mercoledì 26 ottobre 2016
domenica 23 ottobre 2016
USA: politica in difficoltà nel Golfo
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Il sostegno statunitense alla missione militare a guida saudita in Yemen non è un assegno in bianco. Con queste parole l’Amministrazione Usa ha voluto sottolineare il proprio crescente disappunto nei confronti non soltanto di una gestione del conflitto sempre più problematica da parte delle autorità saudite, ma anche di un trend che rischia di portare Washington a un coinvolgimento diretto nelle ostilità.
I recenti attacchi alla nave militare statunitense Mason che stazionava in acque internazionali nel Mar Rosso da parte dei ribelli Houthi rappresentano passi decisi in quella direzione. Nel frattempo, la Casa Bianca ha dichiarato di voler avviare un’immediata revisione del proprio sostegno all’Arabia Saudita in Yemen, aiuto che per il momento si è concretizzato in intelligence e training, nonché negli attacchi mirati compiuti da droni statunitensi contro i ribelli nemici di Riad. La guerra saudita in Yemen influenza la relazione con gli Usa Si tratta dell’ennesima crisi nei rapporti tra Washington e Riad, scatenata dall’uccisione di 140 civili durante una cerimonia funebre nella capitale Sana’a controllata dagli Houthi per la quale il dito è stato puntato contro l’Arabia Saudita. Riad nelle ultime settimane ha intensificato i bombardamenti a tappeto delle postazioni controllate dai ribelli e dalla popolazione civile a essi simpatizzanti. C’è da domandarsi se questa crisi porterà a un sostanziale cambiamento nelle relazioni tra i due partner strategici in un momento in cui gli Stati Uniti si trovano alle prese con una feroce campagna presidenziale e l’Arabia Saudita deve affrontare - a livello interno e regionale - le conseguenze del piano di riforma ‘Visione 2030’ , lanciato dal giovane vice principe ereditario Mohamed Bin Salman, e dell’impegno militare nel vicino Yemen che sta drenando ingenti risorse statali. Sulla scia del collasso dei prezzi del petrolio, l’Arabia Saudita aveva accumulato un deficit di 100 miliardi di dollari nel 2015, mentre le riserve del Paese in valuta straniera sono calate di un quarto negli ultimi due anni, obbligandolo a chiedere prestiti alle banche estere. Alcuni progetti infrastrutturali sono stati sospesi, creando malumori e proteste tra i lavoratori stranieri che mandano avanti i cantieri del Regno. La crisi economica è stata aggravata da due fattori, uno di natura strutturale e uno contingente alla specifica situazione regionale in cui si trova il Paese. Con il quasi raddoppio della popolazione saudita dal 1990 a oggi, circa la metà dei sauditi oggi ha meno di 25 anni e il settore privato - a fronte di un pubblico ormai più che saturato - non è in grado di assorbire i quasi 300 mila giovani che si affacciano al mercato del lavoro ogni anno. Ergo occorre cambiare il modello economico e provvedere a tagli per liberare risorse da impiegare in maniera più produttiva. Il secondo fattore è invece rappresentato dall’impegno militare in Yemen, proprio nel momento in cui esso rischia di divenire un elemento di frizione nelle relazioni con l’alleato strategico statunitense. Jasta: le famiglie delle vittime dell’11 settembre possono fare causa all’Arabia Saudita Tali relazioni sono in balìa di un altro dossier sensibile che ruota intorno al superamento del veto di Barack Obama nei confronti della legge votata dal Congresso che permetterebbe alle famiglie delle vittime e ai superstiti dell’11 settembre di citare in giudizio cittadini sauditi in quanto sponsor degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle. Un diretto coinvolgimento da parte del governo saudita o di personalità di spicco dell’establishment del Regno negli eventi che provocarono la morte di circa 3000 persone non è tuttavia finora emerso. Dopo l’approvazione unanime da parte del Senato e il passaggio alla Camera, il Justice Against Sponsors of Terrorism Act, Jasta, è stato