Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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martedì 23 settembre 2014

USA: andiamo incontro ad un altra sconfitta?

Medio Oriente
I rischi della strategia di Obama contro lo Stato islamico
Roberto Iannuzzi
13/09/2014
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La strategia per combattere lo Stato islamico (Is) del presidente Barack Obama si fonda su tre pilastri: la creazione di una coalizione internazionale contro l’Is, l’appoggio a un governo inclusivo in Iraq, e un’azione mirata in Siria, volta a indebolire la presenza del Califfato e a rafforzare l’opposizione “moderata” al regime di Bashar Al-Assad.

Raid Usa e coalizione internazionale
L’ingrediente militare nella strategia Usa appare ancora una volta preponderante, sebbene non si preveda l’invio di truppe occidentali sul terreno. A combattere l’Is dovrebbero essere infatti forze regionali e locali: i peshmerga del Kurdistan iracheno, l’esercito e le milizie sciite del governo di Baghdad, le tribù sunnite irachene (attualmente in gran parte schierate con l’Is), e i ribelli “moderati” in Siria.

Tali forze saranno sostenute dai raid aerei statunitensi e sostenute a livello logistico da una coalizione internazionale formata da due componenti principali: una transatlantica (paesi Nato) e una mediorientale (dominata dalle monarchie del Golfo).

Un governo inclusivo a Baghdad, la cui formazione è stata recentemente ufficializzata, dovrebbe fornire una risposta soddisfacente alle rivendicazioni curde e sunnite. Dovrebbe in particolare incoraggiare le tribù sunnite irachene a ribellarsi all’Is, come già avevano fatto con Al-Qaeda in Iraq nel 2007.

Una simile strategia comporta però rischi molto elevati, poiché non tiene conto di numerosi fattori.

Tendenze centrifughe irachene
In primo luogo, il nuovo governo iracheno non costituisce una vera rottura con il passato. Molti dei suoi membri avevano già fatto parte dei precedenti esecutivi. Inoltre, i due ministeri chiave della difesa e degli interni sono rimasti per il momento vacanti, mentre i curdi hanno minacciato fino all’ultimo di boicottare il nuovo esecutivo. Ciò non lascia ben sperare per il futuro.

Malgrado le promesse di dialogo con sunniti e curdi enunciate dal nuovo premier sciita Haider Al-Abadi, il ricorso sul terreno a milizie sciite contro l’Is rischia di esacerbare le tensioni settarie invece di appianarle. Lo Stato islamico si è già dimostrato abilissimo nello sfruttare tali tensioni a proprio vantaggio.

Analogamente, la scelta occidentale di armare le milizie curde, in presenza di contrasti irrisolti fra Erbil e il governo di Baghdad riguardo agli introiti petroliferi e alla città contesa di Kirkuk, rischia di incoraggiare le tendenze centrifughe nel paese.

Coalizione fragile e contraddittoria
In secondo luogo, la coalizione che Obama sta mettendo insieme è costituita - soprattutto nella sua componente mediorientale - da paesi spesso accomunati unicamente dall’ostilità nei confronti dell’Is.

Il fronte sunnita è lacerato dal contrasto regionale che ruota attorno ai Fratelli Musulmani. Tale contrasto vede Qatar e Turchia, sostenitori della Fratellanza, opporsi ad Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto.

Ankara, unico paese musulmano che già durante il vertice Nato si è alleata alla colazione, nutre ambizioni “neo-ottomane” sul Kurdistan iracheno, attirata soprattutto dalle risorse energetiche di quest’ultimo, ed ha tacitamente appoggiato la ribellione sunnita in Iraq, pur dichiarandosi ufficialmente ostile all’Is.

Vi è poi la questione della “convergenza di fatto” fra Washington e Teheran nella lotta contro lo Stato Islamico. Tale convergenza alimenta la diffidenza dei paesi sunniti guidati dall’Arabia Saudita.

Questa tacita intesa è ad ogni modo destinata a breve vita, se Obama terrà fede alla sua promessa di rafforzare i ribelli “moderati” in Siria, in primo luogo contro l’Is, ma anche contro il regime di Damasco alleato di Teheran.

Essendo nota l’intenzione di rovesciare Assad da parte di Riyadh, la recente notizia che questi ribelli saranno addestrati in territorio saudita inevitabilmente susciterà la dura reazione di Iran e Russia. Ciò potrebbe aggravare ulteriormente il già drammatico conflitto siriano, e riacutizzare le tensioni internazionali che vi ruotano attorno.

A ciò si aggiunga che già in passato è stata dimostrata l’esistenza di un processo di “osmosi” - che include il passaggio di uomini e armi - fra ribelli “moderati” e gruppi estremisti come l’Is in Siria.

Medio Oriente fertile per gli estremisti
In generale, la strategia americana non sembra tener conto del fatto che l’Is è solo un sintomo, e non la causa, della situazione catastrofica in cui versa il mondo arabo. Tale situazione è il risultato di decenni di politiche fallimentari nella regione.

