| ||||||||
Il referendum revocatorio del mandato del presidente Nicolás Maduro era uno degli ultimi, se non l’ultimo, percorso pacifico e legale che rimaneva per il cambiamento di cui il Venezuela ha disperatamente bisogno.
La sospensione da parte del Consiglio nazionale elettorale (Cne, controllato dal governo), della consultazione ha portato l’Assemblea nazionale - dove gli oppositori dell’esecutivo hanno la maggioranza - a parlare di un vero e proprio colpo di stato. Ma ha anche provocato una ferma opposizione da parte dei governi di Paesi vicini, in particolare Argentina, Uruguay, Brasile e Paraguay, che - come annunciato - il 2 dicembre hanno sospeso all’unanimità il Venezuela dal Mercosur. Caracas - nell’organizzazione latinoamericana da appena quattro anni - perde non solo il diritto di voto ma anche di partecipare ai vertici del Mercosur e ai negoziati commerciali con Paesi terzi o con altre organizzazioni internazionali. Non sono state imposte sanzioni economiche al Venezuela, ma la sospensione è un segnale inequivocabile di come la situazione nel Paese stia precipitando, con il regime chávista sul viale del tramonto. Caracas e il mercato unico sudamericano Non sorprende che il Mercosur abbia finalmente deciso di indurire il gioco con il Venezuela, dopo aver dato a Caracas, lo scorso settembre, tre mesi di tempo per ripristinare il rispetto dei diritti umani e la libertà di stampa. A margine di un incontro a Buenos Aires con il suo omologo uruguaiano, il presidente argentino Mauricio Macri era stato incisivo: “Così come vanno le cose, il Venezuela non può far parte del Mercosur e deve essere condannato da tutti i Paesi del continente e del mondo”. I membri del blocco economico sudamericano, sollecitati anche da alcune Ong venezuelane, hanno così discusso della violazione, da parte di Caracas, della “clausola democratica” prevista dal Protocollo di Ushuaia del 1998. Inoltre, il Venezuela non avrebbe adattato al suo ordinamento interno ben 238 norme facenti parte dell’acquis del Mercosur, tra cui la norma che garantiva la libera circolazione dei cittadini dei Paesi membri e il Protocollo di Asunción sul Compromesso con la Promozione e la Protezione dei Diritti Umani del 2005. L’accusa di violazione dei principi dell’organizzazione potrebbe andare ben oltre la sospensione in atto, aprendo le porte all’espulsione del Venezuela. L’adesione del presidente uruguaiano Tabaré Vásquez alla decisione di sospendere Caracas è stata ancora più importante, dato che era l’unico capo di stato del Mercosur che ancora faceva resistenze, per ragioni di politica interna, ad inquadrare il Venezuela come un regime antidemocratico. Per quanto riguarda gli altri partner sudamericani, Brasile e Paraguay hanno guidato l’efficace opposizione alle pretese di Maduro di conquistare la presidenza rotativa dell’organizzazione. Per la ministra degli Esteri venezuelana Delcy Rodriguez la sospensione - che Caracas si rifiuta di riconoscere - è una provocazione da parte di “burocrati che stanno distruggendo il Mercosur” che sono “compromessi con mandati imperiali”. La Rodriguez ha promesso che parteciperà ai prossimi vertici dell’organizzazione, pur non essendo invitata, ed eserciterà la presidenza “legittima”. Nell’ultimo vertice del Mercosul, tenutosi a Montevideo, la Rodriguez aveva personalmente “invaso” la sala dove si teneva la riunione, reclamando la presidenza e portando i rappresentanti di Brasile e Paraguai ad abbandonare la stanza. Al fianco del disastrato regime chávista restano appena i pochi e reticenti alleati bolivariani, come l’Ecuador e la Bolivia (associati al mercato unico sudamericano), oltre all’archeologico comunismo cubano. Il “golpe del referendum” Anche la decisione del Cne di sospendere il referendum revocatorio del mandato presidenziale era attesa. Tenere la consultazione popolare prima del prossimo 10 gennaio, come chiesto dalle opposizioni (le quali avevano adempiuto alle contorte esigenze legali ordite appositamente per ostacolare il voto), avrebbe senza dubbio portato alla fine anticipata del mandato di Maduro, così come indicato da tutti i sondaggi di opinione. Risultato al quale sarebbero seguite nuove elezioni, che avrebbero definitivamente tolto di mezzo il Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv), dopo 17 anni di disastrosa gestione del potere. Se il referendum dovesse quindi aver luogo dopo il 10 gennaio e il presidente dovesse perdere - eventualità per nulla scontata - sarebbe sostituito dal suo vice, Aristóbulo Istúriz, o da un altro personaggio indicato dallo stesso Maduro. E così il regime bolivariano si manterrà solido al comando del Venezuela. Cambiare tutto per non cambiare niente. Infine, non è escluso che il Cne possa semplicemente annullare il referendum. E a quel punto, fine dei giochi. La denuncia di golpe da parte del Parlamento definisce i fatti con esattezza. L’opposizione ha già fatto i primi passi per aprire il processo di impeachment di Maduro. Un’operazione tutt’altro che semplice. Il presidente, nell’ansia di sopravvivere a qualsiasi costo, utilizzerà sicuramente tutte le risorse a sua disposizione, così come già fatto più volte in passato. E se tutte le manovre dovessero fallire, l’erede di Chávez potrebbe fare appello alla sua ben addestrata militanza, che negli anni ha dato molte prove di ciò di cui è capace (da ultimo, la presa d’assalto del palazzo dell’Assemblea legislativa, il giorno dopo la denuncia del colpo di stato). Il referendum era l’ultimo percorso pacifico e legale che restava per un cambiamento di cui il Paese ha disperato bisogno per non cadere definitivamente nell’oscurità di una dittatura pura e semplice. Era l’ultima occasione per superare la profonda crisi economica e sociale in cui il chávismo ha immerso il Venezuela. A partire da questo momento, resta all’opposizione solo l’appello a manifestazioni popolari, alle quali ha già chiarito che non rinuncerà. La grande manifestazione del 26 ottobre e lo sciopero generale del 28, entrambi repressi con brutalità dalle milizie cháviste, ne sono una prova concreta. Il rischio di violenze tende solo ad aumentare. La mediazione vaticana Indipendentemente dal risultato della crisi attuale in Venezuela, nulla nel Paese sarà come prima. La mobilitazione popolare e la seguente repressione sottolineano ancora una volta il carattere autoritario del regime. Solo che questa volta non si torna indietro. Sarà impossibile convincere i venezuelani e la comunità internazionale delle “grandi virtù del processo bolivariano”: la maschera della rivoluzione chávista e di un governo solo teoricamente a servizio dei poveri è caduta. Il tentativo di papa Francesco di promuovere un dialogo tra Maduro e le opposizioni - con la mediazione del presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, monsignor Claudio Maria Celli, e del nunzio apostolico in Argentina, monsignor Emil Paul Tscherrig - potrebbe essere l’ultima possibilità di uscita pacifica da una crisi che ha seminato solo miseria e odio in Venezuela. Ma il curriculum di Maduro, nel quale il golpe del referendum è solo l’episodio più recente, non consente di alimentare questa speranza. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. | ||||||||
mercoledì 21 dicembre 2016
Venezuala: come uscire dalla crisi
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento