsabile d’aver violato i diritti consacrati nella Convenzione Americana dei Diritti Umani, in relazione alla persecuzione, espatrio e morte dei membri della UP e che costituisce, un clamoroso fallimento delle politiche governative. Il caso della morte violenta del Senatore Manuel Cepeda Vargas, costituisce un esempio.
La forza della violenza passa silenziosa per le strade sterrate dei “resguardos" delle  Prime Nazioni, che scappate alla violenza e l’avarizia del conquistador spagnolo, si sono rifuggiate nei pendii della Sierra Nevada de Santa Marta, nel cuore della selva amazzonica o nel deserto della Guajira.  Passa nelle città dove le forze produttive sviluppano la loro ragione d’essere e partecipano alla creazione del PIL, e arriva agli amministratori delegati e alti funzionari del governo che credono di trovarsi fuori delle zone di conflitto e arriva nella loro famiglie nella forma dei sequestri di persone, ricatti, estorsioni, corruzioni. Passa, inoltre, per le piazze contadine e per i quartieri poveri delle grandi città, nella forma dei reclutamenti forzati dei giovani por parte dalle forze insorgenti, sia dai reclutamenti legali e legalizzati in che il governo cerca di ghermire le loro potenzialità giovanili, avviandoli come militari di carriera, oppure come semplici soldati, giacché obbligati dalle condizione economiche, non potevano acquisire la “libreta militar”, un requisito essenziale per tutti i maschi, e che volessero o no, costituiva un documento necessario per partecipare serenamente alla vita civile ed economica.
Passa e travolge dalle zone centrali del paese e arriva alla selva, che si converte nella zona di commando e abitazione delle forze insorgenti. Passa per il mitico Mitù (Departamento del Vaupés) dove un’avanzata con più di 1.500 guerriglieri contro 120 poliziotti, hanno lasciato uccisi sulla piazza 40 membri delle forze governative insieme a 11 civili e hanno rapiti 38 soldati. Passa e lascia il suo legato de semina di piazze d’orrore, di tristezza e dolore, come il Dipartimento di Nariño, Caicedo (Antioquia), San Jacinto e Macayepo (Bolivar), Toribio e Jambalò (Cauca), Miraflores (Guaviare), Porto Rico (Meta), Cartagena del Chaira (Cauquetá), Algeciras (Huila), tra le molte ricordate e sottolineate duranti i negoziati di Pace a Cuba. Passa e travolge milioni di famiglie che soffrono l’incertezza dei loro scomparsi o piangono i caduti in quest’iniqua guerra, che no ha saputo risparmiare nessuno, perché tutti: nazionali e stranieri, all’affacciarsi sul territorio, hanno dovuto pagare le tasse.
Le Farc hanno sequestrato cittadini comuni o appartenenti al establishment politico-sociale, giornalisti e cittadini stranieri. Le successive richieste per la loro liberazione, sono state strumentalizzate por parte delle Farc per riuscire a finanziarsi, ottenere pubblicità e vantaggio politico sul governo. Il ‘Centro Nazionale di memoria storica’, nel 2013 ha pubblicato un rapporto dove evidenziava che tra il 1970 e il 2010, 39.058 persone sono state rapite e il 37% di questi plagi, più di 14.000, sono stati commessi dalle Farc. Il ‘Fondelibertad’ dice che tra il 1999 e il 2000, anni considerati di recrudescenza delle azioni di guerriglia, sono stati plagiati 6.800 persone; inoltre, tra il 1996 e il 2000 ci sono eseguiti 10 sequestri al giorno. La Procura colombiana a giugno 2016, ha stabilito che un totale di 9.476 indagini aperte, per il reato di sequestro di persona, sarebbero imputabile alle Farc.  Il governo all’inizio dei dialoghi ha richiesto la sospensione dei crimini di lesa umanità di questo tipo e le Farc hanno dimostrato volontà di collaborazione.
Un conflitto che passa lasciando un segno di morte e sofferenza per tutte le regioni del paese, dove le Farc hanno piantato le pericolose mine esplosive. Un rapporto della Vicepresidenza della Repubblica indica che tra il 1990 e il giugno 2013, 10.445 persone sono morte cadendo in campi minati. Il 62% delle vittime erano membri delle forze  governative di sicurezza, mentre che il resto erano civili, molti d’essi bambini. I dipartimenti d’Antiòquia, Meta, Caquetà, Norte de Santander, Cauca, Narino e Putumayo sono i più colpiti dalla messa a dimora di questi esplosivi e complessivamente, tra il 2002 e il 2011, ogni anno il numero delle vittime non era inferiore a 550. Per fortuna, grazie alla volontà politica delle Farc, in questi giorni, numerosi municipi si sommano alle zone di bonifica totale delle mine terrestri. 