L’autoritarismo dei regimi arabi, la corruzione, l’assenza di libertà e di giustizia sociale, ma anche le ininterrotte ingerenze straniere e i continui conflitti regionali, hanno creato un terreno fertile per l’ascesa di gruppi estremisti come l’Is.

Sono queste le cause che devono essere affrontate, attraverso trattative diplomatiche regionali e riforme politico-economiche, prima ancora che con strumenti militari. Altrimenti, non solo la guerra allo Stato Islamico è destinata a fallire, ma il Medio Oriente sprofonderà sempre più in una spirale di crisi e di conflitti.

La posta in gioco è enorme: l’integrità territoriale di paesi come Siria e Iraq, gli approvvigionamenti energetici per l’Occidente e la stabilità politica ed economica del pianeta.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di recente pubblicazione.
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USA e Nato. Il Vertice in Galles. Analisi e considerazioni

Summit di South Wales
La Nato e la partita con Mosca
Alessandro Marrone
01/09/2014
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Con il perdurare della guerra in Ucraina il vertice Nato sarà dominato dalla questione dei rapporti con la Russia, ed è l’occasione per delineare la strategia occidentale per un negoziato ad alto livello con Mosca sulla sicurezza pan-europea e la crisi ucraina.

Un vertice all’ombra del Cremlino
Il summit di South Wales è il primo da quando la Russia ha annesso la Crimea ed ha iniziato ad aiutare militarmente i ribelli filo-russi in Ucraina, in quella che è diventata ormai una guerra civile con il coinvolgimento più o meno diretto - ad esempio in termini di aiuti economici e militari - non solo della Federazione Russa ma anche degli Stati Uniti e dei principali Paesi europei, questi ultimi prevalentemente tramite iniziative Nato.

Tale cambiamento nel quadro di sicurezza europea sta mettendo in ombra nell’agenda del vertice altre crisi come quella in Libia, pure importantissime per gli interessi europei ed italiani, mentre la questione dell’impegno Nato in Afghanistan dopo la fine della missione Isaf - tra soli 4 mesi - è congelata dagli stessi leader afgani che non sono riusciti finora a portare a compimento il processo per la scelta del nuovo presidente.

Le ultime azioni di Mosca nell’est ucraino alla vigilia del summit, con alcune migliaia di militari russi entrati in Ucraina per contrattaccare le forze governative, costituiscono l’ennesimo atto di un circolo vizioso e destabilizzante di azioni russe e reazioni occidentali, che i leader europei e americani non sono finora riusciti a spezzare con una iniziativa politico-strategica.

Readiness Action Plan: “punta di lancia” e basi nell’Est Europa
La maggiore iniziativa nell’agenda del summit al riguardo è il Readiness Action Plan, già approvato dagli alleati a livello ministeriale nella riunione dello scorso giugno.

Due i pilastri del piano. Da un lato, migliorare la capacità di reazione rapida delle forze armate Nato: rispetto alla già esistente Response Force, si pensa ad una “punta di lancia” operativa in tempi ancora più rapidi, anche ore.

Una forza del genere in teoria è utile in qualsiasi teatro di crisi, e quindi in un certo senso risolverebbe il dilemma se concentrare le - poche - risorse per le forze armate europee in compiti di “gestione delle crisi” oppure di “difesa collettiva”, due dei tre “compiti chiave” della Nato sanciti dall’ultimo Concetto Strategico.

Ma è l’altro aspetto del piano ad essere politicamente più rilevante, e quindi più controverso. Si tratta infatti di pre-posizionare rifornimenti ed equipaggiamenti, di preparare infrastrutture, basi e quartier generali, nei Paesi dell’Europa orientale: insomma, di assicurare una presenza fisica e visibile della Nato nell’est europeo.

Una presenza che dal punto di vista militare è funzionale all’eventuale utilizzo in teatro della “punta di lancia”, e in generale ad un rapido dispiegamento in loco di truppe alleate in caso di crisi. Dal punto di vista politico però la questione si complica.

Una rassicurazione “non permanente”
Infatti, il Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security del 1997 tra Nato e Russia prevedeva, tra l’altro, l’impegno a non dispiegare in maniera permanente in Europa orientale capacità militari che potessero minacciare i firmatari del trattato.

La costruzione di basi Nato - o americane - nella fascia di Paesi dal Baltico al Mar Nero rappresenterebbe quindi un fatto politico-strategico importante per l’Europa, gli Stati Uniti e la Russia.

Non a caso l’ambasciatore russo presso l’Alleanza ha dichiarato che il Readiness Action Plan è in palese violazione dell’accordo del 1997, mentre i vertici Nato hanno affermato che l’iniziativa rimane nei limiti definiti dal trattato in quanto il rafforzamento delle capacità militari alleate sul fianco orientale non è permanente ma durerà solo “il tempo necessario”.

