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venerdì 29 novembre 2013
Messico Peace Index 2013
martedì 26 novembre 2013
Stati Uniti: Bilateral Security Agreement BSA
Afghanistan
E’ stata convocata il 21 novembre la grande assemblea degli anziani (Loya Jirga), incaricata di discutere il testo del Bilateral Security Agreement (BSA), l’accordo tra Afghanistan e Stati Uniti che dovrebbe disciplinare la consistenza e lo status giuridico delle Forze Armate statunitensi nel Paese dopo il termine della missione ISAF, nel 2014. Se dovesse essere approvata la bozza proposta dal Presidente afghano Hamid Karzai, Washington potrà stanziare un contingente di circa 8.000-12.000 uomini, il quale godrà dell’immunità dalla giurisdizione locale e svolgerà funzioni prettamente di addestramento, assistenza e fornitura equipaggiamenti alle Forze Nazionali Afghane (ANSF). I colloqui tra Kabul e Washington riguardo il BSA si erano interrotti lo scorso giugno, in seguito all’impasse causato dall’apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha. La convocazione della Loya Jirga potreb! be ora portare alla stesura del testo definitivo, che dovrà, però, essere poi approvato dal Parlamento afghano. Nonostante Washington abbia espresso l’intenzione di concludere l’accordo entro la fine dell’anno, all’ultimo momento il Presidente Karzai ha avanzato l’ipotesi di posticipare la firma ad aprile, dopo le elezioni presidenziali, consegnando la questione, di fatto, alla nuova amministrazione.
sabato 23 novembre 2013
Messico. dal 28 novembre 2013 il nuovo Peace Index
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America Latina. Convegno Lunedi 25 novembre 2013 ore 09.00
La relazione strategica tra Italia e America Latina
Lunedì 25 novembre 2013 alle ore 9.00
Camera dei Deputati - Sala delle Colonne
Palazzo Marini, Via Poli 19, Roma
Le Conferenze Italia-America Latina, che si tengono con cadenza biennale, da dieci anni
rappresentano un rilevante momento di incontro e confronto, nonché un'occasione per il
consolidamento del forte legame sussistente tra le due parti, legame che affonda le proprie
radici in una variegata sfera di valori di ordine storico e culturale. Attraverso tale strumento di
politica estera l'Italia ha colto l'opportunità di trarre significativi benefici da una politica di
collaborazione con i Paesi dell'area latinoamericana e caraibica, e ciò non solo per le questioni
inerenti i rapporti politico-istituzionali, ma anche per la definizione di un quadro ancor più
favorevole allo sviluppo di rapporti economico-commerciali e di iniziative imprenditoriali.
La VI° edizione della Conferenza si terrà quest'autunno a Roma nelle giornate del 12 e 13
dicembre e avrà come tema centrale lo sviluppo territoriale sostenibile, declinato nella sua
dimensione economica, sociale e ambientale. L'appuntamento rappresenterà un'utile occasione
per garantire la giusta continuità ad un rapporto dal grande potenziale ancora inesplorato,
un'opportunità per la cooperazione con le piccole e medie imprese italiane, nonché il momento
per la presentazione dell’Expo 2015, cui è prevista la massiccia partecipazione dei partner
latino americani.
L'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), in vista di questo
significativo momento di grande interesse per la Politica Estera del nostro Paese, ha voluto
organizzare un incontro per fare il punto sulla relazione strategica tra Italia e America Latina.
Per partecipare all'evento è necessario registrarsi scrivendo a
eventi@istituto-geopolitica.eu,
indicando nome, cognome, indirizzo e-mail di ciascun partecipante. L'accettazione è subordinata
alla disponibilità di posti. Non saranno accettate registrazioni oltre le ore 12 del 21 novembre.
USA: il difficile rapporto con il Pakistan
Usa-Pakistan, alleanza a rischio sabotaggio Daniele Grassi 14/11/2013 |
Il recente avvicendamento ai vertici del gruppo terroristico “Tehreek-e-Taliban Pakistan” (Ttp) sembra allontanare l'ipotesi di negoziati con il governo. Tornano in discussione le relazioni con gli Stati Uniti, accusati di aver sabotato il nascente dialogo di pace, ma la crisi economica costringe Islamabad ad evitare la rottura.