Molteplici sono gli eventi, quanto esponenziali sono gli scenari della geografia della sofferenza e dell’insicurezza sociale, mescolata alla solidarietà e resilienza del popolo colombiano. D’altra parte, l’ente che governava, composto d’una casta deviata nella mescolanza d’autoritarismo, clientelismo e corruzione; assiso alla croce e alle combinazioni di vecchi dogmi medievali, rinnovava le millenarie forme d’sfruttamento, saccheggio e negazione dei diritti conquistati.  E questa realtà in conflitto doveva smorzare i toni e se possibile finire, se le parti in conflitto decidevano che era arrivato un momento politicamente viabile, per sedersi al tavolo dei negoziati e creare una nuova piazza di confronto.

Nuove proposte d’inserimento come forma di combattimento ideologico nello spazio pubblico colombiano 
Il sequestro della candidata alla Presidenza della Repubblica per il Partito Verde, Ingrid Betancourt, permisero l’entrata nella scena a Hugo Chavez, allora Presidente del Venezuela. Oltre a intervenire per la liberalizzazione dei sequestrati, Chavez diede avvio una serie d’incontri esplorativi, che data l’affettività del dialogo e dimostrata la positività e serietà delle parti, s’intrapresero dei rapporti mirati ad ottenere la fine del conflitto colombiano, riuscendo a coinvolgere altri governi, principalmente della Norvegia, Cile e Cuba.
Tra i cittadini che hanno memoria storica è presente il ricordo di diversi negoziati, che hanno generato  momenti di pace democratica, ma non duratura. Nel 1985 si fonda il partito politico UP, come una proposta legale d’inserimento civile delle forze insorgenti che li portò di fatto alla piazza democratica. Tuttavia i candidati presidenziali Jaime Pardo Leal e Bernardo Jaramillo Ossa, 8 membri del Congresso, 13 deputati, 70 consiglieri, 11 sindaci e circa 5.000 membri, sono stati sottoposti a uno sterminio fisico sistematico por parte di gruppi paramilitari, membri delle forze di sicurezza dello stato (esercito, polizia segreta, polizia regolare e di intelligence) e narcotrafficanti. Molti dei sopravvissuti allo sterminio sono ritornati alle zone di conflitto, ma la maggioranza dei volti conosciuti hanno dovuto lasciare il paese e vivere d’esiliati principalmente preso le nazioni europee. 
La CIDH chiamata nel 1993 a risolvere una causa contro lo Stato colombiano per la sua responsabilità e la partecipazione a crimini contro l’UP,  nella sentenza non ha riconosciuto la responsabilità dello Stato per il crimine di genocidio, tuttavia l’accumulo delle  prove hanno sempre dimostrato l’uso di metodi illegali nelle forze officiali. Persiste la sfida affinché uno qualsiasi dei vari governi, possa rompere il ciclo di impunità che storicamente ha circondato questi crimini.
Il fallimento clamoroso delle ‘Negoziazioni di Pace’, intraprese tra il 1998 e il 2002 dall’allora presidente Andrés Pastrana e Manuel Marulanda, fino a quel momento supremo comandante Farc, portò a una nuova intensificazione del conflitto e la conseguente recrudescenza della violenza fino al 2012, quando s’avviarono nuove forme di confronto civile.
Durante quattro anni il governo e le Farc insieme a rappresentanti delle vittime e comunità nazionale interessata, con l’appoggio di consulenti e d’osservatori internazionali, hanno avviato incontri e negoziati che hanno culminato in un Accordo, firmato nella principale sede dei negoziati, l’Avana, il 25 agosto 2016, e  confermato davanti il popolo colombiano e la comunità internazionale il 26 settembre a Cartagena.  
La firma della pace si è materializzata alla presenza di numerosi governanti, diplomatici invitati e popolo in generale. Siglata con il “Balìgrafo”, simbolo della riconciliazione politica e sociale, tra il presidente Santos, massimo rappresentante della nazione [che ad agosto 2016 , con dati del Dipartimento Nazionale di Statistica (DANE, contava una demografia elettorale di 48.747.632 abitanti di cui 34.899.945 iscritti, con pieno diritto a voto], e il supremo leader dei 5.765 combattenti Farc, Rodrigo Londoño. 
Significativo è stato il “balìgrafo”, un simbolo di cambio consistente nella camicia d’un proiettile nel quale si è inserito la più civile e pacifica penna contenente l’inchiostro; ugualmente eclatante è la stretta di mani dei due rappresentanti delle forze in conflitto in mezzo alla piazza pubblica nazionale e internazionale.  La Pace si è letteralmente materializzata nella piazza della bella città di Cartagena, alla presenza di numerosi governanti, delegati dell’Alta diplomazia internazionale, 27 Ministri di affari Esteri, 10 direttori di organismi multilaterali, 2500 persone in rappresentazione d’organizzazioni impegnate per la pace e diritti umani, numerosi cittadini colombiani appartenenti ai settori produttivi e sociopolitico d’spicco, vittime provenienti d’ogni zona di conflitto,  ai quali si sono sommati gli osservatori e giornalisti internazionali.
