Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

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America

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Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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mercoledì 27 aprile 2016

USA: la lotta alle primarie

Usa 2016
New York, strade in discesa per Hillary e Trump
Giampiero Gramaglia
21/04/2016
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Le primarie dello Stato di New York non ‘fanno la differenza’ perché il loro verdetto non è finale; ma ‘fanno una differenza’, in ambedue i campi.

Fra i democratici, Hillary Clinton dà gli otto giorni a Bernie Sanders. Fra i repubblicani, anche i conservatori moderati si stanno assuefacendo all’idea che un miliardario stravagante e populista come Donald Trump possa essere il loro candidato alla Casa Bianca, dopo avere accettato che fosse realmente un aspirante alla nomination (e non solo una macchietta di cui scandalizzarsi, ma anche con cui divertirsi, nel pre-partita, salvo poi uscire di scena).

Resta da vedere se l’America nel suo insieme si abituerà all’idea di avere Trump come presidente. Ma questo è un altro capitolo della campagna, che si comincerà a scrivere dopo le convention, in estate, quando le eliminatorie di partito saranno finite e si preparerà la finale per il titolo, che si giocherà l’8 novembre.

Invece, l’idea che Hillary Clinton possa essere la candidata democratica e pure il futuro presidente è radicata nell’Unione da almeno otto anni. Per la ex first lady, ex senatrice, ex segretario di Stato, e pure ex aspirante alla nomination, la difficoltà è piuttosto convincere gli americani che questo non è un film già visto.

Con una vittoria sola, ma pesante, Hillary a New York recupera con gli interessi il filotto di sconfitte in otto Stati dell’America bianca, dai Grandi Laghi alle Montagne Rocciose. Martedì 26 aprile, il voto in Pennsylvania e in altri quattro stati della Costa Est - Connecticut, Rhode Island, Delaware, Maryland - potrebbe chiudere il discorso, se non matematicamente, almeno politicamente.

Sanders accampa scuse per il tracollo a Brooklyn dov’è nato (“Non ci hanno fatto votare”, dice) e tradisce nervosismo adirandosi per una t-shirt che lo ritrae, lui ‘socialista’, accanto ai grandi leader del comunismo mondiale.

Un’accettazione rassegnata
L’accettazione, certo non sempre entusiasta, anzi spesso rassegnata, se non insofferente, dell’idea di Trump candidato è, per i repubblicani, un corollario delle primarie di New York, che hanno dimostrato la sua forza (e anche la debolezza dei suoi rivali).

E, intanto, perde credibilità l’ipotesi di ribaltare l’andamento delle primarie, un inverno e una primavera di voti in tutta l’Unione, con una sorta di ‘congiura di palazzo’ alla convention, tirando fuori dalla manica del partito un asso. Tanto più che assi ce ne sono pochi in giro, dopo che Mitt Romney e Paul Ryan - ammesso che tali siano - si sono sfilati. Ormai, s’è instillato il dubbio che la ‘matta’ Trump valga più di qualsiasi asso e possa sparigliare il gioco.

Il magnate dell’immobiliare, alle prese con l’ennesima polemica - s’è ora scoperto che la licenza d’uno dei suoi aerei non è in regola -, sta cercando di rendere più presidenziale la sua immagine, senza però tradire il suo pubblico: in un’intervista a Fortune, dà il suo ok ai tassi d’interesse bassi della Fed, ma ne boccia la responsabile Janet Yellen, di cui annuncia il siluramento - sempre che lui diventi presidente.

I risultati della Grande Mela
Dopo le primarie di New York, le strade di Hillary e di Trump sono spianate, salvo incidenti di percorso o caduta di scheletri dall’armadio. Fra i repubblicani, Trump arriva al 60% dei suffragi, con il governatore dell’Ohio John Kasich al 25% e il senatore del Texas Ted Cruz, qui un pesce fuor d’acqua, al 15%. Come delegati, lo showman incassa quasi la totalità di quelli in palio. L’unica delusione gliela dà Manhattan: Kasich vince proprio nel distretto dove lui ha casa e vive.

Trump è talmente su di giri da riuscire a comportarsi da moderato: la sconfitta nel Wisconsin pareva la svolta della campagna, quando gira il vento; e, invece, il magnate dell’immobiliare sommerge sotto una marea di voti gli avversari e non ha neppure più paura d’una ‘convention aperta’ e può accantonare la ‘guerra dei delegati’ con il partito.