Nuovi vertici
Il primo novembre, l'attacco di un drone americano ha provocato la morte di Hakimullah Mehsud, leader del Ttp dal 2009. Gli è subentrato il Mullah Fazlullah, a capo dei talebani nella valle dello Swat (Khyber Pakhtunkhwa), noto alle cronache per aver ordinato l'uccisione della giovane attivista Malala Yousufzai. Non trattandosi di un esponente della tribù Mehsud, zoccolo duro del movimento, la sua nomina ha destato sorpresa, evidenziando il persistere di profonde divisioni all'interno del Ttp.
Sebbene il movimento mantenga buone capacità operative - nel mese di settembre si è registrato un record di vittime per attacchi terroristici di oltre 490 - la nomina di Fazlullah potrebbe accelerare le dinamiche centrifughe già in atto. Ulteriori dubbi sulle capacità di Fazlullah di esercitare un effettivo controllo sul gruppo derivano dal fatto che non vive in Pakistan, ma nella provincia afghana del Nuristan. Questo potrebbe consentire ad altri elementi del Ttp di sottrarsi alla sua leadership, mettendo a forte rischio l'unità del gruppo.
Tale elemento rischia anche di complicare ulteriormente le relazioni tra Islamabad e Kabul. Le autorità pakistane, infatti, hanno già in passato accusato l'Afghanistan di sostenere il Ttp. Il rischio è di portare le tensioni tra due paesi su livelli molto elevati, riducendo ulteriormente le possibilità di successo dei negoziati con i talebani afghani.
Ambiguità
All'indomani della sua nomina, il Mullah Fazlullah ha respinto ogni ipotesi di dialogo con il governo, in ragione della presunta subalternità delle autorità pakistane rispetto agli Stati Uniti.
Il raid del primo novembre ha creato non poche difficoltà all'esecutivo di Islamabad, la cui agenda politica conteneva i negoziati con il Ttp tra i suoi punti principali.
Esso inoltre, è giunto a poca distanza dalla visita alla Casa Bianca del premier Nawaz Sharif, evento in occasione del quale questi aveva chiesto agli Stati Uniti l’interruzione degli attacchi con i droni in territorio pakistano. La dura reazione del governo all'operazione Usa rappresentava, dunque, un atto necessario a salvaguardarne la legittimità e l'autorevolezza agli occhi dell'opinione pubblica, oltre che a mettersi al riparo dagli inevitabili attacchi di alcune forze di opposizione.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, sorgono, tuttavia, alcuni dubbi circa la reale posizione del governo di Islamabad. Con l’avvicinarsi delle operazioni di ritiro dall’Afghanistan riesce infatti difficile pensare che l’amministrazione Obama possa aver trascurato di considerare la chiusura dei valichi come possibile azione di rappresaglia da parte di Islamabad (come avvenuto nel 2011, in seguito all'uccisione di Osama bin-Laden).
Sebbene il Ttp sia considerato un potenziale rischio per la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti e si sia in passato reso protagonista di attacchi contro i suoi cittadini in Afghanistan, l’operazione del primo novembre non sembra paragonabile - in termini di ripercussioni sul piano operativo e, soprattutto, mediatico - al raid contro l’allora capo di al-Qaeda. La Casa Bianca, dunque, potrebbe aver ricevuto una qualche rassicurazione dalle autorità pakistane. Il silenzio dei militari - da sempre scettici di fronte all'ipotesi di negoziati con i talebani - sembrerebbe avvalorare tale ipotesi.
Toni propagandistici
In ogni caso, la dipendenza del Pakistan dagli aiuti economici internazionali appare attualmente troppo forte perché si possa prendere in seria considerazione l’ipotesi di una rottura dell’alleanza con gli Stati Uniti. Di recente, il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un accordo con il Pakistan per la concessione di un prestito di oltre sei miliardi di dollari, necessario al paese per alleviare la gravissima crisi economica che sta attraversando.