Il presidente Santos, negoziando con tenacia e pazienza  l’Accordo di Pace, ha costruito un capolavoro geopolitico regionale, del quale danno testimonianza nel  palcoscenico di Cartagena  l’intervento del Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon e il Segretario di Stati Uniti, Kerry; la presenza dei 15  capi di Stato (i presidenti d’Argentina, Bolivia, Costa Rica, Cuba, Chile, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, México, Panamá, Paraguay, Peru, Repubblica Dominicana y Venezuela); il re Emerito della Spagna, don Juan Carlos I, gli  ex capo di governo Felipe González (Spagna), Ernesto Zedillo (México) y José Mujica (Uruguay); e l’ex segretario dell’ONU, Kofi Annan. Inoltre i rappresentanti degli  organismi internazionali: il Presidente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il Segretario Generale OEA, Luis Almagro; e i presidenti del Banco Mundiale, Jim Yong Kim; del Fondo Monetario Internacionale, Christine Lagarde; e della BID, Luis Alberto Moreno; la Segretaria Generale Ibero-americana, Rebeca Grynspan; la Segretaria della Cepal, Alicia Bárcenas, e il Presidente del Banco d’Sviluppo de America Latina (CAF), Enrique García. 
La volontà politica delle Farc e la richiesta di perdono a tutte le vittime por parte  del loro capo, Londoño, nella piazza internazionale di Cartagena, ha inoltre,  fortemente spalleggiato al presidente, e questo messaggio di pace è stato internazionalmente premiato quando Federica Mogherini, rappresentante della politica estera europea, ha annunciato la scelta di Bruxelles di rimuovere le Farc dalla lista internazionale dei gruppi terroristi, per inserirla a tutti gli effetti come gruppo politico.
Colombia è una Repubblica con separazioni di poteri, dipendente del governo centrale eletto per 4 anni, dove il presidente è il capo del potere esecutivo assieme ai ministri la lui scelti, e l’indirizzo politico dipende anche del parlamento, ai quali s’accede per il sistema di voto universale al che partecipano libera e volontariamente i cittadini, anche i residenti in altre nazioni. Inoltre, come parte delle politiche d’sviluppo previste nella Costituzione Nazionale del 1991, ha un’amministrazione decentralizzata di primo livello, in 32 dipartimenti che scelgono un governatore e una giunta, che ha sede nella città più importante, e un distretto Capitale: Santafé de Bogotà. Dal governo dipartimentale, dipendono i municipi, o le aree metropolitane, o i territori indigeni equivalenti, che sono il secondo livello. Per ultimo l’aree urbane, conformate da “comunas" o quartieri e nell’aree rurali le località o “corregimientos” e “veredas”. Le provincie sono un nome generico per definire zone storiche che non hanno vincolo giuridico.
Decenni di violenza per mano di movimenti di guerriglia hanno segnato il paese come un rifugio pericoloso per il traffico di droga per la sua capacità mimetica e di produttore delle risorse necessarie. Dal 2012, tuttavia, il governo ha lavorato per avviare i negoziati tra i gruppi di guerriglia che una volta controllavano vaste distese del Paese. Attualmente, meno del 6% dei colombiani vive in pericolo della violenza guerrigliera e i funzionari continuano a combattere l'industria dei narcotici in concerto con gli Stati Uniti.

La nascita d’una nuova piazza dove è stato montato un nuovo scenario d’incertezza
Gli’Accordi, sono consacrati in 297 pagine e contemplano: una cessazione alle ostilità e al fuoco bilaterale ( è un fatto molto significativo che le forze in conflitto abbiano sospeso l’attività e ancora l’osservino), la futura partecipazione politica e il pronto reinserimento dei guerriglieri Farc alla normale vita socio-economica; la possibilità di riscontrare la verità, giustizia e riparazione riguardo alle vittime; la riforma agraria per creare infrastrutture rurali e opportunità lavorativa per tutti; alcune possibili soluzioni al problema internazionale della produzione, elaborazione e commercio de droghe illecite nei quali la nazione si vede protagonista e meccanismi d’attuazione e verifica dello pattuito.  
La Corte Costituzionale, consultata preventivamente dal governo sull’opportunità  e  la valenza dello pattuito tra governo e Farc, il 18 di luglio, dà a conoscere l’approvazione del referendum come mezzo per dare effettiva legalità ai contenuti dell’Accordo e inoltre fissa, nel 13% come soglia necessaria, a significare che, in una demografia elettorale, tra gli aventi diritto, 4.396.626 persone dovevano esprimere il proprio favore agli Accordi e superare ovviamente il numero dei voti contrari.
L’accordo, avvallato per la Corte Costituzionale è sottoposto a referendum nazionale, il 2 ottobre 2016, con la formula: “Lei Appoggia l’Accordo Finale per la culminazione del Conflitto e la Costruzione di una Pace Stabile e Durevole?”. Tuttavia, nelle urne non si trattava di scegliere tra la pace e la guerra, ma la scelta democratica posava sugli Accordi dell’Avana e ciò significa che se vinceva il “sì” tali negoziati venivano  approvati e sanciti dal popolo.
La pace è un bisogno necessario, urgente e drammatico del popolo. Il bisogno di pace è palese in tutti i settori della società internazionale, che vede nella Colombia come una nazione in forte  sviluppo. 
