Medio Oriente Solo in dieci contro il califfo? Mario Arpino 11/09/2014 |
Allora, i motivi annunciati erano tre: salvare i cittadini Usa nella città petrolifera di Erbil, sottrarre dalla ferocia jihadista le migliaia di “miscredenti” rifugiati sulle montagne e dare una mano all’esercito regolare iracheno, in rotta dopo una serie di fiaschi. Oggi, la situazione appare in tutta la sua gravità e Obama si accorge che non può più rimettere il dado nel sacchetto.
Nuova strategia di Obama in Medio Oriente
Ė obbligato, a malincuore, a intensificare la lotta. Il Congresso - da sempre sua bestia nera - lo sta osservando e lo stesso Occidente, in evidente carenza di leadership, appare frastornato ed incerto.
Nel frattempo si è aggiunta la questione Russia-Ucraina, mentre lo “strategico” pivot asiatico sembra non riuscire più a trovare una via. Obama, che deliberatamente ha condotto gli Stati Uniti a diventare “uno stato come gli altri”, non ha più forze sufficienti per tenere a bada due fronti. Anzi, tre, se al Medio Oriente e all’est europeo dovesse aggiungersi una più consistente presenza in Asia-Pacifico.
Serve il concorso di amici e alleati, i quali - a parte una decina, tra i quali David Cameron e Matteo Renzi - sinora non hanno reso esplicito un grande entusiasmo.
Gli appelli nel contesto del vertice Nato in South Wales sono stati oggetto di garbata attenzione, ma non più di tanto. Nella dichiarazione finale, la questione Califfato trova spazio solo in cinque articoli su 113, dove viene mescolata al problema delle residue armi chimiche in Siria e, alla fine, solo Bashar Al-Assad viene (discutibilmente) incolpato della nascita e dello sviluppo dell’Isis.
Nessun mea culpa per il lungo sostegno all'ex premier sciita Nouri al-Maliki. Obama, sotto i riflettori, è costretto a dichiarazioni forti e ad abbandonare quel suo modo incerto e contradditorio di fare politica estera che finora ha caratterizzato la sua azione. Per debilitare e infine “distruggere” l’Isis entro i prossimi tre anni - a suo carico ne restano due - cerca adesioni a una nuova “coalizione di volonterosi” per eliminare il sedicente Stato Islamico.
Il piano di Obama: una scatola chiusa
Sono stati interpellati persino i cinesi, che, senza impegnarsi, hanno espresso interesse. I sauditi, che di estremismo islamico se ne intendono, hanno sollecitato l’Occidente a muoversi, “perché è nel mirino”. Ci sono poi i convitati di pietra iraniani e siriani - innominabili, ma già concretamente all’opera - che senza clamori stanno già facendo quella parte del lavoro sul terreno che i coalizzandi preferirebbero non dover svolgere mai.
Le adesioni stentano però a concretizzarsi perché il piano di Obama è, e resta, una scatola chiusa. Neanche il discorso al popolo statunitense di mercoledì, alla vigilia dell’11 settembre, è riuscito ad aprirla.
Sotto il profilo militare, solo aiuti, assistenza al nuovo governo “inclusivo”, bombe di precisione in quantità e niente scarponi sul terreno. Evidentemente, quelli dell’esercito iracheno, dei pasdaran iraniani, delle milizie sciite di Moqtada Al-Sadr, dei regolari di Al-Assad e di qualche formazione di dissidenti “buoni” sono ritenuti sufficienti.
Bene le bombe a chi se le merita, ma quando le milizie dell’Isis saranno costrette a lasciare i mezzi pesanti (ottimi bersagli) per ritirarsi negli abitati - ricordiamo Falluja - inizierà il solito pianto sui danni collaterali. E allora? Cosa questa nuova guerra “non sarà” Obama lo ha già spiegato, ma il discorso di mercoledì non ha offerto spunti diversi da quanto già noto.
Italia nella coalizionone anti Isis
In quanto al nostro Paese, al momento si è spinto abbastanza avanti, sebbene ancora un po’ al buio. Sembra giusto, visto che il ministro degli Interni ci spiega che siamo soggetto a rischio e che Al-Bagdadi si propone la distruzione del Vaticano.
Infatti Renzi, assieme ai primi dieci capaci e volenterosi, ha già dichiarato che l’Italia aderirà alla coalizione internazionale. Per fare esattamente cosa (anche se il ministro della Difesa ha annunciato che “gli aerei sono già pronti”), ancora non è dato di saperlo. A South Wales ci siamo proposti per guidare un gruppo di sei nazioni per favorire stabilità, ricostruzione, comando e controllo, nonché la funzione di enablers per alcune attività. Forse è proprio questo il ruolo che ci potremmo ritagliare.
La speranza è che, come auspica Obama, si possa risolvere tutto in tre anni. Altrimenti, con l’andamento del nostro assetto della Difesa, rischiamo di rimanere certamente volenterosi, ma forse non più capaci di offrire alcunché.
Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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