Fra i democratici, l’ex first lady è al 58%, Sanders al 42%; come delegati, circa 150 a oltre 100. Hillary s’avvicina a quota 2000, oltre l’80% dei necessari per garantirsi la nomination.

Per la Clinton, hanno votato Woody Allen e molti altri intellettuali ‘liberal’, oltre che neri e ispanici; per Sanders, protagonista di bagni di folla memorabili a Manhattan e a Brooklyn, soprattutto i giovani, le donne, la classe media. L’effetto Vaticano, invece, non c’è stato: l’incontro ‘rubato’ a Papa Francesco la mattina di sabato 16 aprile non ha dato una spinta misurabile.

La corsa a ‘fare i newyorchesi’
La campagna nella Grande Mela è stata tutta nel segno del ‘fare i newyorchesi’: che siano veraci come Trump; solo di origine come Sanders, nato a Brooklyn, ma con tutta la carriera politica fatta altrove; o di risulta, come la Clinton, nata a Chicago, solo dal 2000 con residenza nello stato e seggio di senatore a New York.

Al ‘club dei newyorchesi’, non ha neppure provato ad iscriversi Cruz, che ha anzi criticato i “valori di Manhattan”, per lui troppo liberal. Kasich è stato tradito da una pizza affrontata con le posate nel Queens, dove la mangiano con le mani. Ma anche Hillary e Sanders hanno avuto i loro disguidi con la metropolitana.

Le feste della vittoria davanti alla Trump Tower, con i soliti slogan, “Faremo l’America di nuovo grande” ed economia, Obamacare, immigrazione. E a Times Square, con repliche di prammatica (“Invece di costruire muri, noi abbatteremo le barriere”) e una nota sentimentale alla Liza Minnelli: “Non c’è nessun posto come casa propria. Grazie, New York”.

Prossime fermate: Pennsylvania e Costa Est
Intanto, la campagna è già altrove. Trump e la Clinton partono favoriti in Pennsylvania, lo Stato più popoloso del lotto del 26, ma devono comunque dribblare qualche difficoltà.

Il 20 aprile, manifestanti afro-americani sono stati scortati via da un comizio di Hillary a Filadelfia, dopo avere gridato di non votare per lei che "sta uccidendo il popolo nero". Ma Sanders sta peggio: è indietro nei sondaggi; ha appena perso come consigliere l’economista Jeffrey Sachs, che gli apriva le porte del Vaticano; e rende lo scontro più aspro perché l’ha già perso.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI
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Stati UNiti: le elezioni presidenziali

Usa 2016
'Primarie farsa': gli establishment nel mirino
Azzurra Meringolo
19/04/2016
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Primarie per legge e democrazia interna ai partiti. Proprio nel momento in cui in Italia c’è chi cerca di imporre per legge quanto da metà ‘800 accade nei partiti statunitensi, nel Paese a stelle e strisce queste pratiche sono sotto severo scrutinio.

Candidati, delegati ed elettori sono sempre più scettici sulla reale democraticità del processo di selezione. I vertici dei partiti - almeno pubblicamente - non battono ciglio, ma tra quanti rincorrono si sentono sempre più spesso le voci di coloro che, impotenti a cambiarne il meccanismo, cercano vie alternative per farlo deragliare.

Super-delegati, elettori senza vincolo di mandato
Anche se già dall’indomani del Super-Tuesday Bernie Sanders sa che i numeri non sono dalla sua parte, il fatto che continui a incassare successi elettorali galvanizza i suoi sostenitori per nulla pronti ad arrendersi e infastiditi dall’elevato numero di super-delegati sui quali può contare la battistrada democratica Hillary Clinton.

Si tratta di un gruppo di super-elettori (circa il 15% dei 4756 totali) che - notabili e dirigenti del partito democratico e non votati dai cittadini nei caucus e nelle primarie -, arriverà alla convention senza vincolo di mandato. Fino ad ora Sanders può contare solo su 31 di essi: briciole, rispetto ai 469 - tra i quali ovviamente Bill - schieratisi con l’ex first lady.

Per convincere coloro che non si sono ancora sbilanciati e per fare cambiare idea a quanti hanno già promesso il loro voto a Hillary, i sostenitori di Sanders hanno creato un sito web per raccogliere dettagli sui super-delegati.