temporaneamente bloccato dal Presidente attraverso il proprio potere di veto. Obama aveva addotto giustificazioni in merito alla sicurezza del Paese e dei propri cittadini di fronte alla possibilità che una simile forma di giustizia venga invocata a favore dei cittadini di altri paesi quali il Pakistan, lo Yemen o la Somalia, vittime di atti terroristici compiuti dagli Stati Uniti. Il superamento, il 28 settembre, del veto presidenziale a larga maggioranza ha rappresentato un colpo durissimo per la presidenza ormai agli sgoccioli di Obama che ha pubblicamente espresso disappunto in merito alla decisione del Congresso e del contrasto venutosi a creare tra esso e la Casa Bianca a meno di quattro mesi dallo scadere del proprio mandato presidenziale. Secondo alcuni membri del Congresso, l’Amministrazione Usa si sarebbe voluta piegare alle pressioni saudite che, per mano del proprio ministro degli Affari Esteri, Adel al-Jubeir, aveva dato avvio a una forte campagna per impedire il passaggio della legge a partire dal primo voto al Senato del maggio scorso. L’asse Washington-Riad non vacilla Alla luce dell’incertezza circa le conseguenze concrete del Jasta, da una parte, e del crescente malcontento da parte di Washington a proposito della condotta saudita in Yemen, dall’altra, sarebbe lecito aspettarsi una revisione o, quantomeno, un raffreddamento nei rapporti bilaterali tra i due partner strategici. Ciò in uno scenario ipotetico. Nella realtà, per quanto scomoda e difficile da giustificare agli occhi della propria opinione pubblica la relazione Stati Uniti-Arabia Saudita possa essere divenuta, i due alleati hanno bisogno l’uno dell’altro. E in questo spirito il Congresso statunitense - che ha lottato con successo per far passare la legge per permettere ai propri cittadini di citare in giudizio uno stato sponsor del terrorismo - ha trovato la forza, senza nemmeno troppo turarsi il naso, per impedire un emendamento volto a bloccare la vendita di un miliardo e mezzo di dollari di armi a vantaggio dello stesso stato in questione. Quwsto è il segno che vi è bisogno di molto di più per far vacillare l’asse Washington-Riad. Silvia Colombo è ricercatrice dello IAI. |
giovedì 13 ottobre 2016
USA. Elezioni presidenziali. Più spettacolo che politica
COLOMBIA: la pace ancora possibile
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Il Nobel è arrivato anche se pace non è fatta. Il premio al presidente Manuel Santos è arrivato infatti pochi giorni dopo la sconfitta referendaria del 2 ottobre che sembra far naufragare l’intesa raggiunto tra il governo colombiano e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, Farc, Un accordo frutto di quattro anni di intensi negoziati. Forse però non tutto è perduto.
Con uno scarto di appena 54 mila voti (50,2% a 49,8%) e un tasso di astensionismo oltre il 60%, il popolo colombiano ha bocciato a sorpresa l’accordo di pace che avrebbe posto fine a un conflitto civile durato più di 50 anni (il più lungo nella storia dell’America Latina) e responsabile di circa 250 mila morti e almeno 6 milioni di sfollati (più del 10% della popolazione). A far pendere l’ago della bilancia a favore del “no” sembrano esser stati i termini dell’accordo, ritenuti troppo indulgenti con le Farc - il gruppo armato di ispirazione marxista che attualmente conta meno di 10 mila guerriglieri e si finanzia con attività illegali quali il narcotraffico e l’estorsione. A fronte della fine delle ostilità, del disarmo delle Farc e della restituzione delle terre illegalmente confiscate, l’intesa prevedeva che gli ex-guerriglieri beneficiassero di una generosa (sebbene parziale) amnistia, un sussidio economico individuale, dei fondi per dar vita a un partito politico, nonché dieci seggi garantiti in Parlamento in ciascuna delle prossime due legislature. A questi patti il popolo non c’è stato; la palla ora torna ai negoziatori. Santos e Timochenko Il rigetto dell’intesa ha preso in contropiede i suoi principali fautori - il presidente