Un recente sondaggio mostra come la popolazione pakistana sia molto più preoccupata dalla crisi energetica (e dalle sue ripercussioni sul settore industriale) che dal terrorismo. Sembra, dunque, esserci ben poco spazio di manovra per il governo di Sharif.
L’attacco del primo novembre potrebbe offrire una importante opportunità alle autorità pakistane. Queste potrebbero optare per una generale ridefinizione della strategia di contrasto al terrorismo, ma dovrebbero rinunciare ai toni propagandistici sin qui utilizzati.
Ciononostante, la retorica affermatasi negli ultimi giorni (il leader defunto del Ttp è stato da più parti definito un martire) non è incoraggiante. Evidenzia piuttosto la debolezza di una classe politica ancora incapace di sganciarsi dai vecchi paradigmi strategici e di trovare nuove strade di sviluppo per il paese.
Daniele Grassi lavora come security analyst per Infocert.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2457#sthash.rOqrmH2g.dpuf
Nuovi vertici
Il primo novembre, l'attacco di un drone americano ha provocato la morte di Hakimullah Mehsud, leader del Ttp dal 2009. Gli è subentrato il Mullah Fazlullah, a capo dei talebani nella valle dello Swat (Khyber Pakhtunkhwa), noto alle cronache per aver ordinato l'uccisione della giovane attivista Malala Yousufzai. Non trattandosi di un esponente della tribù Mehsud, zoccolo duro del movimento, la sua nomina ha destato sorpresa, evidenziando il persistere di profonde divisioni all'interno del Ttp.
Sebbene il movimento mantenga buone capacità operative - nel mese di settembre si è registrato un record di vittime per attacchi terroristici di oltre 490 - la nomina di Fazlullah potrebbe accelerare le dinamiche centrifughe già in atto. Ulteriori dubbi sulle capacità di Fazlullah di esercitare un effettivo controllo sul gruppo derivano dal fatto che non vive in Pakistan, ma nella provincia afghana del Nuristan. Questo potrebbe consentire ad altri elementi del Ttp di sottrarsi alla sua leadership, mettendo a forte rischio l'unità del gruppo.
Tale elemento rischia anche di complicare ulteriormente le relazioni tra Islamabad e Kabul. Le autorità pakistane, infatti, hanno già in passato accusato l'Afghanistan di sostenere il Ttp. Il rischio è di portare le tensioni tra due paesi su livelli molto elevati, riducendo ulteriormente le possibilità di successo dei negoziati con i talebani afghani.
Ambiguità
All'indomani della sua nomina, il Mullah Fazlullah ha respinto ogni ipotesi di dialogo con il governo, in ragione della presunta subalternità delle autorità pakistane rispetto agli Stati Uniti.
Il raid del primo novembre ha creato non poche difficoltà all'esecutivo di Islamabad, la cui agenda politica conteneva i negoziati con il Ttp tra i suoi punti principali.
Esso inoltre, è giunto a poca distanza dalla visita alla Casa Bianca del premier Nawaz Sharif, evento in occasione del quale questi aveva chiesto agli Stati Uniti l’interruzione degli attacchi con i droni in territorio pakistano. La dura reazione del governo all'operazione Usa rappresentava, dunque, un atto necessario a salvaguardarne la legittimità e l'autorevolezza agli occhi dell'opinione pubblica, oltre che a mettersi al riparo dagli inevitabili attacchi di alcune forze di opposizione.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, sorgono, tuttavia, alcuni dubbi circa la reale posizione del governo di Islamabad. Con l’avvicinarsi delle operazioni di ritiro dall’Afghanistan riesce infatti difficile pensare che l’amministrazione Obama possa aver trascurato di considerare la chiusura dei valichi come possibile azione di rappresaglia da parte di Islamabad (come avvenuto nel 2011, in seguito all'uccisione di Osama bin-Laden).
Sebbene il Ttp sia considerato un potenziale rischio per la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti e si sia in passato reso protagonista di attacchi contro i suoi cittadini in Afghanistan, l’operazione del primo novembre non sembra paragonabile - in termini di ripercussioni sul piano operativo e, soprattutto, mediatico - al raid contro l’allora capo di al-Qaeda. La Casa Bianca, dunque, potrebbe aver ricevuto una qualche rassicurazione dalle autorità pakistane. Il silenzio dei militari - da sempre scettici di fronte all'ipotesi di negoziati con i talebani - sembrerebbe avvalorare tale ipotesi.