Similmente, il pacchetto da 1 miliardo di dollari proposto al Congresso statunitense dall’amministrazione Obama lo scorso maggio, sotto il nome di European Reassurance Initiative, prevede il rafforzamento di esercitazioni militari congiunte, attività di training, dello stazionamento temporaneo di truppe ed istruttori statunitensi, nonché della presenza della Marina americana nel Mar Baltico e nel Mar Nero, ma non il dispiegamento sine die di forze armate né la costruzione di nuove basi.

Insomma, una rassicurazione più o meno simbolica e tangibile agli alleati dell’est europeo, ma non permanente. Non si tratta quindi di una inversione del disimpegno militare americano dall’Europa in corso dalla fine della Guerra Fredda, e orientato dall’amministrazione Obama sempre più verso il Pacifico, ma del massimo che il non-interventista Obama ha voluto mettere sul tavolo.

La vera partita con Mosca
In questo quadro, l’escalation militare russa in Ucraina a pochi giorni dal vertice di South Wales è un rilancio che il Cremlino - ottimo giocatore di poker - ha messo sul tavolo con gli occidentali.

Se non vi sarà una risposta adeguata, la reazione faticosamente messa in campo dalla Nato la scorsa primavera all’annessione della Crimea verrà considerata un bluff, e Mosca si sentirà in grado di giocare al rialzo per vincere la mano in Ucraina.

Ma quale sarebbe una risposta adeguata? Il punto di partenza per elaborarla è legare il rafforzamento della postura militare Nato in Europa, attraverso il Readiness Action Plan piuttosto che l’aumento delle spese militari europee, il completamento della difesa missilistica o altre iniziative più ambiziose, all’apertura di un negoziato diretto con Mosca sulla sicurezza pan-europea, nel quale siano rappresentati ai massimi livelli Usa, Nato, Ue - considerando il ruolo cruciale dell’Unione in fatto di sanzioni economiche - e principali Paesi europei, per trattare una soluzione per la crisi ucraina nel relativo quadro regionale.

Una strada ambiziosa e incerta, ma le alternative sono di gran lunga peggiori: da un lato proseguire con sanzioni economiche senza un negoziato strategico costerà caro all’economia Ue, anche visto che l’inverno sta arrivando e servirà il gas russo, mentre difficilmente piegherà la leadership di Mosca; dall’altro rafforzare militarmente il fianco orientale dell’Alleanza senza negoziare con la Russia una soluzione per l’Ucraina e la sicurezza regionale porterà più probabilmente ad una escalation che a una de-escalation del conflitto in corso.

Sanzioni economiche e dimostrazione di forza militare dovrebbero piuttosto essere le carte da giocare in un negoziato politico-strategico con Mosca, di cui il vertice di South Wales dovrebbe perlomeno iniziare a delineare la strategia occidentale.

Alessandro Marrone è ricercatore senior nell'Area Sicurezza e Difesa dello IAI e responsabile di progetti di ricerca per la Commissione europea e per l'Agenzia europea di difesa (Twitter: @Alessandro__Ma).
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lunedì 22 settembre 2014

Transatlantic Trnd 2014: nuvole e nuvolette all'orizzonte

Transatlantic Trends 2014
L'America non si fida di Obama, l'Europa di se stessa 
Giampiero Gramaglia
10/09/2014
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Nel frullatore dell’orrore delle crisi internazionali, gole tagliate tra Iraq e Siria, aerei civili abbattuti in Ucraina, le opinioni pubbliche statunitensi ed europea si scoprono disorientate: insoddisfatte delle leadership di organizzazioni e governi, incerte sulle scelte da farsi, spesso contraddittorie tra percezione delle cose da fare e disponibilità a farle.

Gli italiani s’aspettano una forte leadership occidentale, ma vogliono nel contempo essere più indipendenti nelle relazioni transatlantiche.

Il sondaggio Transatlantic Trends, che si ripete dal 2002 ogni anno, condotto dal German Marshal Fund in collaborazione con la Compagnia di San Paolo, è stato presentato oggi a Bruxelles, presente il ministro degli Esteri, e futuro Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini.

Per l’iniziativa, l’edizione 2014 (#TTrends2014) è un po’ un ritorno alla casella di partenza: nel 2002, il sondaggio aveva come sfondo la guerra al terrorismo, dopo l’attacco agli Stati Uniti dell’11 Settembre 2001; oggi, l’estremismo jihadista ripropone quel tema, mentre il conflitto ucraino ripropone venti e clima da Guerra Fredda.

Il rilevamento, che è stato condotto prima dell’estate, interessa 13 paesi: 10 dell’Unione europea, Ue, fra cui l’Italia – gli altri sono Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Polonia, Portogallo, Spagna, Svezia, gli Stati Uniti, la Turchia e, per la prima volta, la Russia.

Tra sfide esterne e ansie economiche
Nell’ultimo anno, costatano i curatori del sondaggio, Europa e Stati Uniti hanno dovuto affrontare sfide di politica estera sempre più gravi, mentre preoccupazioni economiche e divisioni interne rendono governi e cittadini meno inclini a prestare attenzione agli impegni internazionali.