La Colombia è riconosciuta come la nazione latinoamericana che ha la più antica democrazia dei tempi moderni. Ha una miscela unica di etnie e culture, ed è ricca in risorse naturali. è un esportatore d’oro, zaffiri, diamanti, smeraldi, produttore di vari minerali e prodotti agricoli che permette abbia un debito pubblico ragionevolmente basso. Negli ultimi anni ha visto un alzamento nella qualità di vita dei sui cittadini, che contano con l’input vitale della gioventù e una dinamica economico-finanziario in crescita, spalleggiata d’una collaudata democrazia che da stabilità politica ed è capace d’attrarre investimenti. Nella classificazione internazionale, sta tra le 31 maggiori economie del mondo.
Il Fondo Monetario Internazionale nel più recente rapporto ha classificato la Colombia nella posizione privilegiata, visto che nel 2015 ha riscontrato un incremento del PIL con una variazione positiva del 3.1%. Contribuiscono nella creazione del PIL: il settore finanziario che ha primeggiato col 20%, i servizi 15%, il commercio 12%, l’industria 11%, il settore minerario, estrattivo  8%, agrario, servizi e altro.
Dopo Brasile, Messico e Argentina, la Colombia ha ricevuto il riconoscimento come quarta economia più grande della zona. Osservata attentamente dal “Economist Intelligence Unit”, che la ha inserita nell’acronimo coniato nel 2009: i CIVETS (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sud Africa), per indicare i nuovi mercati promettenti e prossimi protagonisti dell’economia internazionale, per il suo dinamismo geopolitico, che profetizza un suo importante ruolo tra gli attori strategici nella governance mondiale, nelle Nazioni Unite e nel Fondo Monetario Internazionale; per la propria diversità geo-economica, come paese fornitore di sviluppo e di materie prime, capace d’attrarre inversione e, per la ricchezza umana, giovane, creativa e in crescita.
Il profilo del protagonismo attuale della Colombia, tracciato da studiosi di Harvard, è determinato dall’attrattivo che offre all’inversione straniera. La sfere dell’esportazioni nel 2015, includeva tra altri: petrolio, carbone, prodotti chimici, oro, caffè, fiori, nichel, e banane; principalmente con destinazione a Stati Uniti 28%, Unione Europea 19%, Cina 12%, India 6% e ai paesi vicini (Panama 6%, Ecuador 4%, Venezuela 3%, Brasile 3%, Aruba 2%, Cile 2%, Perù 2%); il tutto equivalente a US $ 48.52 miliardi. 
L’importazioni raggiungono US $ 56.05 miliardi, ed è significativo che in un paese tradizionalmente agricola, il 10.5%, dell’importazioni sia conformato da prodotti alimentari, bevande e l'agricoltura (mais giallo, soia, orzo, cotone); inoltre, nel paniere dell’importazioni ci sono: chimici e farmaci 16,6%, mezzi di trasporto e trasporti 15,3%, macchine ed attrezzature 11,3%, combustibili raffinati 9,9%, di metallo e del 7,7%, telefonia ed attrezzatura di comunicazione 5,9%;  provenienti dagli Stati Uniti Stati Uniti 36%, Cina il 19%, Mexico 9%, Germania 4%, Brasile 4% tra i più importanti. Il Trattato di Libero Scambio con Stati Uniti è vigente dal 2012, con la UE dal 2013, d’allora si sono sommati altri 10 e sono in corso diversi negoziati. 
La moneta ufficiale è il Peso colombiano, che nello scambio ufficiale del Banco della Repubblica, la Banca Centrale della Colombia, ed è l’organo che emette e regola, per ogni euro, il 21 ottobre 2016, alle ore 11,02 s’ottenevano 3.187 pesos. Oltre al dollaro degli Stati Uniti d’America(USD), ha come moneta di riserva ufficiali: la corona danese (DKK), Corona norvegese (NOK), corona svedese (SEK), dollaro australiano (AUD), dollaro canadese (CAD), dollaro neozelandese (NZD ), euro (EUR), franco svizzero (CHF), sterlina britannica (GBP), yen giapponese (JPY), renminbi cinese (CNH / CNY), dollaro di Hong Kong (HKD), dollaro di Singapore (SGD) e won coreano (KRW).
La Colombia è tra le nazioni che diedero vita alla Comunità delle Nazioni e posteriormente all’ONU; forma parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Banca Mondiale  e  numerose organizzazioni e comunità internazionali, tra cui l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), la Banca Interamericana d’Sviluppo (BID), la Comunità Andina delle Nazioni, l’Unione delle Nazioni Sudamericane e l’Alleanza del Pacifico dove sta trovando cooperazione per lo sviluppo e consolidazione geopolitica.