Dalle loro mail ai numeri di telefono. Partendo dal computer di Spencer Thayer, un attivista residente a Chicago, quella che si sta creando è una rubrica ricca e dettagliata. Un utile elenco telefonico per tutti i cittadini che vogliono fare pressioni su questi delegati. E gli elettori non hanno esitato ad utilizzarlo.

La conferma arriva dalle lamentele di alcuni super-delegati, che hanno denunciato di essere vittime di chiamate notturne, spam informatico e catene di sms. Questo ha spinto Sanders a prendere pubblicamente le distanze da questa campagna che rischia di contaminare il tradizionale meccanismo delle primarie.

Trump verso la convention di Cleveland
Ancora più accesso il dibattito scatenatosi nelle file repubblicane, dove a meno di cento giorni dalla convention di Cleveland, nessun candidato ha ancora raccolto il bottino necessario. Anzi, l’uomo che c’è più vicino (cioè, meno lontano), Donald Trump, è quello più inviso alla leadership del partito, che ne ha preso pubblicamente le distanze.

Questo atteggiamento ha portato l’istrionico tycoon a puntare il dito contro il partito, accusandolo di voler fare deragliare il processo di selezione nelle mani dei cittadini. Qualora Trump, come si prospetta, non arriverà a Cleveland con la maggioranza assoluta dei delegati, pur essendo il candidato più votato dagli elettori repubblicani che hanno partecipato alle primarie, potrebbe essere bocciato da una convention pronta a lanciare un altro nome nella corsa verso la Casa Bianca.

È questo scenario che ha portato Trump a bollare le primarie come un istitutodemocratico solo in superficie, ma in realtà corrotto alla radice. Il dibattito si concentra non tanto sui super-delegati (non presenti in campo conservatore), quanto piuttosto sul regolamento della convention.

Se Trump non riuscirà a essere nominato nel corso della prima votazione, molti delegati saranno liberi di votare altri candidati nelle successive sedute.

In molti Stati, il regolamento attraverso il quale vengono eletti i delegati impone a questi il vincolo di mandato alla convention solo per il primo voto. Ecco perché in un articolo pubblicato la settima scorsa sul Wall Street Journal, Trump ha parlato di agenti del partito dalla doppia personalità, pronti a ignorare la preferenza espressa dai cittadini che li hanno eletti. Doppiogiochisti al servizio di Ted Cruz - il candidato repubblicano che rincorre a fatica - e che secondo Trump rischiano di trasformare l’intero processo in una farsa democratica.

Democrazia interna ai partiti, lavori in corso
Pur non cambiando tattica, il partito ha sentito il bisogno di contenere le critiche relative alla democraticità dell’intero meccanismo, invitando i 112 membri del comitato a garanzia delle regole a supervisionare le regole del processo di selezione e a non mutare neanche una virgola dell’esistente meccanismo.

Anche se il processo attraverso il quale il partito repubblicano cerca di disfarsi dell’ingombrante Trump non inficerà quindi il regolamento interno, il dibattito e le critiche che ha sollevato hanno costretto l’opinione pubblica a una riflessione che difficilmente si fermerà all’indomani del voto.

In un’annata in cui la sfida interna è durata più del solito, entrambi i partiti hanno capito che le primarie sono tutt’altro che una formalità. A confermarlo sono anche le energie - sia fisiche che finanziarie - che ci hanno messo i diversi candidati. Non solo quelli in testa, ma anche quelli in coda.

Anche se nella sfida finale i partiti Usa devono combattere con un elevato tasso di astensionismo, il dibattito in corso mostra che i cittadini sono sempre più sensibili alla democrazia interna ai partiti. Alle sue opportunità (ad esempio quella di influenzare l’agenda del candidato finale), come ai limiti di un sistema il cui ingranaggio è stato messo a punto in un’epoca ormai tramontata, senza internet e tutte le opportunità create dalla nascita della sfera virtuale.

Quanti vogliono ristrutturare i meccanismi di democrazia interna ai partiti si sono già messi al lavoro. Per l’Italia e l’Unione europea - entrambe prive di un sistema rodato - sarà interessante seguirne l’evoluzione.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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lunedì 18 aprile 2016

USA: il fronte democratico alla corsa presidenziale

Usa 2016
Se le giovani donne voltano le spalle a Hillary
Azzurra Meringolo
12/04/2016
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Hillary Clinton è un’indiscussa pioniera. Nessuna donna è mai stata presidente o c’è andata così vicino. È per questo che molte femministe di vecchia generazione si preparano a festeggiare.