Eppure, le questioni si accavallano: dall’Afghanistan alla Libia all’Ucraina, il futuro della Nato e dell’Ue, l’impatto dell’immigrazione sulla politica estera e di sicurezza, le relazioni dell’Occidente con la Russia e l’Iran, solo per citarne alcune.

Gli analisti di TTrends 2014 mettono in evidenza sette risultati:

1) statunitensi ed europei non sono d’accordo sul futuro delle relazioni transatlantiche; e una maggioranza di europei (specie tedeschi) reclamano un approccio più indipendente;

2) una maggioranza di statunitensi disapprova per la prima volta dall’inizio del suo mandato le politiche internazionali del presidente Barack Obama;

3) uno spartiacque Nord-Sud continua ad attraversare l’Europa: tre europei su 4 dicono che l’Ue non fa abbastanza per combattere la crisi economica;

4) una maggioranza di europei preferisce venire incontro alle preoccupazioni britanniche piuttosto che spingere la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea –i francesi fanno eccezione;

5) una maggioranza transatlantica vuole continuare a fornire sostegno economico e politico all’Ucraina, anche se ciò comporta tensioni con la Russia; una maggioranza di statunitensi vuole l’Ucraina nella Nato, una maggioranza di europei la vuole nell’Ue e i 2/3 sono d’accordo per inasprire le sanzioni contro la Russia – salvo poi deprecarne le ritorsioni;

6) una maggioranza di russi vuole che Mosca cerchi di mantenere la propria influenza sull’Ucraina, anche se ciò significa mettersi in rotta con l’Ue.

7) una larga parte di statunitensi pensa che gli immigranti clandestini debbano potere legalizzare la loro situazione e disporre di un percorso verso la cittadinanza.

Nato, Ue, economia, immigrazione: le contraddizioni italiane
I dati italiani sono particolarmente contraddittori, a tratti sorprendenti, e sembrano rispecchiare disorientamento e incertezza nell’opinione pubblica, oppure – meno drammaticamente- approssimazione nelle risposte. L’atteggiamento degli italiani sugli Stati Uniti resta stabilmente positivo: il 57% (da 56% nel 2013) auspica una forte leadership Usa, il 72% (da 74%) ne ha un’opinione favorevole.

Con gli olandesi, gli italiani sono gli europei che più apprezzano la politica estera di Obama (74%); con gli svedesi sono quelli che più ne approvano la gestione dei rapporti con la Russia (62%), subito dopo gli olandesi (65%). Però, il 58% degli italiani auspica un approccio più indipendente nella partnership tra Stati Uniti e l’Ue, il 9% in più del 2013.

Colpiscono di più i risultati europei. L’Italia (77%) è seconda solo alla Germania (78%) nell’appoggio a una forte leadership Ue –salvo poi contestarne le indicazioni: il 66% degli italiani ha un’opinione favorevole dell’Ue. Il 51% approva la politica estera del governo (la media europea è del 52%).

Gli italiani non vogliono una forte leadership russa o cinese sulla scena internazionale (68 e 74% rispettivamente): il 69% ha un’opinione negativa della Russia, il 67% della Cina. E il 47% approva come il governo gestisce i rapporti con la Russia, anche se il 49% pensa che il contesto migliore per trattare con Mosca sia quello europeo, il 37% quello nazionale e appena il 9% quello atlantico.

Come in altri paesi dell’Europa mediterranea, la crisi economica continua a preoccupare gli italiani: il 40% giudica la disoccupazione la priorità numero uno, il 72% si sente toccata dalla crisi (meno del 76% nel 2013), l’87% pensa che l’Ue non abbia fatto, né faccia, abbastanza contro la crisi (secondi solo agli spagnoli, 88%); il 58% ritiene che l’euro abbia avuto un impatto negativo.

Eppure, nonostante queste percezioni, il 56% pensa che la partecipazione all’Ue sia positiva per l’Italia (ma solo l’11% di quel 56% sostiene che l’Unione ha rafforzato l’economia). Mentre, fra quanti valutano negativamente la partecipazione dell’Italia all’Ue, il 66% pensa che l’Unione abbia indebolito l’economia.

L’immigrazione resta un elemento di discussione per gli italiani: il 64% ne disapprova la gestione da parte del governo. Il 44% pensa che gli immigrati siano troppi, ma la percentuale scende al 22% quando vengono fornite cifre esatte sul numero attuale degli immigrati.

Per essere tradizionalmente ‘brava gente’, il 57% degli italiani vorrebbe un giro di vite alla concessione di asilo politico. E, in omaggio alla coerenza, il 52% pensa che gli immigrati si integrano male nella nostra società, mentre l’anno scorso il 60% pensava che si integrassero bene – un capovolgimento di maggioranza difficilmente spiegabile.

Il 50% degli italiani considera la Nato essenziale (46% nel 2013): il 69% pensa che debba difendere l’Europa, il 59% appoggia la missione in Afghanistan, ma un identico 59% disapprova missioni Nato fuori dall’area atlantica. E il 70% non è favorevole a fornire armi o ad addestrare truppe di altri paesi perché possano poi difendersi da soli.