La storia insegna che in un contesto di conflitto armato, avvinti della resilienza negativa, si passa dell’uso letterale della forza, alla forza delle parole. E dove s’incrociano argomenti diversi, molti di essi possono essere indirizzati alla pancia degli elettori e non alla ragione, alla rimembranza negativa e non al cuore disponendolo verso il futuro. Ecco, dunque, che spuntano come zizzania le sentenze: si desidera dare impunità a criminali, assassini, sequestratori e narco -guerriglieri; che i loro crimini resteranno impuniti; che oltre tutto essi potranno presentarsi all’elezioni e magari diventare deputati o senatori; che una parte delle tasse e delle terre sarà distribuita direttamente agli alzati in armi; e che porzioni di territorio saranno ceduti per il loro inserimento; che la nazione cadrà sotto una dittatura “castrochavista”, e per ultimo: che le famiglie saranno disgregate. 
In un popolo che ha sofferto molto, tali argomenti pesano e non si possono sottovalutare; tuttavia, il governo e sostenitori del “si” erano fiduciosi, appoggiati nei sondaggi che davano un amplio vantaggio. Inoltre, spalleggiati della comunità internazionale, che si dichiarava costantemente favorevole agli Accordi nella voce dei rappresentanti dell’ONU, del Vaticano, l’Unione Europea, gli Statiti Uniti e nazioni varie. Ciononostante il 62,57% del popolo in quel giorno ha scelto  l’indifferenza, mancando all’osservanza personale del dovere civico che ha ogni cittadino appartenente a una nazione democratica.
La soglia minima, segnalata dalla Corte Costituzionale è stata superata del 10,8%, ma nella scelta delle 12.808.858 persone che hanno partecipato dando un voto valido, ha prevalso il rifiuto degli Accordi firmati tra il governo e le Farc come “condizione essenziale alla costruzione di una pace stabile e duratura”. Analogamente allo successo nel processo Brexit nell’Inghilterra, ha catturato l’attenzione del mondo. Ciononostante il fronte del ‘No’, con 6.431.372 persone, inaspettatamente abbia prevalso con solo il 0,43%, gli Accordi devono essere rinegoziati.

Il giorno in che la piazza pubblica ha scelto l’indifferenza si trasforma in settimane di passione
I popoli sono l’insieme d’individui concreti capaci di cambiare la propria storia. Dopo la giornata elettorale, lentamente il popolo colombiano è uscito in modo spontaneo della loro sonnolenza e resosi conto della precarietà, della mancanza di senso civico, dell’inganno e travolti della propria coscienza politica, ha riempito gli spazi pubblici.  Inizialmente in più di 100 municipi ha organizzato presidi permanenti, ora sono circa 500. La partecipazione è numerosa di modo che gli indifferenti al processo di pace hanno abbandonato la loro passività e urlando “AcuerdoYa”, esigono accordi già. Danno la loro legittimità al tavolo dell’Avana e difendono gli Accordi nella sua totalità. Votanti del ‘Sì’, il 49,78%, e i decisori che hanno portato il ‘No’ all’urne, convivono nelle strade e piazze in un abbraccio fraterno, con musica e cantici di pace proclamano il loro accoglimento dei ribelli, (anche se non riconosciuti, né possibili di raggiungere) nel suo reinserimento alla vita civile.
Dopo le prime ore d’sconcerto, strade e piazze si sono riempite con i cittadini che urlavano come ai tempi dell’indipendenza nel 1810: “Cabildo Abierto” (Capitolo aperto). Il Cabildo è una figura ritaglio della dominazione spagnola, che è l'incontro degli abitanti e loro rappresentanti nella piazza pubblica, in cui possono partecipare direttamente, al fine di discutere questioni d’interesse  per la comunità, anche procedere con l’elaborazione di documenti e raccolta firme.
Tunja è una città storica, asso economico e universitario, situata a pochi chilometri dove la Colombia ottenne l’indipendenza della dominazione Spagnola, nella Battaglia per la liberazione del 7 agosto 1819; è inoltre il centro politico -amministrativo del dipartimento di Boyacà, uno dei 32 che conformano la suddivisione amministrativa nazionale. Tunja si è costituita come una delle prime città, che d’accordo alla coordinazione delle forze popolari, è riuscita a raccogliere le firme per convocare il “Primo Cabildo Aperto”, nel dipartimento. A Bogotà, sarà aperto il primo cabildo  il 25 ottobre, alle ore 9. “La pace è irreversibile. Facciamolo noi!” e lo slogan più diffuso.
Il Cabildo o istanza de consulta popolare, è la essenza pura della partecipazione cittadina. Si tratta di uno dei meccanismi di partecipazione prevista dalla Costituzione colombiana, affinché i cittadini possano esercitare la loro sovranità. I cittadini d’iniziativa propria, nella misura del 5% degli aventi diritto a partecipare alle votazioni in un predeterminato municipio, distretto, località, comuna o corregimento, hanno raccolto le firme e le hanno presentate in osservanza della Costituzione e della Legge Statuaria 175 del 6  luglio 2015. Essi l’hanno presentata il 20 ottobre alla commissione elettorale, della “Registradurìa”, che è l’ente coordinatore locale che funge d’anagrafe dei cittadini in concerto con l’Ordine del Notariato. Ora sono necessari altri 5 giorni, affinché la “Registradurìa” controlli, verificano nomi e cognomi, carta d’identità e firma necessari per avallare ed emettere un documento per l’incorporazione e dichiarare aperto il cabildo.