Dopo anni di battaglie, insieme a figlie e nipoti possono ora finire il lavoro iniziato dalle loro antenate. Che cosa aspetta chi non raccoglie questo testimone rosa l’ha detto l’ex segretario di Stato Madeleine Albright, secondo la quale per le donne che la pensano diversamente "c'è un posto speciale all'inferno".

Dati alla mano però, fino ad ora le donne hanno preferito più l’inferno dell'Albright che il paradiso. Nelle primarie democratiche che hanno visto zia Hillary contro nonno Bernie, sono state tante le elettrici che hanno optato per Sanders.

In New Hampshire, lo sfidante della ex first lady si è aggiudicato il 53% del voto femminile (Clinton il 46%). E i suoi numeri tra le più giovani sono stati sorprendenti: è stato sostenuto dall’82% delle donne sotto i 30. Dati simili in Iowa, dove l'84% delle donne della stessa età ha votato per Sanders (il 14% per Clinton).

Le Millennials e il femminismo Usa
Il fatto di essere donna non garantisce quindi alla Clinton alcun vantaggio comparativo nel catturare il voto delle eletttrici. Anzi, è proprio l’elettorato rosa quello che Hillary fatica a catturare maggiormente. Ma anche qui ci sono differenze.

Clinton può ancora contare sulle signore bianche della sua età che portano a casa ogni anno dai 200mila dollari in su. Ostili invece le millennials, quelle donne nate dagli anni ’80 all’inizio del nuovo secolo che non solo non hanno sostenuto la sua candidatura fino ad ora, ma sono addirittura scettiche sul farlo nel momento decisivo.

Le motivazioni che hanno fino ad ora spinto queste giovani ad abbracciare la candidatura del senatore Sanders sono diverse e, andando oltre i programmi dei due contendenti, arrivano alle radici dell’evoluzione del femminismo statunitense. Quest’ultimo sta attraversando una fase di turbolenza ben evidente non solo sulle testate più accreditate, ma anche sulle riviste di avanguardia che si concentrano sulle questioni di genere.

È evidente che le donne più giovani non si accontentano più della tradizionale agenda rosa scritta dalle loro nonne. Le femministe di ultima generazione non hanno come obiettivo quello di portare una di loro ai vertici del sistema. In ottica comunitaria, si preoccupano piuttosto di risolvere i problemi della base: tanto quelli delle signore di colore più emarginate come quelli delle ragazze madri che devono sopperire alla mancanza del congedo di maternità.

L’obiettivo è quello di afferrare il trofeo tutte insieme. Ottimo che Hillary riesca a fare carriera politica, ma perché non aiutare tutte ad avere più opportunità? Sono domande come queste quelle che spingono questo elettorato a preferire un candidato come Sanders che sta provando - con successo - a spostare a sinistra l’agenda del partito democratico, insistendo su tematiche sociali che stanno a cuore soprattutto al ceto medio o a settori particolarmente sensibili della società.

È questo che porta la rivista Politico a concludere che se Hillary fosse nera, omosessuale, giovane o povera - e quindi, membro di un gruppo più vulnerabile - potrebbe ottenere maggior sostegno, raccogliendo anche l’eredità di Barack Obama.

Clinton, la donna dell’establishment
Essendo da anni in politica, la Clinton non riesce a essere percepita come una novità. E se molte giovani la vedono con sospetto ritenendola una da decenni all’interno del sistema politico statunitense, altre sembrano non conoscere la sua storia personale.

Non solo quella legata a suo marito Bill, ma soprattutto quella marcata dalle diverse battaglie sociali da lei combattute con determinazione soprattutto negli anni ‘90. Dalla sua carriera di avvocato alla - mai decollata - Hillarycare, la riforma sanitaria patrocinata dalla Clinton ai tempi in cui il marito era alla Casa Bianca: secondo alcuni sondaggi, solo una millennial su dieci conosce eventi salienti del passato politico della ex first lady.

Dietro i problemi rosa di Hillary si nascondono anche motivazioni che hanno direttamente a che fare con l’evoluzione del femminismo statunitense, un movimento eterogeneo ormai sensibile più a questioni sociali che di genere.