Sul fronte ucraino in modo specifico, il 52% degli italiani è favorevole a che l’Ue continui a fornire assistenza economica e sostegno politico a Kiev, ma l’idea di un ingresso dell’Ucraina nella Nato è fortemente divisoria (47% sì, 46% no), mentre il 58% dice ok all’adesione all’Ue e il 59% alle sanzioni contro la Russia. E gli italiani sono fermissimi (80%), dietro solo tedeschi (85%) e francesi (81%), nel no ad armare l’Ucraina.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (Twitter: @ggramaglia).
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Obama: alla ricerca di compagni d'avventura

Medio Oriente 
Solo in dieci contro il califfo?
Mario Arpino
11/09/2014
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Ci risiamo. All’inizio di agosto il presidente statunitense Barack Obama ha tratto il dado e ha ordinato raid aerei per bombardare le agguerrite truppe dell’Isis, lo "Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” proclamato dall’ex prigioniero di Abu Graib al-Bagdadi che era stato liberato in quanto “non pericoloso”.

Allora, i motivi annunciati erano tre: salvare i cittadini Usa nella città petrolifera di Erbil, sottrarre dalla ferocia jihadista le migliaia di “miscredenti” rifugiati sulle montagne e dare una mano all’esercito regolare iracheno, in rotta dopo una serie di fiaschi. Oggi, la situazione appare in tutta la sua gravità e Obama si accorge che non può più rimettere il dado nel sacchetto.

Nuova strategia di Obama in Medio Oriente
Ė obbligato, a malincuore, a intensificare la lotta. Il Congresso - da sempre sua bestia nera - lo sta osservando e lo stesso Occidente, in evidente carenza di leadership, appare frastornato ed incerto.

Nel frattempo si è aggiunta la questione Russia-Ucraina, mentre lo “strategico” pivot asiatico sembra non riuscire più a trovare una via. Obama, che deliberatamente ha condotto gli Stati Uniti a diventare “uno stato come gli altri”, non ha più forze sufficienti per tenere a bada due fronti. Anzi, tre, se al Medio Oriente e all’est europeo dovesse aggiungersi una più consistente presenza in Asia-Pacifico.

Serve il concorso di amici e alleati, i quali - a parte una decina, tra i quali David Cameron e Matteo Renzi - sinora non hanno reso esplicito un grande entusiasmo.

Gli appelli nel contesto del vertice Nato in South Wales sono stati oggetto di garbata attenzione, ma non più di tanto. Nella dichiarazione finale, la questione Califfato trova spazio solo in cinque articoli su 113, dove viene mescolata al problema delle residue armi chimiche in Siria e, alla fine, solo Bashar Al-Assad viene (discutibilmente) incolpato della nascita e dello sviluppo dell’Isis.

Nessun mea culpa per il lungo sostegno all'ex premier sciita Nouri al-Maliki. Obama, sotto i riflettori, è costretto a dichiarazioni forti e ad abbandonare quel suo modo incerto e contradditorio di fare politica estera che finora ha caratterizzato la sua azione. Per debilitare e infine “distruggere” l’Isis entro i prossimi tre anni - a suo carico ne restano due - cerca adesioni a una nuova “coalizione di volonterosi” per eliminare il sedicente Stato Islamico.

Il piano di Obama: una scatola chiusa
Sono stati interpellati persino i cinesi, che, senza impegnarsi, hanno espresso interesse. I sauditi, che di estremismo islamico se ne intendono, hanno sollecitato l’Occidente a muoversi, “perché è nel mirino”. Ci sono poi i convitati di pietra iraniani e siriani - innominabili, ma già concretamente all’opera - che senza clamori stanno già facendo quella parte del lavoro sul terreno che i coalizzandi preferirebbero non dover svolgere mai.

Le adesioni stentano però a concretizzarsi perché il piano di Obama è, e resta, una scatola chiusa. Neanche il discorso al popolo statunitense di mercoledì, alla vigilia dell’11 settembre, è riuscito ad aprirla.

Sotto il profilo militare, solo aiuti, assistenza al nuovo governo “inclusivo”, bombe di precisione in quantità e niente scarponi sul terreno. Evidentemente, quelli dell’esercito iracheno, dei pasdaran iraniani, delle milizie sciite di Moqtada Al-Sadr, dei regolari di Al-Assad e di qualche formazione di dissidenti “buoni” sono ritenuti sufficienti.

Bene le bombe a chi se le merita, ma quando le milizie dell’Isis saranno costrette a lasciare i mezzi pesanti (ottimi bersagli) per ritirarsi negli abitati - ricordiamo Falluja - inizierà il solito pianto sui danni collaterali. E allora? Cosa questa nuova guerra “non sarà” Obama lo ha già spiegato, ma il discorso di mercoledì non ha offerto spunti diversi da quanto già noto.

Italia nella coalizionone anti Isis
In quanto al nostro Paese, al momento si è spinto abbastanza avanti, sebbene ancora un po’ al buio. Sembra giusto, visto che il ministro degli Interni ci spiega che siamo soggetto a rischio e che Al-Bagdadi si propone la distruzione del Vaticano.

