Usa 2016 Trump vs Hillary, una sfida nata dagli errori Giampiero Gramaglia 14/05/2016 |
E, adesso, non sanno se convertirsi a Donald Trump, sperando che riesca a conquistare la Casa Bianca, oppure boicottarlo, consegnando gli Stati Uniti a Hillary Rodham Clinton - 12 anni ‘democratici’ di fila, non accade dai tempi di Franklyn Delano Roosevelt.
Tra l’estate e l’autunno 2015, l’establishment del partito conservatore, di cui sempre si parla, senza che si sappia bene chi ne faccia parte, non capì che quell’ossesso dalla bazza rossa che diceva cose grossolane e sconvenienti, litigava con le giornaliste sul palco dei dibattiti in diretta televisiva, definiva i messicani stupratori e considerava i musulmani tutti indiziati di terrorismo, ma riempiva le arene per i suoi comizi e vinceva tutti i confronti, non era un fenomeno stagionale, ma rischiava di durare.
Perciò, gli hanno messo controfigure sbiadite, come Jeb Bush, o inesperte, come Marco Rubio, o ‘di risulta’, come John Kasich, che l’orco Trump s’è mangiato in un solo boccone; e, intanto, gli cresceva accanto un’alternativa persino peggiore, Ted Cruz, senatore del Texas, ultraconservatore, populista e - per fare buon peso - pure baciapile evangelico e antipatico che di più non si può.
Quando si sono finalmente convinti che il pericolo era reale, era tardi: la frittata era fatta. I notabili hanno cercato di tirare fuori un asso dalla manica, ma avevano solo ruote di scorta, per di più usate e neppure disponibili: Mitt Romney, candidato 2012, o Paul Ryan, speaker della Camera, dopo che l’opzione indipendente Michael Bloomberg era tramontata prima che si facesse alba. E l’ipotesi d’una convention aperta, dove cercare di rimescolare le carte, s’è rivelata impraticabile: gli elettori la consideravano alla stregua d’una truffa.
Adesso, è proprio finita
Così, fra i repubblicani, Trump è rimasto solo per i ritiri in sequenza, dopo le primarie nell’Indiana, dei rivali superstiti Cruz e Kasich - all’inizio, erano 17. Fra i democratici, la Clinton, pur perdendo nell’Indiana e poi in West Virginia, è ormai vicina alla garanzia aritmetica della nomination, che non può più sfuggirle: Bernie Sanders, il suo rivale, lo sa e lo riconosce, ma resta in corsa per incidere sulla piattaforma del partito alla convention.
La conta dei delegati indica che il magnate dell’immobiliare e l’ex first lady stanno per conquistare la maggioranza assoluta dei rispettivi delegati: in assoluto, allo showman ne mancano 102, a Hillary 144; in percentuale, il repubblicano è quasi al 92%, la democratica quasi al 96% - fra i democratici, i delegati sono quasi il doppio dei repubblicani.
E, uno dopo l’altro, i sondaggi nazionali indicano che Trump, sulla cresta dell’onda, è vicino, se non davanti, alla Clinton nelle intenzioni di voto degli americani, in caso di scontro fra i due all’Election Day l’8 novembre: un rilevamento Reuters/Ipsos attribuisce all’ex first lady il 41% delle preferenze e al magnate dell’immobiliare il 40%, con un 19% d’indecisi. Però, l’oscillazione dei dati desta perplessità sull'attendibilità dei risultati:alla verifica precedente, Hillary era 13 punti avanti.
Magagne e contrasti, nemici di sempre e amici dell’ultim’ora
Non tutto fila liscio per Trump: ha contro Ryan, che non gli ha ancora assicurato sostegno, mentre ha dalla sua il leader del partito al Senato, Mitch McConnell.
Inoltre, il presidente Barack Obama ammonisce “la presidenza non è un reality”; la Cia è diffidente all’idea di spartire con lui in briefing riservati i suoi segreti come vuole la prassi; il tentativo di fare la pace con gli ispanici mangiando tacos il ‘5 de Mayo’ fallisce, anzi innesca nuove polemiche; e la giustizia a San Diego e a New York ha nel mirino la sua Università dell’immobiliare - a novembre, dopo il voto, dovrà testimoniare.
E lui, forse per svincolarsi dall’assedio delle magagne, dà un saggio di quel che sarà la sua campagna: attacca Hillary perché è la moglie - e la complice - di Bill, ‘abusatore di donne’.
Intorno a Trump, è un via vai di gente che tiene le distanze o sale sul carro del vincitore. Il magnate minaccia di chiedere la rimozione di Ryan dalla presidenza della convention di luglio, se lo speaker continuerà a negargli l’appoggio. Ma, intanto, i due Bush presidenti, George H. e George W., padre e figlio, come pure Jeb, e anche Romney e, forse, John McCain fanno sapere che, loro, a Cleveland non ci andranno.
Intanto, lo showman affida al suo ex rivale Chris Christie, governatore del New Jersey, il compito di guidare la transizione, in caso di elezione. Christie, fra i primi notabili repubblicani a schierarsi con il magnate, dovrà cioè facilitare l’insediamento alla Casa Bianca e l’avvicendamento dello staff. Cruz non esclude un ticket con il magnate, Rick Perry si propone come vice, mentre Rubio, Kasich e altri rivali battuti ostentano distacco.
Dalla parte di Trump, continua ad esserci Sarah Palin, candidata alla vice-presidenza nel 2008, e critica dei critici dello showman - Ryan agirebbe solo per calcolo personale, volendosi candidare nel 2020 -, e s’è pure schierato Dick Cheney, il vice di Bush 2.
La volta delle prime volte
Se il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà ancora un democratico, sarà una donna, la prima, dopo che Barack Obama è stato il primo nero. Se sarà un repubblicano, sarà per la prima volta una persona che non ha mai affrontato un’elezione né gestito un ufficio pubblico.
Nell’Election Day, saranno di fronte due personalità e due vissuti profondamente diversi: una donna politica d’enorme esperienza, che è stata first lady, senatrice, candidata alla nomination nel 2008, segretario di Stato; e un imprenditore di successo senza esperienza politica, anzi un campione dell’anti-politica; una donna che non piace alle femministe e un uomo che spesso insulta le donne; una che pesa le parole e uno che si vanta di non farlo.
Per motivi diversi, entrambi sono a rischio d’inciampare in scheletri che escano dall’armadio o d’essere invischiati in inchieste sul loro operato: Hillary, ad esempio, per l’uso di mail private quand’era segretario di Stato; Donald per le disavventure dell’Università.
Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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