Molte si sono accorte di non essere vittime della stessa discriminazione sessuale che ha condizionato vita e carriera delle loro nonne o mamme che hanno lottato per ottenere l’aborto o la contraccezione.

Per le nuove generazioni l’uguaglianza di genere - diversamente da quella sociale - è un obiettivo a portata di mano. Non sono quindi pronte a votare Hillary solo per il suo sesso, perché sanno che questo non farebbe la differenza.

Elettrici e swing States
Se fino ad ora queste elettrici hanno trovato in nonno Bernie il loro paladino, che cosa faranno in autunno quando Hillary dovrà giocarsi la finale contro il candidato che uscirà vincente dalla convention repubblicana?

Anche se i millennials sono ora la generazione più numerosa del paese, nelle ultime elezioni sono stati i più pigri ad andare votare. È quindi importante capire come il loro voto potrà davvero incidire sui risultati finali.

Secondo dati elaborati dal Center for Information and Research on Civic Learning and Engagement, il loro voto sarà influente in Iowa, Florida, Ohio,Colorado, Pennyslvania, Wisconsin, Virginia, New Hampshire, Nevada e North Carolina. Solo dieci stati, tra i quali troviamo però importanti swing states, ovvero quelli capaci di determinare il risultato finale.

Da qui a novembre, Hillary Clinton riuscirà a farsi conoscere dalle millennials per quella che è veramente, o non spenderà in questa operazione troppe energie? Del resto, dagli anni ’70 ad oggi, le donne non hanno votato in base al sesso, perché aspettarsi che lo facciano quest’anno?

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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USA: sempre più complessa la corsa presidenziale

Usa 2016
Repubblicani, ultima chiamata anti-Trump
Azzurra Meringolo
05/04/2016
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Un partito acciaccato che rischia di frantumarsi davanti agli occhi impotenti dei leader che cercano faticosamente di tenerne le redini. Così appaiono i Repubblicani statunitensi che prima di ogni primaria sperano che sia la volta buona per bloccare la scalata di Donald Trump.

L’obiettivo è anche quello di scongiurare che la convention che si terrà a Cleveland a luglio rinneghi il candidato alle presidenziali scelto dal popolo - cosa che non accade in questo fronte dal 1976 –, mettendo a nudo i problemi che da anni minano la vita all’interno di questo partito.

I repubblicani che oggi si trovano a fare i conti con quella che sembra l’inarrestabile ascesa di un istrionico e imbarazzante tycoon sono infatti gli stessi che da anni combattono una guerra fratricida.

Privatamente, ma anche pubblicamente, come mostrò la battaglia scatenatasi all’indomani delle ultime elezioni di midterm del 2014, quando - pur vincenti - i repubblicani litigarono per riconfermare John Boehner ai vertici della Camera.

Boehner alla fine la spuntò, anche se la spaccatura fu il preludio delle dimissioni annunciate l’anno dopo, svelando la tensione in atto tra le diverse fazioni del partito, in primis tra la leadership e i sostenitori del Tea Party, ribelli più conservatori dei compagni ai vertici.

Conservatori e questioni LGBT 
Ed è proprio su questioni ideologiche che si sta frantumando ora il partito, come mostra quanto sta accadendo in Stati dove i businessmen e gli evangelici che hanno alle spalle un lungo periodo di coesistenza all’interno del partito hanno iniziato a guerreggiare su scottanti temi sociali. Dai diritti degli omosessuali alla libertà religiosa, i toni del confronto sono così alti che anche la stampa mainstream parla ormai di una vera e propria guerra.

I campi di battaglia più evidenti sono la Georgia e la North Carolina, i cui governatori, entrambi repubblicani, hano adottato approcci completamente diversi per rispondere ai propri collegi elettorali. Nel primo caso, il governatore Nathan Deal - che non cerca la rielezione - ha usato il veto per bloccare una legge che avrebbe autorizzato i pastori religiosi a negare a coppie omosessuali i servizi della Chiesa.

In North Carolina invece, Pat McCrory - governatore che corre per un nuovo mandato a novembre - ha firmato una legge che limita il potere delle autorità locali di creare maggiori protezioni per le persone lesbiche, gay, omosessuali o transgender, LGBT. A Charlotte e dintorni, ai transgeder è stato ad esempio chiesto di usare i servizi riservati al loro sesso biologico, quello scritto alla nascita sulla loro carta d’identità.