Infatti Renzi, assieme ai primi dieci capaci e volenterosi, ha già dichiarato che l’Italia aderirà alla coalizione internazionale. Per fare esattamente cosa (anche se il ministro della Difesa ha annunciato che “gli aerei sono già pronti”), ancora non è dato di saperlo. A South Wales ci siamo proposti per guidare un gruppo di sei nazioni per favorire stabilità, ricostruzione, comando e controllo, nonché la funzione di enablers per alcune attività. Forse è proprio questo il ruolo che ci potremmo ritagliare.

La speranza è che, come auspica Obama, si possa risolvere tutto in tre anni. Altrimenti, con l’andamento del nostro assetto della Difesa, rischiamo di rimanere certamente volenterosi, ma forse non più capaci di offrire alcunché.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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martedì 16 settembre 2014

BRICS: la difficoltà di diventare grandi

I Brics dopo Fortaleza
Stanno passando al Piano B
Antonio Armellini
19/08/2014
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Il Vertice del 14-16 luglio scorso a Fortaleza in Brasile dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ha segnato un passaggio importante nella vita di questa organizzazione, per lungo tempo considerata come poco più che la concretizzazione di un acronimo fortunato, creato nel 2001 da un banchiere di Goldman Sachs.

Né per la verità, nei primi anni, aveva fatto molto per correggere una simile impressione, aldilà dell’affermazione di voler svolgere un ruolo più incisivo sulla scena internazionale, per riequilibrare a favore delle economie emergenti - e più in generale del Sud del Mondo - lo strapotere economico dell’Occidente e delle istituzioni finanziarie da esso dominate.

L’ambizione sembrava quella di riprendere, aggiornandolo, il progetto politico degli anni di Perez Guerrero, che vedeva nell’Unctad lo strumento per rovesciare la logica tradizionale del rapporto Nord-Sud e promuovere una autonoma dimensione Sud-Sud, foriera di una diversa relazione Sud-Nord.

Ma essa era rimasta sinora essenzialmente confinata in dichiarazioni politiche di principio, sebbene la quota dei paesi Brics sul totale del commercio mondiale sia andata gradualmente aumentando. Oggi si aggira intorno al 20%: un dato rispettabile, ma non decisivo.

Ora provano a farlo da soli
Ora però il quadro è cambiato, a seguito della creazione, decisa a Fortaleza, di una Banca di Sviluppo dei Brics (New Development Bank - Ndb) con una capitalizzazione di 50 miliardi di dollari, e di un Fondo di intervento straordinario (Contingency Riserve Arrangement - Cra) con una dotazione iniziale di 100 miliardi di dollari.

Ciò non tanto sotto il profilo strettamente quantitativo: le sole Cina, India e Brasile sono esposte nei confronti della Banca Mondiale per 66 miliardi di dollari, una cifra che supera l’intera capitalizzazione della nuova Ndb.

Così come i 100 miliardi del Cra potrebbero far poco per ovviare ad una crisi finanziaria di dimensioni significative. Il dato di rilievo è politico ed è quello che, per la prima volta, una organizzazione regionale ha messo in discussione la posizione dominante del Fmi e della Banca Mondiale, dando vita a propri strumenti volti ad affrontare gli stessi problemi con una prospettiva e con modalità di azione sottratte all’imperio delle economie avanzate.

Una riforma, approvata nel 2010, si era proposta di risolvere l’annosa questione dei criteri di ripartizione delle quote del Fmi, correggendo il pesante squilibrio in danno dei paesi emergenti, che attribuiva ai paesi occidentali (e in primis agli europei) una posizione di privilegio che non aveva più giustificazione nel mutato contesto economico mondiale.

L’opposizione, in particolare degli Stati Uniti, ha portato ad uno stallo che ha di fatto posto nel nulla la riforma ed ha indotto i paesi Brics - i quali già nel primo loro Vertice tenutosi ad Yekaterinenburg nel 2009 avevano manifestato la loro insoddisfazione - a rompere gli indugi ed accelerare la decisione. Dietro la quale si intravedono interessi convergenti, che vanno oltre la questione delle quote, per tracciare i primi lineamenti di quel nuovo ordine mondiale di cui molto si è sin qui parlato ma poco si è visto.

Alla loro testa è la Cina
La Cina fa ovviamente la parte del leone in una operazione di cui è di gran lunga il primo finanziatore; se ne potrà servire per rafforzare le sinergie con le altre strutture finanziarie regionali cui sta lavorando (dalla Chang Mai Iniziative Multilateralisation - Cmim - alla proposta di una Asian Infrastructure Investment Bank - Aiib), ma soprattutto per crearsi una costituency che dia credibilità all’ambizione di svolgere un ruolo di potenza globale anche a livello finanziario.

La Russia, espulsa dal G8, potrà trovare, non certo una soluzione a lungo termine dei suoi problemi, ma uno strumento di buona utilità negoziale nei confronti dei suoi (ex) partner finanziari dell’Occidente.