Toni propagandistici
In ogni caso, la dipendenza del Pakistan dagli aiuti economici internazionali appare attualmente troppo forte perché si possa prendere in seria considerazione l’ipotesi di una rottura dell’alleanza con gli Stati Uniti. Di recente, il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un accordo con il Pakistan per la concessione di un prestito di oltre sei miliardi di dollari, necessario al paese per alleviare la gravissima crisi economica che sta attraversando.
Un recente sondaggio mostra come la popolazione pakistana sia molto più preoccupata dalla crisi energetica (e dalle sue ripercussioni sul settore industriale) che dal terrorismo. Sembra, dunque, esserci ben poco spazio di manovra per il governo di Sharif.
L’attacco del primo novembre potrebbe offrire una importante opportunità alle autorità pakistane. Queste potrebbero optare per una generale ridefinizione della strategia di contrasto al terrorismo, ma dovrebbero rinunciare ai toni propagandistici sin qui utilizzati.
Ciononostante, la retorica affermatasi negli ultimi giorni (il leader defunto del Ttp è stato da più parti definito un martire) non è incoraggiante. Evidenzia piuttosto la debolezza di una classe politica ancora incapace di sganciarsi dai vecchi paradigmi strategici e di trovare nuove strade di sviluppo per il paese.
Daniele Grassi lavora come security analyst per Infocert.
mercoledì 13 novembre 2013
Stati Uniti: relazioni con l'Arabia Saudita
Arabia Saudita
Il viaggio del Segretario di Stato statunitense John Kerry in Arabia Saudita, nell’ambito di un lungo tour mediorientale, mira a riaffermare la natura strategica delle relazioni USA-Arabia Saudita, come dichiarato dal portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki. L’alleanza, infatti, si è incrinata negli ultimi mesi a causa della timida apertura di Washington a Teheran, storico nemico di Riyadh, e per la diversità di vedute sulla gestione del dossier siriano. La guerra civile in Siria, infatti, riflette le tensioni tra sauditi e iraniani, che dietro lo scontro confessionale tra wahhabismo e sciismo nascondono mire egemoniche regionali. L’Arabia Saudita,! delusa dall’abbandono del piano di un attacco militare contro Damasco da parte della Casa Bianca, continua a sostenere l’intervento armato in Siria e lo scorso 18 ottobre ha persino rifiutato il seggio di membro non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per l’incapacità della comunità internazionale di trovare una soluzione al conflitto siriano. I rapporti tra Washington e Riyadh si erano già raffreddati a causa del diverso atteggiamento dei due alleati verso il golpe militare in Egitto, appoggiato dai sauditi ma accolto con titubanza dagli statunitensi. Anche la telefonata del 27 settembre scorso tra il Presidente Obama e Rouhani, primo contatto USA-Iran dal 1979, non è stata gradita dall’Arabia Saudita, impegnata nel contenimento dell’espansionismo di Teheran. Obiettivo di Kerry, dunque, è quello di rassicurare lo storico alleato sull’impegno statunitense nel containment iraniano e sulla risoluzione della crisi siriana.