Dal Wisconsin a New York
Questa lotta a livello statale non fa altro che esacerbare i problemi interni al fronte repubblicano, ora impegnato a neutralizzare un Trump le cui energie si stanno concetrando sulle primarie in Wisconsin. Oggi in palio ci sono 42 preziosi delegati: bottino fra i più alti tra quelli ancora rimasti sulla tavola.

Per calmare le acque interne al fronte repubblicano, giovedì Trump è comparso a sorpresa a Washinghton, dichiarandosi pronto “a tenere il partito insieme”.

L’insolita affermazione del magnate dell’immobiliare è arrivata, caso vuole, proprio poco dopo la pubblicazione dei dati di un sondaggio condotto da Washington Post e Cbc. Ridimensionando la sua reale popolarità e mettendo in discussione il suo percorso verso al Casa Bianca, la rilevazione descrive Trump come il candidato alle presidenziali meno popolare della storia moderna.

Un’eventuale sconfitta in Wisconsin non influenzerebbe necessariamente gli stati dove i repubblicani devono ancora esprimere la loro preferenza sul candidato da fare correre per la Casa Bianca.

Oltre alla California, dove chi vince si porta a casa un tesoretto di 172 delegati, Trump deve ancora affrontare ancora una quindicina di stati e New York. L’appuntamento con la Grande Mela è fissato per il 19 aprile, giorno in cui Trump non sarà l’unico a giocare in casa: lo stesso accadrà infattia Hillary Clinton, che di New York è stata senatrice. E tutti dovranno fare i conti con le diverse variabili che entrano in gioco nel melting pot ai piedi di Wall Street.

Verso la convention di Cleveland 
In un contesto ancora nebuloso e temendo di doversi confrontare con una convention a lui ostile, Trump sembra già essersi messo avanti con il lavoro. Non tutti i membri del suo team cercano di arricchire il gruzzoletto di delegati da portare a Cleveland, con la speranza di averne la maggioranza.

Da qualche settimana lo staff del tycoon fa anche sforzi conservativi. “Evitare di perdere quello già intascato”, riassume sinteticamente una lavagna di una sede di volontari a sostegno di Trump. Ecco perché l’istrionico candidato si sforza di tenere in vita le relazioni con i delegati che si è già assicurato, garantendo loro anche la copertura del viaggio.

Per la prima volta in 40 anni, quanti andranno alla Convention potrebbero avere un ruolo molto più attivo rispetto a quello giocato negli ultimi quattro decenni.

Invece di ratificare il risultato delle primarie, chi andrà a Cleveland potrebbe anche decidere di non mettere un timbro sul nome di Trump. Lui ne uscirebbe sconfitto. Il partito, che ha ormai messo a nudo il suo tendine d’Achille, a pezzi.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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martedì 12 aprile 2016

Brasile: la corruzione travolge la leaderschip

Brasile
Lo scandalo colpisce Lula, affossa Dilma
Ilaria Masiero
06/04/2016
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L’autunno brasiliano promette di essere incandescente. Mentre una imponente inchiesta indaga sul coinvolgimento in uno schema criminale di Dilma Rousseff e del suo predecessore Luiz Inácio Lula da Silva, la presidente registra indici di approvazione minimi ed è a rischio impeachment con l’accusa di aver truccato il bilancio dello Stato.

L’opinione pubblica nel frattempo è polarizzata tra i fedeli sostenitori di Lula, Dilma e del partito di sinistra che rappresentano (il Partito dei lavoratori, Pt), e coloro che li vorrebbero dietro le sbarre con buona parte della classe politica brasiliana. In tutta questa confusione, si rischia di perdere di vista i più profondi e strutturali problemi del Paese.

L’inchiesta Lava Jato
A due anni dall’inizio dell’inchiesta Lava Jato, il più grande caso di corruzione e riciclaggio di denaro della storia del Brasile, si fatica a vedere la luce fuori dal tunnel.

La complessa trama criminale intreccia funzionari pubblici, politici e società private intorno agli appalti per i contratti del colosso energetico statale Petrobras.

Alcuni dirigenti di questa compagnia statale ricevevano tangenti per manipolare l’assegnazione degli appalti dopo essere stati eletti e appoggiati da parlamentari e partiti politici (incluso il Pt) che a loro volta ricevevano tangenti a titolo individuale e per il partito.