L’India, cui è stata riservata una posizione di rilievo nella governance delle nuove istituzioni, ha interesse a vedere da un lato confermata la sua posizione di major player internazionale, e dall’altro di partner politicamente anche se non finanziariamente paritario della Cina, lasciando intravedere in prospettiva uno scenario di mutuo vantaggio fra le due Super-potenze asiatiche, che potrebbe risultare decisivo per una maggiore stabilità geo-politica del Continente.

Sud Africa e Indonesia non possono che trarre vantaggio da qualsiasi strumento che in qualche modo possa alleggerire la pressione esercitata nei loro confronti dal combinato disposto Banca Mondiale e Fmi.

Un multilaterale alternativo?
Parlare di una rivoluzione in atto sarebbe prematuro. Il livello dell’ambizione dovrà trovare conferma nella capacità di porre a disposizione risorse finanziarie importanti e - cosa ancor più decisiva - di essere in grado di elaborare nel tempo una strategia comune.

Fra i paesi Brics permangono molte differenze, di struttura economica e di visione politica, che potrebbero creare tensioni in grado di porre nel nulla gli entusiasmi di Fortaleza. Ciò detto, resta il fatto incontrovertibile che le decisioni prese hanno aperto una diversa prospettiva nella gestione degli equilibri finanziari globali, in nome del mutato rapporto fra le grandezze economiche rispettive, anche se (non ancora) delle rispettive capacità di azione politica a livello globale.

È uno scenario su cui da tempo si discetta a livello teorico e che ora si presenta come una realtà concreta: si tratta di un dato che non dovrebbe essere percepito tanto come una minaccia, quanto come una opportunità per fare - ciascuno per la sua parte - i propri “compiti a casa” prima che diventi troppo tardi per dedicarvisi con la necessaria ponderazione.

Nel frattempo - come ha dichiarato il Presidente del National Security Advisory Board indiano, l’ambasciatore Shyam Saran, “il sesto Vertice del Brics in Brasile ha segnato il passaggio da un gruppo unito da preoccupazioni condivise, ad un gruppo legato da comuni interessi”.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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giovedì 11 settembre 2014

Messico. La riforma energetica.

La riforma energetica messicana
Il nuovo corso di politica energetica messicana inaugurato lo scorso agosto con una riforma costituzionale fortemente voluta dall’attuale Presidente Enrique Peña Nieto rappresenta senz’altro un cambio epocale nella politica energetica del Paese. Con la riforma, infatti, si è consentito l’ingresso nel mercato messicano di nuovi operatori, sia locali che stranieri, sancendo, così, la fine del monopolio detenuto sin dal 1938 dalla compagnia petrolifera di Stato Pemex. Tale scelta è stata determinata dal fatto che la Pemex già a partire dal 2004 navigava in cattive acque per via di numerosi fattori fra i quali il crollo della produttività che da 3,5 milioni di barili al giorno è scesa gradualmente fino a 2,9, l’ammontare dei debiti che oggi toccano quota 60 miliardi e, da ultimo, ma non certo per importanza, gli scandali di corruzione.