Kerry: una influenza positiva
Israele
Mercoledì 30 ottobre le autorità israeliane hanno rilasciato 26 prigionieri palestinesi detenuti nella prigione di Ofer, che erano stati condannati all’ergastolo per l’omicidio di cittadini israeliani compiuti tra gli anni ’80 e ’90. È stato il secondo gruppo di detenuti liberato nell’arco di tre mesi, come parte di un piano di più ampio respiro, iniziato ad agosto, che dovrebbe portare alla liberazione di 104 prigionieri nei prossimi mesi. Il progetto di scarcerazione, infatti, era stato deciso dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu lo scorso 30 luglio, in occasione dell’incontro con il Segretario di Stato John Kerry per il rilancio del processo di pace tra Israele e Palestina. Le aperture di Netanyahu hanno suscitato dure critiche tra le frange più conservatrici dello spettro politico israeliano, che hanno visto la decisione del Primo Ministro come una potenziale minaccia per la sicurezza di Israele. La liberazione dei prigioni! eri, infatti, era dovuta passare attraverso il rigetto da parte della Corte Costituzionale dell’appello presentato dai familiari delle vittime nelle scorse settimane. Nonostante il dichiarato interesse per portare avanti i preparativi per l’istituzione di un tavolo di trattativa, un effettivo progresso per la riapertura dei negoziati sembra scontrarsi con la necessità del Primo Ministro israeliano di mediare tra i gesti, seppur simbolici, di apertura nei confronti del governo palestinese e la strenua opposizione della destra conservatrice di Tel Aviv. L’annuncio di ulteriori 1.500 insediamenti nell’area di Rabat Shlomo, in Cisgiordania, giunto a poche ore dalla liberazione dei 26 prigionieri sembrerebbe, di fatto, rispondere ad una logica di compensazione delle concessioni fatte al governo palestinese che, sebbene sia necessaria a Netanyahu per non alienarsi il sostegno politico interno, rappresenta, di fatto, l’ostacolo principale ad una rapida ripresa del processo! di pace.
sabato 2 novembre 2013
Argentina: elezioni parziali
Elezioni in Argentina Cristina Kirchner come il suo futuro, malata e compromessa Carlo Cauti 23/10/2013 |
Il prossimo 27 ottobre gli argentini saranno chiamati alle urne per rinnovare un terzo del Senato e metà della Camera dei Deputati. Le elezioni si svolgeranno in un clima di apprensione per le condizioni di salute della presidente Cristina Kirchner, sottoposta l’8 ottobre ad un’operazione chirurgica per ritirare un ematoma celebrale, provocato da un trauma cranico.
Nessuna eternità
Quando Néstor Kirchner morì nel 2010, l’onda emotiva popolare favorì la rielezione alla presidenza di sua moglie Cristina, la cui popolarità in quel momento era piuttosto bassa. Questa volta, tuttavia, la preoccupazione per lo stato di salute della presidente non influenzerà il risultato delle consultazioni.
Secondo i sondaggi elettorali, la coalizione kirchnerista, il Fronte per la vittoria, dovrebbe subire una pesante sconfitta, attestandosi a circa il 26% delle preferenze. Meno della metà dei voti ottenuti nelle elezioni del 2011.
L’immagine della Kirchner è ormai compromessa. Tralasciando i continui scandali di corruzione, le proposte di modifiche della costituzione per permettere rielezioni illimitate (il progetto chiamato “Cristina eterna”) e lo stile irruente della presidente che hanno indisposto gli elettori, il principale problema per gli argentini è senza dubbio l’inflazione, provocata da scelte di politica economica quantomeno discutibili.
Mercato nero
L’aumento dei prezzi è stimato intorno al 30% annuo, un dato che il governo si ostina a negare, indicando “soltanto” un 10% di incremento. Questo tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto non cancella i pesanti effetti negativi sul reddito reale di cittadini, che riverseranno nelle urne la loro frustrazione.
Per cercare di domare l’inflazione, la Banca centrale argentina ha iniziato una politica di difesa artificiale del tasso di cambio del peso con il dollaro, dissanguando in questo modo le riserve valutarie, piombate a 34,7 miliardi di dollari, il valore più basso degli ultimi sei anni.
Allo stesso tempo il governo ha limitato rigidamente la capacità di acquisto e di circolazione di dollari da parte della popolazione, con la naturale conseguente nascita di un florido mercato nero valutario.
Infine, la credibilità dell’esecutivo è ulteriormente minata dalla mancanza di linearità dei provvedimenti adottati. Ad esempio, mentre i contribuenti argentini sono perseguitati dal fisco, il governo ha varato un’ampia amnistia tributaria per tutti i cittadini detentori di conti correnti esteri non dichiarati e denominati in dollari.