Juan Manuel Santos fresco di Nobel da un lato e il leader delle Farc Rodrigo Londoño “Timochenko” dall’altro - senza però scalfire il loro comune interesse al raggiungimento di un accordo. Questa non è una sorpresa:la posta in gioco è altissima per entrambi. Santos, che è al suo secondo e ultimo mandato, si gioca la sua eredità politica. Il presidente, infatti, prepara il terreno per i negoziati con le Farc fin dal 2012, e proprio sul tema del dialogo ha disputato e vinto le ultime elezioni (2014) nonché, pochi giorni dopo il referendum, il premio Nobel per la pace - che ha il sapore di un premio di incoraggiamento.È dunque comprensibile che Santos non intenda arrivare a fine mandato (2018) a mani vuote. D’altra parte, Timochenko si gioca la possibilità di un reinserimento agevolato in società per sé stesso e per i suoi, traghettando il gruppo dalla clandestinità nelle foreste alla dignità delle camere parlamentari. Inoltre, anche in vista di una prossima partecipazione al processo democratico del paese, il leader delle Farc ha molto da guadagnare in termini di immagine dal suggellare lo storico accordo con la sua firma. Un’altra pace è possibile L’inaspettato esito del voto popolare rappresenta un salto nel buio, ma sembrano esserci alcuni segnali incoraggianti. Il primo è che il “no” ha vinto solo per una manciata di voti. Anche considerando l’astensionismo, il passaggio dell’uragano Matthew sembra avere ostacolato l’affluenza alle urne soprattutto in aree che avevano sostenuto Santos e il suo programma pro-dialogo alle scorse elezioni. Questo lascia accesa la speranza che una nuova proposta di intesa potrebbe sortir miglior fortuna. Persino il leader del fronte del “no”, l’ex-presidente Álvaro Uribe, è passato dal predicare il pugno di ferro al partecipare al dibattito per l’elaborazione di un nuovo accordo. Il secondo elemento che emerge dal referendum è che la prossima proposta di intesa dovrà essere almeno marginalmente meno concessiva con i guerriglieri. Timochenko lo sa e anche così ha escluso il ritorno alle armi. Questo può significare una sola cosa: che c’è margine per mettersi d’accordo. La pace è possibile, ma la guerra non è esclusa L’unica alternativa per le Farc sarebbe fare dietrofront e re-imbracciare le armi, il che - dopo aver chiesto pubblicamente perdono a tutte le vittime del conflitto, aver celebrato la fine delle ostilità con una grande festa in stile Woodstock e aver più volte dichiarato che non è più tempo per la lotta armata - sembra improbabile, ma non impossibile. Molto dipenderà dall’abilità dei negoziatori di arrivare a un nuovo accordo. Moltissimo dipenderà dalla rapidità con cui lo faranno. Nell’assenza di un’intesa definitiva, il cessate il fuoco tra governo e guerriglia nonché la sospensione delle attività illegali da parte di quest’ultima, attualmente in vigore, non possono durare a lungo. Senza chiare garanzie giuridiche e a corto di mezzi di sostentamento, il rischio è che i guerriglieri (con o senza il placet del loro leader) optino per il ritorno alla vita di prima, mandando all’aria tutto il percorso di dialogo degli ultimi anni. Metter fine a un conflitto richiede negoziati complessi, in cui ogni parte cerca di portarsi a casa il risultato concedendo all’altra solo il minimo indispensabile. Non è facile. Sarebbe però una disdetta se, in una rara congiuntura in cui tutti vogliono la pace, la guerra avesse la meglio. Ilaria Masiero è laureata in Discipline Economiche e Sociali e dottoranda in Economia presso la Fundação Getulio Vargas di San Paolo. | ||||||||
lunedì 10 ottobre 2016
USA. II confronto fra i candidati
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Qualcosa mi suggerisce che il candidato repubblicano alla vicepresidenza, Mike Pence, lo ritroveremo sui percorsi della Casa Bianca, magari come candidato 2020 alla nomination repubblicana, che Donald Trump non ce la faccia l’8 novembre o che ce la faccia, ma poi non regga il peso dell’età per un secondo mandato.