Le imprese appaltatrici, d’altro canto, erano organizzate in un cartello che spartiva le commesse e sovrafatturava i lavori (pagati con denaro pubblico), oltre a gestire una rete di intermediari che riciclavano il denaro per poi ripassarlo ai vari complici.

L’eredità di Lula e il declino di Dilma
Durante la presidenza Lula (2003-2010), Dilma Rousseff è stata presidente del consiglio di amministrazione della Petrobras. Alcuni collaboratori di giustizia sul caso Lava Jato hanno sostenuto che Dilma sapesse dello schema criminale e abbia tentato, insieme a Lula, di ostacolare le indagini.

Per Lula, il sospetto è che abbia partecipato allo schema e incassato tangenti. Il 16 marzo, mentre si diffondeva la voce di un suo possibile arresto, la Rousseff lo ha nominato ministro, carica che garantisce una speciale immunità.

Poche ore dopo è stata divulgata una conversazione telefonica tra i due dalla quale emergono pochi dubbi sul fatto che la nomina a ministro sia avvenuta proprio per impedire l’arresto dell’ex presidente. Sulla scia di questi eventi, un giudice federale ha provvisoriamente sospeso la nomina, scatenando una battaglia giudiziaria di ricorsi e contro-ricorsi. Attualmente, la nomina è ancora sospesa.

Di umili origini e grande carisma, Lula è stato firmatario di importanti programmi sociali a favore dei più svantaggiati. L’ex presidente ha lasciato il palazzo presidenziale con un incredibile 80% d'approvazione popolare.

La vittoria della sua protetta, Dilma, nelle successive elezioni era praticamente scontata. E la presidente ha mantenuto e esteso i programmi sociali voluti dal suo predecessore, incassando un buon sostegno popolare nei primi anni di presidenza.

In seguito, tuttavia, l’arrivo della crisi economica e gli scandali legati all’inchiesta Lava Jato, tra le altre cose, hanno affossato il tasso di approvazione della Rousseff, che al momento si attesta poco sopra il 10%. Dilma rischia inoltre di perdere il mandato a causa di un procedimento di impeachment iniziato nel dicembre 2015. L’accusa è di aver truccato il bilancio dello stato del 2014 per nascondere la grave condizione economica del paese.

Fora Dilma!, è l’ora di Temer?
In caso di impeachment, Dilma sarebbe sostituita dal suo vice, Michel Temer, del partito centrista Pmdb (Partito del movimento democratico brasiliano). Buona parte dell’opinione pubblica anti-Pt è focalizzata su questo obiettivo, al grido di Fora Dilma!(Fuori Dilma!). In realtà, i problemi del paese hanno radici profonde e l’uscita di scena di Dilma rappresenterebbe solo un primissimo passo verso la soluzione.

Nell’era pre-crisi, il Brasile di Lula ha cavalcato l’onda della crescita e degli alti prezzi delle commodities di cui il paese è ricco, e finanziato con questo tesoretto una serie di programmi di trasferimento di reddito a favore dei più poveri (uno fra tutti, il Bolsa Família).

Dilma ha continuato sulla stessa strada, ma si è scontrata con condizioni economiche radicalmente differenti: il prezzo del petrolio è crollato, il Pil presenta tassi di crescita negativi, la disoccupazione è quasi raddoppiata dal 2014 e l’inflazione ha superato la soglia del 10%. Tutto ciò ha portato a un generale impoverimento, ingrossando ulteriormente le fila dei destinatari dei vari programmi sociali: oggigiorno, circa un brasiliano su quattro è beneficiario del Bolsa Família.

In sostanza, Lula ha commesso il peccato originale di finanziare spese certe con risorse incerte. Dilma si è dimostrata incapace di reagire alle mutate condizioni economiche, traghettando il Paese verso allarmanti livelli di deficit di bilancio e debito pubblico.

Per uscire dall’impasse, il Brasile ha bisogno di riforme radicali che non si limitino a mettere “una pezza” al deficit pubblico, ma reimpostino la strategia economica e il bilancio dello stato secondo canoni contabili più sostenibili.

Queste riforme potrebbero essere impopolari, perlomeno nel breve periodo, e non è chiaro se un governo guidato da Temer e indebolito dallo scandalo Lava Jato avrebbe la forza e gli incentivi necessari ad agire in tal senso.

Ilaria Masiero è laureata in Discipline Economiche e Sociali e dottoranda in Economia presso la Fundação Getulio Vargas di San Paolo.
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