lunedì 8 settembre 2014

Venezuela - Protests lose momentum


June 10th 2014

FROM THE ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT
A court ruled in early June that opposition leader Leopoldo López of the Voluntad Popular (Popular Will) party should be committed for trial, having been held in preventive custody since February 18th. He had handed himself over to the authorities following major protests in Caracas, the capital, in which three people had been killed. As one of the leaders of the protests, Mr López (also the former mayor of Chacao municipality in Caracas), was viewed by the authorities as responsible for the clashes, and has now been formally charged with inciting violence.
The significance of the ruling was demonstrated by the fact that the judge, Adriana López (no relation), took three days to reach her decision, which was announced at 3am local time. Mr López will now be held in custody ahead of his trial, which could result in a sentence of up to ten years’ imprisonment. Opposition leaders immediately denounced the judicial ruling, claiming that it was politically influenced, and called for Mr López’s release. Members of his political party organised protests in Caracas and some major cities, which were attended by other opposition groupings. These protests were peaceful and relatively small in number, with around a few thousand people attending in Caracas.
Faltering protests
The ruling marks another stage in the four-month series of protests against the government of President Nicolás Maduro, with the opposition now losing momentum. Social unrest was originally sparked by dissatisfaction with the administration’s economic mismanagement, which has led to slowing GDP growth, supply shortages and price controls, energy and water rationing in some areas, and surging inflation, currently running at around 60%. The protests, which frequently turned violent, took place mainly in urban areas across the country, and called for Mr Maduro to resign. These are, however, beginning to fizzle out as protesters become weary of attending rallies that do not appear to have any impact on government policy nor spark a broader wave of popular unrest that might lead to regime change, with large swathes of the population remaining unengaged by the protests. The fact that the demonstrations that followed the López ruling were smaller in size reflects this impatience; rallies immediately following his arrest in February drew much larger crowds. The timing of the ruling is, therefore, an astute move by the government, which realised that it would not spark major protests now, as it might have done had it been announced several months earlier.
Deadlocked
The dialogue process between the Maduro administration and the opposition leadership appears to have faltered. The talks began in April and were mediated by representatives from the Union de Naciones de Suramericanas (Union of South American Nations) and a Vatican envoy. However, repeated rounds of discussions resulted in little substantive dialogue, with both sides using the talks as a means of airing grievances and stating their entrenched positions. As a result, there has been no political solution to the protests.
The main opposition umbrella group, the Mesa de la Unidad Democrática (Democratic Unity Roundtable, MUD), suspended its participation in the dialogue in May. The López ruling means that the MUD is now highly unlikely to rejoin the talks, as one of its key demands was the release of so-called political prisoners, including Mr López. For the MUD to rejoin talks when its demands have been publicly ignored would be politically embarrassing and highlights how little it can expect to achieve through dialogue.
This is a further example of the government’s astute timing; by allowing the López ruling to be made now it both prevents the dialogue from continuing and also ensures that the MUD will bear the blame for pulling out of the talks. As a result, the authorities will present themselves as the party most open to reasonable compromise. Meanwhile, the National Assembly leader, Diosdado Cabello, stated in early June that the dialogue was continuing in the absence of the MUD. However, this is overstating the facts, as the MUD is the main opposition vehicle and without its presence at the table, any talks will be token.
Possibility of peace?
With the protests now fizzling out, security in Venezuela looks set to improve slightly. Although some demonstrations will continue, they are unlikely to draw the levels of attendance seen in February and March, reducing the likelihood for violent clashes between the protesters and the security forces. In addition, the government is trying to ameliorate the economic factors behind the protests in February, aiming to separate those who are dissatisfied with the government’s economic performance from those who are politically opposed to it.
Although the introduction of a new exchange rate (SICAD 2) has relieved some currency pressures, it will lead to a further spike in inflation, which will hurt particularly the poorer sections of society, among which the government maintains its core support base. This will further fuel criminal activity and related violence, with Caracas already having one of the highest murder rates in the world, at 79 murders per 100,000 in 2013. While the reduced protests may contribute to improved security in central parts of Venezuela’s cities, the crime rate in general will continue to rise.

Source: Risk Briefing

venerdì 5 settembre 2014

Brasile: Dilma's real goal


Ouch. Brazil is smarting from its 7-1 defeat to Germany in the semi-final of the World Cup. Dilma Rousseff, the country's president, will now be regretting tying herself so closely to the team's campaign. Off the pitch though, things have been more of a success with the organisation of the cup beating the - admittedly low - pre-event expectations. The economy faces problems as serious as those of the national football team, with a scoreline of 1% GDP growth and close to 7% inflation. This is partly due to a fall in iron ore prices, but most of the blame should go to erratic policymaking.

Brazil is the latest of the big emerging economies with elections this year (last week I talked about the Indonesian presidential election, which thankfully looks to have been won by the competent Joko Widodo). The EIU has Dilma as the favourite to win, and she is trying to push the focus onto social issues to avoid scrutiny of the current woeful state of the economy. Regardless of who wins in October, it will be a while before Brazil fulfils its potential.

Do you think Brazil deserves its place in the BRICS? Let me know on Twitter
 @Baptist_Simon or via email on simonjbaptist@eiu.com. 

Best regards,

Simon Baptist
Chief Economist and Asia Regional Director


giovedì 4 settembre 2014

What's down with the US dollar?


Why is the US dollar so weak? For most of 2014 our forecast was that the US dollar would average US$1.29 against the euro; we held our nerve while it stayed well below that but last month gave in and revised our expectation to US$1.34. That is still above where it is now, but we think that an appreciation is imminent, as strong US growth in the second quarter will bring the prospect of US interest rate rises closer into view just as the European Central Bank loosens policy.

Predicting immediate currency movements can be difficult, as market sentiment and unexpected short-term capital flows need to be balanced against fundamental economic drivers. In the case of the eurozone, slumping imports as consumers tightened their belts in the southern periphery, Germany's big trade surplus and Spain breaking its dependence on foreign credit led to a large current-account surplusfor the eurozone. This, in turn, supported the value of the euro and outweighed the US's stronger economy and tapering of quantitative easing.

What's your pick for currencies which should be moving up or down over the next six months? I'd like to buy some PNG kina (you'll know why from my newsletter at the beginning of May), and I've still got my short on the Aussie dollar going. Let me know on Twitter 
@Baptist_Simon or via email on simonjbaptist@eiu.com. 

Best regards,

Simon Baptist
Chief Economist and Asia Regional Director

mercoledì 3 settembre 2014

Buona ripresa

Anno Accademico 2014-2015
Dopo la pausa estiva, riprendono le pubblicazioni dei post. Saranno messi anche quelli relativi a Luglio ed Agosto per completamento di archivio e non avere buchi per le ricerche, ma non saranno rinviati
 A Tutti, 
 frequentatori, studenti e lettori un augurio di una felice ripresa e di un proficuo lavoro
(email geografia2013@libero.it)