Superpoteri economici
In previsione della debacle elettorale, la coalizione kirchnerista ha già dato inizio alle grandi manovre per tentare di limitare i danni. Il 9 ottobre il Congresso ha infatti prorogato la “legge dei superpoteri economici” fino al 21 dicembre 2015, undici giorni dopo la fine del mandato presidenziale.
Questa norma aumenta considerevolmente il potere del governo, permettendogli, tra le altre cose, di creare nuove tasse, modificare la legge di bilancio senza consultare il Congresso e decidere il prezzo di svariati beni e servizi. Immediatamente dopo l’approvazione della legge, il prezzo del combustibili sono stati congelati per 45 giorni.
Oltre alla “legge dei superpoteri economici”, nella stessa seduta il Congresso ha approvato un aumento di 19,2% delle spese pubbliche. Un tentativo assai poco discreto di ammorbidire gli animi degli argentini e cercare di preparare il terreno per la campagna presidenziale del successore politico della Kirchner, peraltro non ancora individuato.
L’effetto immediato di queste decisioni di politica economica tipicamente argentina è stato spaventare la classe imprenditoriale, peraltro già molto preoccupata dall’assenza della Kirchner dalla Casa Rosada a causa dell’operazione chirurgica. L’assoluto riposo imposto dai medici alla presidente per 45 giorni ha portato il suo vice, Amado Boudou, al comando del Paese.
Con una fama di playboy e accusato di corruzione in cinque processi attualmente in svolgimento, il curriculum di questo ex-ministro dell’economia spicca per altre due ragioni: è stato lui a progettare la re-statalizzazione della previdenza sociale argentina - garantendo così ai Kirchner un “tesoretto” da 25 miliardi di dollari - ed è indicato da più parti come l’amante della presidente. Entrambi i fattori avrebbero permesso la sua repentina ascesa al potere, garantendogli peraltro, secondo i sondaggi, l’astio dell’80% degli argentini.
Opposizioni divise
Ma se i kirchneristi piangono, le opposizioni non ridono. I partiti che in teoria dovrebbero godere di una schiacciate maggioranza elettorale, non riescono tuttavia a organizzarsi in una coalizione compatta, continuando ad essere polverizzate in una miriade di sigle politiche.
I principali avversari del Fronte per la vittoria sono l’Unione civica radicale, il gruppo peronista dissidente e la Proposta repubblicana. Le previsioni di voto indicano che nessuna di queste dovrebbe arrivare al 25% dei voti.
Le elezioni legislative di ottobre porteranno probabilmente ad una sconfitta del kirchnerismo e ad un riassetto degli equilibri politici argentini. Allo stesso tempo, però, il rischio è che le urne generino un Congresso frammentato e ingovernabile.
Con una presidente indebolita politicamente e fisicamente, i due anni che mancano alla fine del mandato potrebbero risultare ancora più travagliati di quelli già trascorsi. Per un paese che da dodici anni vive in piena convulsione economica, non è un’ottima prospettiva.
Carlo Cauti è un giornalista della testata brasiliana O Estado de S.Paulo.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2442#sthash.qAPHr7xN.dpuf
Nessuna eternità
Quando Néstor Kirchner morì nel 2010, l’onda emotiva popolare favorì la rielezione alla presidenza di sua moglie Cristina, la cui popolarità in quel momento era piuttosto bassa. Questa volta, tuttavia, la preoccupazione per lo stato di salute della presidente non influenzerà il risultato delle consultazioni.
Secondo i sondaggi elettorali, la coalizione kirchnerista, il Fronte per la vittoria, dovrebbe subire una pesante sconfitta, attestandosi a circa il 26% delle preferenze. Meno della metà dei voti ottenuti nelle elezioni del 2011.
L’immagine della Kirchner è ormai compromessa. Tralasciando i continui scandali di corruzione, le proposte di modifiche della costituzione per permettere rielezioni illimitate (il progetto chiamato “Cristina eterna”) e lo stile irruente della presidente che hanno indisposto gli elettori, il principale problema per gli argentini è senza dubbio l’inflazione, provocata da scelte di politica economica quantomeno discutibili.