Juan M. Santos è al secondo mandato presidenziale, dopo il primo periodo 2010- 2014, in che ha tenuto conto la pressione internazionale che voleva fermare le continue violazioni ai diritti della  persona, verificatosi anche quando era Ministro della Difesa nazionale sotto il governo Uribe, poiché avviando efficaci azioni, aveva colpito duramente i diversi fronti di guerriglia, uccidendo alcuni capi come Raùl Reyes, Mono Jojoy e Alfonso Cano. Nel 2014 era stato rieletto col preciso incarico di portare a termine i negoziati di pace che dal gennaio del 2012 si svolgevano a Cuba. Ha avviato i dialoghi, firmato gli Accordi e annunciato il Plebiscito. Tuttavia, la sua presenza nel salotto internazionale dove andando altre le differenze ideologiche, aveva ristabilito ottime relazioni col governo venezuelano e costruito efficaci rapporti con l’Ecuador e altre nazioni della zona, uscendo vincente nel ricostruire una egemonia colombiana nella sfera geopolitica, ciononostante, li aveva fatto trascurare una più efficace azione interna, specialmente durante il mese che ha durato la campagna a favore del ‘Si’.  Comunque il suo, era un governo avvolto della sfiducia e dello scetticismo popolare, fino al 2 de ottobre, quando in un 62,57% non si è presentato al seggio elettorale, atto simbolicamente rilevante. Oggi la piazza pur conservando molte osservazioni, le ristabilisce l’appoggio e la fiducia meritata.
La decisione vincolante del popolo colombiano è una scelta che ha sollevato dubbi e l'instabilità nei giorni successivi. Ora è una firme voce che costantemente ricerca la pace nei presidi pubblici. Su un totale di 12.808.858 persone che fece una scelta valida, il voto del ‘Sì’ si è fermato al 49,78% e a causa della eccessiva fiducia del governo, la cronica mancanza di partecipazione al voto, sommato al cattivo tempo atmosferico a motivo del passaggio dell’uragano Matthew che ha impedito che votassero almeno 187.260 persone.
Le marce, manifestazioni, presidio delle piazze, fiaccolate e raccolta firme, in questo momento, formano parte essenziale della società civile colombiana.  Il popolo colombiano è stato convocato dalle organizzazioni di studenti universitari e movimenti sociali e culturali, da partiti politici, rappresentanti del settore agrario e comunità etniche, dalle organizzazioni di vittime del conflitto, gruppi ambientalisti, animalisti, associazioni d’educatori, membri della comunità LGBTI e settori popolari comuni. 
I presidi sono attivi giorno e notte. Le marce popolari stanno coinvolgendo trasversalmente la società e sono state denominate: ‘la marcia del silenzio’, ‘marcia della pace’, ‘marcia delle fiori’, ‘la Marcia Per La Dignità delle Vittime’, e altro e si hanno sviluppato non solo nelle principali città colombiane.
I cittadini e vittime sono state ispirate alla mobilitazione nella speranza di trovare un cambio di strategia militare e di polizia, oltreché chiedere verità, giustizia e riparazione por i crimini che le forze militari e insurrezionali hanno commesso nel marco del conflitto colombiano.
Sono numerosi i militari condannati e ancora non effettivamente segnalati per l’esecuzioni extragiudiziali denominate “falsi positivi”. Per avere premi, forze legali o legalizzate,  sono ritenuti ideologi, mandanti, e semplici esecutori di vere e proprie sentenze di morte, operate contro cittadini comuni, colpevoli d’essere abitanti della strada, ragazzi che si sono trovati nel luogo e momento in che gli uniformati facevano retate; oppure, azioni criminali contra semplici indigeni o  contadini che presi ed spostati al luogo della loro esecuzione, sono stati rivestiti con abiti simili a quelli dei guerriglieri e fatti passare come combattenti.
Un effetto del marco della giustizia di transizione previsto nell’Accordo, significava per i militari, una possibile revisione dei loro casi e processi. La speranza nel vedere riconosciuta la loro libertà immediata, oppure, con l’ammissione di responsabilità, raccontando la verità, potevano diminuire la loro pena a 8 anni, un periodo molto minore a quello che la giustizia ordinaria prevedeva e alla quale, alcuni sono stati condannati: fino a 60 anni di galera. Dalla galera hanno sottoscritto diverse lettere indirizzate al presidente Santos e comunque, i loro familiari si sono organizzati e hanno partecipato alle manifestazioni.
In Colombia la confusione di ruoli, missioni e concetti è molto forte, tanto ché la separazione tra funzioni militari e di polizia sono minimi; inoltre, le forze detengono strumenti d’uso civile come programmazione costanti di radiodiffusione, d’altro gradimento nelle zone periferiche e tra i contadini. Esso significa che si ha bisogno d’una riforma culturale nella popolazione in generale.
