Medio Oriente I rischi della strategia di Obama contro lo Stato islamico Roberto Iannuzzi 13/09/2014 |
Raid Usa e coalizione internazionale
L’ingrediente militare nella strategia Usa appare ancora una volta preponderante, sebbene non si preveda l’invio di truppe occidentali sul terreno. A combattere l’Is dovrebbero essere infatti forze regionali e locali: i peshmerga del Kurdistan iracheno, l’esercito e le milizie sciite del governo di Baghdad, le tribù sunnite irachene (attualmente in gran parte schierate con l’Is), e i ribelli “moderati” in Siria.
Tali forze saranno sostenute dai raid aerei statunitensi e sostenute a livello logistico da una coalizione internazionale formata da due componenti principali: una transatlantica (paesi Nato) e una mediorientale (dominata dalle monarchie del Golfo).
Un governo inclusivo a Baghdad, la cui formazione è stata recentemente ufficializzata, dovrebbe fornire una risposta soddisfacente alle rivendicazioni curde e sunnite. Dovrebbe in particolare incoraggiare le tribù sunnite irachene a ribellarsi all’Is, come già avevano fatto con Al-Qaeda in Iraq nel 2007.
Una simile strategia comporta però rischi molto elevati, poiché non tiene conto di numerosi fattori.
Tendenze centrifughe irachene
In primo luogo, il nuovo governo iracheno non costituisce una vera rottura con il passato. Molti dei suoi membri avevano già fatto parte dei precedenti esecutivi. Inoltre, i due ministeri chiave della difesa e degli interni sono rimasti per il momento vacanti, mentre i curdi hanno minacciato fino all’ultimo di boicottare il nuovo esecutivo. Ciò non lascia ben sperare per il futuro.
Malgrado le promesse di dialogo con sunniti e curdi enunciate dal nuovo premier sciita Haider Al-Abadi, il ricorso sul terreno a milizie sciite contro l’Is rischia di esacerbare le tensioni settarie invece di appianarle. Lo Stato islamico si è già dimostrato abilissimo nello sfruttare tali tensioni a proprio vantaggio.
Analogamente, la scelta occidentale di armare le milizie curde, in presenza di contrasti irrisolti fra Erbil e il governo di Baghdad riguardo agli introiti petroliferi e alla città contesa di Kirkuk, rischia di incoraggiare le tendenze centrifughe nel paese.
Coalizione fragile e contraddittoria
In secondo luogo, la coalizione che Obama sta mettendo insieme è costituita - soprattutto nella sua componente mediorientale - da paesi spesso accomunati unicamente dall’ostilità nei confronti dell’Is.
Il fronte sunnita è lacerato dal contrasto regionale che ruota attorno ai Fratelli Musulmani. Tale contrasto vede Qatar e Turchia, sostenitori della Fratellanza, opporsi ad Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto.
Ankara, unico paese musulmano che già durante il vertice Nato si è alleata alla colazione, nutre ambizioni “neo-ottomane” sul Kurdistan iracheno, attirata soprattutto dalle risorse energetiche di quest’ultimo, ed ha tacitamente appoggiato la ribellione sunnita in Iraq, pur dichiarandosi ufficialmente ostile all’Is.
Vi è poi la questione della “convergenza di fatto” fra Washington e Teheran nella lotta contro lo Stato Islamico. Tale convergenza alimenta la diffidenza dei paesi sunniti guidati dall’Arabia Saudita.
Questa tacita intesa è ad ogni modo destinata a breve vita, se Obama terrà fede alla sua promessa di rafforzare i ribelli “moderati” in Siria, in primo luogo contro l’Is, ma anche contro il regime di Damasco alleato di Teheran.
Essendo nota l’intenzione di rovesciare Assad da parte di Riyadh, la recente notizia che questi ribelli saranno addestrati in territorio saudita inevitabilmente susciterà la dura reazione di Iran e Russia. Ciò potrebbe aggravare ulteriormente il già drammatico conflitto siriano, e riacutizzare le tensioni internazionali che vi ruotano attorno.
A ciò si aggiunga che già in passato è stata dimostrata l’esistenza di un processo di “osmosi” - che include il passaggio di uomini e armi - fra ribelli “moderati” e gruppi estremisti come l’Is in Siria.
Medio Oriente fertile per gli estremisti
In generale, la strategia americana non sembra tener conto del fatto che l’Is è solo un sintomo, e non la causa, della situazione catastrofica in cui versa il mondo arabo. Tale situazione è il risultato di decenni di politiche fallimentari nella regione.
L’autoritarismo dei regimi arabi, la corruzione, l’assenza di libertà e di giustizia sociale, ma anche le ininterrotte ingerenze straniere e i continui conflitti regionali, hanno creato un terreno fertile per l’ascesa di gruppi estremisti come l’Is.
Sono queste le cause che devono essere affrontate, attraverso trattative diplomatiche regionali e riforme politico-economiche, prima ancora che con strumenti militari. Altrimenti, non solo la guerra allo Stato Islamico è destinata a fallire, ma il Medio Oriente sprofonderà sempre più in una spirale di crisi e di conflitti.
La posta in gioco è enorme: l’integrità territoriale di paesi come Siria e Iraq, gli approvvigionamenti energetici per l’Occidente e la stabilità politica ed economica del pianeta.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di recente pubblicazione.