Mercato nero
L’aumento dei prezzi è stimato intorno al 30% annuo, un dato che il governo si ostina a negare, indicando “soltanto” un 10% di incremento. Questo tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto non cancella i pesanti effetti negativi sul reddito reale di cittadini, che riverseranno nelle urne la loro frustrazione.
Per cercare di domare l’inflazione, la Banca centrale argentina ha iniziato una politica di difesa artificiale del tasso di cambio del peso con il dollaro, dissanguando in questo modo le riserve valutarie, piombate a 34,7 miliardi di dollari, il valore più basso degli ultimi sei anni.
Allo stesso tempo il governo ha limitato rigidamente la capacità di acquisto e di circolazione di dollari da parte della popolazione, con la naturale conseguente nascita di un florido mercato nero valutario.
Infine, la credibilità dell’esecutivo è ulteriormente minata dalla mancanza di linearità dei provvedimenti adottati. Ad esempio, mentre i contribuenti argentini sono perseguitati dal fisco, il governo ha varato un’ampia amnistia tributaria per tutti i cittadini detentori di conti correnti esteri non dichiarati e denominati in dollari.
Superpoteri economici
In previsione della debacle elettorale, la coalizione kirchnerista ha già dato inizio alle grandi manovre per tentare di limitare i danni. Il 9 ottobre il Congresso ha infatti prorogato la “legge dei superpoteri economici” fino al 21 dicembre 2015, undici giorni dopo la fine del mandato presidenziale.
Questa norma aumenta considerevolmente il potere del governo, permettendogli, tra le altre cose, di creare nuove tasse, modificare la legge di bilancio senza consultare il Congresso e decidere il prezzo di svariati beni e servizi. Immediatamente dopo l’approvazione della legge, il prezzo del combustibili sono stati congelati per 45 giorni.
Oltre alla “legge dei superpoteri economici”, nella stessa seduta il Congresso ha approvato un aumento di 19,2% delle spese pubbliche. Un tentativo assai poco discreto di ammorbidire gli animi degli argentini e cercare di preparare il terreno per la campagna presidenziale del successore politico della Kirchner, peraltro non ancora individuato.
L’effetto immediato di queste decisioni di politica economica tipicamente argentina è stato spaventare la classe imprenditoriale, peraltro già molto preoccupata dall’assenza della Kirchner dalla Casa Rosada a causa dell’operazione chirurgica. L’assoluto riposo imposto dai medici alla presidente per 45 giorni ha portato il suo vice, Amado Boudou, al comando del Paese.
Con una fama di playboy e accusato di corruzione in cinque processi attualmente in svolgimento, il curriculum di questo ex-ministro dell’economia spicca per altre due ragioni: è stato lui a progettare la re-statalizzazione della previdenza sociale argentina - garantendo così ai Kirchner un “tesoretto” da 25 miliardi di dollari - ed è indicato da più parti come l’amante della presidente. Entrambi i fattori avrebbero permesso la sua repentina ascesa al potere, garantendogli peraltro, secondo i sondaggi, l’astio dell’80% degli argentini.
Opposizioni divise
Ma se i kirchneristi piangono, le opposizioni non ridono. I partiti che in teoria dovrebbero godere di una schiacciate maggioranza elettorale, non riescono tuttavia a organizzarsi in una coalizione compatta, continuando ad essere polverizzate in una miriade di sigle politiche.
I principali avversari del Fronte per la vittoria sono l’Unione civica radicale, il gruppo peronista dissidente e la Proposta repubblicana. Le previsioni di voto indicano che nessuna di queste dovrebbe arrivare al 25% dei voti.
Le elezioni legislative di ottobre porteranno probabilmente ad una sconfitta del kirchnerismo e ad un riassetto degli equilibri politici argentini. Allo stesso tempo, però, il rischio è che le urne generino un Congresso frammentato e ingovernabile.
Con una presidente indebolita politicamente e fisicamente, i due anni che mancano alla fine del mandato potrebbero risultare ancora più travagliati di quelli già trascorsi. Per un paese che da dodici anni vive in piena convulsione economica, non è un’ottima prospettiva.
Carlo Cauti è un giornalista della testata brasiliana O Estado de S.Paulo.
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