La Banca Mondiale ha seguito il percorso di spesa del governo colombiano, considerando che è tra coloro che più hanno investito in equipaggiamento militare, con una spesa militare che del 2,2% nel 1998 è passata al 3,4% del totale PIL del 2015. D’altra parte l’organizzazione guerrigliera, nelle zone d’influenza stabilizzò un sistema contributivo a base volontaria, che reperiva sia di risorse umane che economiche,  tuttavia la principale fonte di finanziamento è il “gramaje”, che è l’imposta sul cultivo, produzione e commercio di materie prime e sostanze illegali. “The Economist" ha pubblicato in aprile 2016, alcune stime sul patrimonio delle Farc, rivelando che nel 2012 avevano un patrimonio di 33 miliardi di pesos colombiani, una cifra che non considera i costi di manutenzione del propio esercito guerrigliero. Il documento elaborato con riferimento a dati d’analisti governativi, presupponeva che il reddito annuo delle Farc oscillava tra US $ 200 milioni e US $ 3,5 miliardi dall'inizio di questo secolo, quando il gruppo era al suo momento di più fortezza, con 18.000 combattenti. Senza dubbio le finanze delle Farc, sono diminuite dal momento d’inizio dei negoziati.
Ricercatori scientifici, artisti, cantanti, sportivi e comunità in generale hanno collaborato nel diffondere la speranza di pace che il “Cabildo Abierto” rappresenta. Il richiamo della piazza è che non si spenda un peso colombiano in più per finanziare la guerra. Nel 2014, la Colombia ha speso in difesa 11.082 milioni di dollari. Le capacità militare per il 2016, riportata nella “Global Fire Power”, classifica al 41 posto per la sua potenza di fuoco in confronto a 126 nazioni. Sulla totalità dei 46 milioni d’abitanti, ha circa 24 milioni di persone adatte per il servizio; d’esse 19.015.000 persone possono servire immediatamente. 
L’obbligo di servizio militare per i maschi è un fatto socio-economico non indifferente;  tuttavia, i cittadini possono “pagare” il rilascio d’una carta di compensazione militare. Inoltre, possono fare la richiesta d’esonero, usando i meccanismi di diritto di petizione, habeas corpus, habeas data, la tutela o presentando demanda ante un giudice invocando la sentenza T-455 del 2014 della Corte Costituzionale, per obiezioni di coscienza, con motivazioni etiche, religiose o politiche. La opzione di prestare un servizio sociale per la pace è radicata come progetto di legge. Nel 2015 circa 845.000 persone hanno raggiunto l’età militare durante l’anno, e circa 445.000 sono il personale di prima linea attivo e 62.000 il personale di riserva attivo. 
I fornitori dell’industria militar, oltre la nazionale Industria Militare (Indumil), sono ditte di Stati Uniti, Israele, Degno Unito, Francia, Svezia, Canada e anche il Brasile. 
Le forze militari colombiane: aeronautica, esercito e marina, costituisce una forza riconosciuta come una delle più professionalmente preparate ed efficaci. Sono costantemente chiamate a partecipare in operazioni speciali ottenendo amplio riconoscimento internazionale, oppure costituiscono parte dei “contractor”. Un rapporto del giornale “El Espectador” indica che soltanto tra i 2010 e il 2012 sono stati formati dalle truppe colombiane, oltre 5.000 cittadini dell'America centrale, specialmente per fare fronte nella guerra alla droga.
I militari sono stati rappresentati nel tavolo di negoziati dell’Avana e hanno visto nel Generale Javier Florez, capo di stato maggiore congiunto delle Forze Armate, uno dei primi ufficiali che sono andati a Cuba e ha dato la mano alle Farc.
La piazza dei negoziati si è arricchita dalla manifesta volontà por parte dell’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), che figura tra i vecchi gruppi d’alzati in armi, è il nuovo protagonista che si è affacciato per chiedere d’essere inserito nei futuri dialoghi, ed avviare loro ingresso alla vita socio-economia. I negoziati s’avvieranno a novembre e  s’svilupperanno nella cornice della città di Quito.
Deve risultare chiaro che geopoliticamente parlando le Farc, no lasciano la piazza conquistata con polvere e sangue facilmente, né abbandoneranno lo spazio vuoto per essere riempita d’altre forze violente, se la comunità internazionale l’aiuta a concludere i negoziati col proprio governo. Uribe, perseguitando il propio popolo lo ha fatto fuggire; allora, le autostrade della narco -guerriglia si sono ramificate nei paesi vicini: al Panama, Messico e Perù, al Venezuela e al Brasile e di lì si progettano di fronte agli interessi italiani, all’Africa. Oggi le frontiere del narcotraffico si sono spostate dell’America latina e passano per il Mali e il Magreb, raggiungono le nostre piazze. Esso ci fa ricordare che posiamo stare in sistemi geopolitici differenti, e tuttavia, in un sistema interdipendente, dove le lotte criminali s’uniscono in un scenario di strema complessità attraverso il web, il mainstream, e dall’individualismo esistenziale, indice all’azione, al esperimento. 