E qualcosa mi suggerisce che il vice scelto da Hillary Clinton, Tim Kaine, sia già arrivato dove non pensava d’arrivare e non abbia l’ambizione di andare oltre: se lei vince, ne sarà il vice; se perde, resterà senatore, almeno fino al 2019. Ma la corsa alla Casa Bianca non è per lui (e lui ne pare conscio). Teniamoci stretto i titolari Visti i vice, chiunque vinca teniamoci ben stretto il titolare e speriamo che nulla gli accada, di qui a fine mandato: Kaine e Pence trascorrono i 90’ del loro dibattito in diretta televisiva a fondersi ciascuno nella personalità del proprio boss, ad apparirne quasi dei sosia. Al massimo, c’è uno sforzo di complementarità. Pence vuole trasmettere una sensazione di tranquilla autorevolezza, apparire persona di buon senso, proprio l’opposto dell’aggressività impulsiva del suo capofila, di cui però fa proprie anche le tesi e i gesti più paradossali. Kaine, invece deve quasi fare dimenticare di essere un uomo, per non minare il primato di Hillary, la prima donna sulla via della Casa Bianca. In questo, lo aiuta quel fare un po’ dimesso da professore, o preside, di scuola media e quel ‘odor di sacrestia’ che gli resta addosso dai suoi trascorsi gesuitici. Come la pensino davvero Hillary e Donald si capisce solo quando l’ottima moderatrice, Elaine Quijano, giornalista della Cbs d’origini filippine, la più giovane a gestire un dibattito nazionale dai tempi - 1988 - di Bush padre e Dukakis, li sollecita sul personale: la religione e l’aborto. Per il resto, è tutto un ‘Hillary pensa’ e ‘Donald dice’; e un intreccio di attacchi reciproci mai l’un l’altro, ma sempre all’altrui capofila. Tatticamente, i due vice giocano a parti rovesciate rispetto ai loro boss: Kaine è più aggressivo, ha lampi d’energia negli occhi; Pence ha la forza tranquilla. Gruppi d’ascolto e un sondaggio a caldo Cnn/Orc gli danno la vittoria, 48 a 42%, anche se le battute più efficaci sono del democratico. Domenica, nel secondo dibattito con Hillary, Trump dovrà tenere a mente la lezione: il pubblico sembra preferire quest’anno chi smorza e si difende a chi punge e attacca. John Podesta, presidente della campagna della Clinton, mette un po’ di sale sulla coda del dibattito e ipotizza senza mezzi termini che Pence abbia corso per sé e non per Trump: una versione di parte che rovescia la frittata (Kaine esce sconfitto, ma Trump perde). Il ‘crociato’ e il ‘missionario’ Sul palco della Longwood University di Farmville in Virginia, con lo stesso allestimento già usato per il primo dibattito presidenziale il 26 settembre alla Hofstra University nello Stato di New York, Pence e Kaine si sono presentati a cravatte invertite, blu il repubblicano, rossa il democratico, entrambi con completi scuri, camicia chiara, spilletta sul bavero sinistro: Pence con i capelli bianchi ancora folti e in ordine; Kaine con i capelli grigi più radi e meno controllati. Il democratico giocava in casa perché è stato sindaco di Richmond, governatore della Virginia ed è ora senatore dello Stato. Per i due vice, era l’occasione per farsi conoscere perché il 40% degli americani manco sa chi sono, non ne conosce i nomi - ma quel 40% di sicuro non guardava il dibattito. I telespettatori, circa 50 milioni, una platea cospicua per un dibattito ‘di serie B’, hanno scoperto due ligi numeri due, non due leader. Solo verso la fine, alle domande sulla loro fede e sull'aborto, i due hanno entrambi risposto con accenti personali e convinti: Kaine è cattolico, è stato missionario in Honduras e ha raccontato la sua difficoltà a gestire la pena di morte da governatore; Pence è un cattolico ‘convertito’ evangelico ed è un crociato ‘pro vita’. Il Monte Rushmore degli uomini forti I temi del confronto sono stati l’immigrazione, la sicurezza, la lotta contro il terrorismo, l’economia - poco - e l’assistenza sanitaria, gli errori fatti e gli insulti lanciati nella campagna. Kaine ha così contestato a Trump le offese e le discriminazioni contro i messicani, i musulmani, le donne; Pence ha ricordato il “cesto di miserabili” detto dalla Clinton di metà dei sostenitori di Trump. Kaine è “spaventato a