Non è indifferente che fuori delle frontiere colombiane, sono stati ubicati 203 luoghi di votazione nei consolati dispersi nelle nazioni vicine come Panama e Venezuela, ma anche in Cina, Ungheria, Svizzera, Egitto, oltreché i paesi europei. La “Registraduria” è l’organo responsabile del registro e identificazione dei colombiani e l’amministrazione dei processi elettorali, ha stabilito 1.372 seggi, affinché le 599.026 persone abilitate per votare al estero, potessero esercitare il loro personale diritto-obbligo civile. 
La Gran Bretagna, che ora comincia a fare fronte ai timori sorti dopo l’esito del proprio referendum, trova nella nazione latinoamericana un partner ideale, non solo per le riserve economiche in sterline che la Colombia ha, per gl’interessi economico-finanziari reciproci e nondimeno, anche con il bisogno di visto per entrare nel territorio inglese, la loro offerta d’ospitalità somma 9.177 persone regolarmente registrate preso il consolato colombiano. Non risulta indifferente che il Parlamento britannico abbia offerto l’appoggio incondizionato al processo di pace, e che parlamentari laburisti, conservatori, nazionalisti, abbiano appoggiato una risoluzione promossa dai sindacalisti per sostenere il processo di pace colombiano. Il popolo britannico ha espresso la solidarietà permettendo e promuovendo le mobilitazioni dei colombiani che continuano a difendere il Diritto Costituzionale e Umano alla Pace.
A Roma un gruppo di cittadini colombiani hanno organizzato un momento di manifestazione a favore degli Accordi e per la pace. Il bollettino della “Registraduria Nazional del Estado Civil”, ha riscontrato che in Italia hanno votato 431 delle 5.241 persone abilitate. I voti validi sono stati 428 e una persona ha votato in bianco e due anno reso nullo il loro voto. Il ‘Si’, ha ottenuto il 75% dei voti con 321 persone, mentre che 107 persone hanno sostenuto il ‘No’. E questo dovrebbe fare riflettere la diplomazia italiana. 
Olanda, ha avuto una discriminazione nei risultati che ha visto depositati 139 voto ‘Sí’, e i ‘No’ è arrivato a 34 voti; comunque il 16 ottobre ha ospitato una manifestazione di colombiani. Olanda è la nazione conosciuta come il paese dove le droghe ritenute illecite por il governo colombiano, sono legalizzate e tuttavia, ha le carceri vuote.  
Nel foro d’Atene e di Roma è nata la civiltà geopolitica attuale. Ancora oggi la piazza sceglie.  La Piazza di Bolivar in Bogotà è il pivot della democrazia e intorno al quale il popolo pretende sviluppare l’alleanza tra governo, Farc e forze contrapposte. è la piazza più internazionale e importante della Colombia. In essa s’sviluppano le principali manifestazioni popolari e anche lì, circa 200 persone accampano ogni notte dal 5 ottobre. Denominato “l’Accampamento della Pace”, sono una forma d’espressione che aggruppa studianti, cittadini, vittime della violenza e, sono in attesa che le forze promotrice del ‘No’, governo e Farc arrivino presto ad un’accordo che favorisca l’stabilimento della tanto desiderata pace. Essa vuole rappresentare tutti i cittadini che credono nelle possibilità d’una soluzione veloce e che permetta vedere un nuovo Accordo; tuttavia alcuni partecipanti dal 20 ottobre hanno cominciato a ricevere minacce tramite Facebook, e altri mezzi.
Un comunicato ‘dell’accampamento di pace’, fa evidente che hanno ricevuto pressione da forze  sconosciute denominate: “Forze Speciali Anticomuniste”, e offrono una risposta a essi: “vogliamo dire che è esattamente per l’ambiente di violenza che siamo qui, sogniamo un paese in cui tali minacce non hanno posto. Ciò non significa non abbiamo paura, ma questa volta non lasceremmo che la paura vinca. Come abbiamo detto nel nostro comunicato della scorsa settimana, il campo non s’alza finché non avremo un percorso verso un’accordo”.

La firma dell’accordo il 26 settembre 2016, è stato il momento più eclatante in che la nazione ha visto come un lampo l’arrivo della fine della guerra fratricida. Ora bisogna trovare un compromesso sociale, legislativo o politico che preservi dei sanguinosi combattimenti e permetta il disarmo dell’insorgenza e riuscire, per mezzo del dialogo e del dibattito politico a migliorare le condizioni socioeconomiche del popolo colombiano e a fare effettivo l’esempio che la regione e nel mondo s’attende. 

Grazie. 
Martha Alvarez
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NOTE: Ho utilizzato principalmente riferimenti dei quotidiani “El Tiempo" e “El Espectador”, della “Revista Semana", “Las2orillas” documenti on line,  quindi valutati de dominio pubblico, grazie a Google.  Sono citate gli autori di frasi specifiche, sono ricerche che ho sviluppato nelle settimane dal 10 ottobre al 23 che ho confrontato con l’informazioni d’amici, e con note di conoscenti diffuse in facebook.
Le fotografie sono copiate tra quelle pubblicate nei profili d’amici personali in Facebook, Hollman Morris, Maryory Ortiz, specialmente del gruppo social “Colombianos en el exterior”,  e della pagina del Presidente Juan Manuel  Santos, quindi valutate di dominio pubblico.