morte” dalla prospettiva di Trump comandante-in-capo. Pence giudica “brillante” l’abilità di Trump nel pagare meno tasse possibile, o nel non pagarle del tutto, e rinnova l’impegno a cancellare la riforma sanitaria del presidente Barack Obama, quel ‘obamacare’, che il marito di Hillary, Bill, con una gaffe da pivello, ha appena definito, parlando nel Michigan, “la cosa più folle del mondo”. “Trump ha il suo Monte Rushmore personale”, dice il democratico, con le effigie di Vladimir Putin, Kim Jong-un, Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. “Questa se l’è preparata a lungo”, gli fa eco, un po’ invidioso, Pence, che cerca di difendere le posizioni di Trump su Putin - “è un leader più forte di Obama” - o sul nucleare. E qui Kaine ricorda le tesi del magnate sulla proliferazione nucleare, a favore che Arabia Saudita, Giappone e Corea del Sud si dotino della bomba (“Questo è più sicurezza?”, chiede, senza avere risposta). E racconta che Ronald Reagan era preoccupato che qualcuno come Trump diventasse presidente, quando ammonì che "qualche idiota o maniaco poteva scatenare un evento catastrofico" con le armi nucleari. Pence contrattacca sulle responsabilità della Clinton nel Medio Oriente e nell’accordo nucleare con l’Iran. Entrambi criticano l'altrui Fondazione. Alla fine, stretta di mano e ritorno dietro le quinte. Domenica 9, toccherà di nuovo ai leader, non alle loro controfigure. I sondaggi si succedono e Hillary resta salda in testa, grazie al primo match: la Nbc le dà sei punti sul suo rivale. E il vice-presidente Joe Biden si sbilancia: “Hillary vincerà nettamente”. Lui pensa alle elezioni, non al confronto del 9, dove Trump promette di essere cattivo: la forza tranquilla, lui non sa cos’è. Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI. |
giovedì 6 ottobre 2016
Colombia: i nuovi orizzonti di pace
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L'accordo di pace in Colombia non rappresenta solo la fine dell'ultimo vestigio della Guerra Fredda in America Latina. Significa anche la resa di uno degli ultimi gruppi combattenti contro il mercato.
Quattro anni fa, Iván Márquez, uno dei leader delle Farc aveva aperto le trattative di pace a L'Avana con le seguenti parole: "Siamo venuti per smascherare questo assassino metafisico che è il mercato, siamo venuti a denunciare il carattere criminale del capitale finanziario, siamo venuti a mettere neoliberismo sul banco degli imputati come boia dei popoli e fabbrica di morte". Quattro anni dopo, le Farc depongono le armi senza che il mercato sia stato sconfitto o il neoliberismo abbia cessato di ispirare la maggior parte delle economie dell'America Latina e del mondo. E senza che il “grande capitale finanziario internazionale” abbia cessato di essere “egemone”, come non si stancano di ripetere i leader guerriglieri. La retorica marxista si è dovuta arrendere alla realtà dei fatti. Per l’Economist, il riconoscimento da parte delle Farc dell’ordine costituzionale colombiano è la morte di un ceppo di violenza stalinista che ha afflitto l'America Latina per decenni. Un ceppo di violenza che ha provocato oltre 220 mila morti, 45 miladesaparecidos e 6,9 milioni di profughi interni costretti ad abbandonare le proprie case. Senza contare che le Farc hanno fatto del sequestro di essere umani - fenomeno rappresentato da numeri elevati - una fonte di finanziamenti. Farc in attesa del debutto alle urne Alla luce di tutto ciò, è utile ragionare sugli effetti che le Farc potranno rappresentare all’interno del panorama elettorale colombiano, sempre nel caso in cui l’accordo di pace dovesse essere effettivamente concretizzato. Per la prima volta l’organizzazione di ispirazione marxista-leninista disputerà il potere con i voti invece che con i proiettili. E non è affatto detto che non conquisti un buon risultato alle urne. I problemi che hanno portato al sorgere del gruppo guerrigliero-terrorista sono reali e ancora molto presenti nella società colombiana, così come in gran parte dell’America Latina. Differenze sociali estreme, eccessiva concentrazione della ricchezza, proprietà fondiaria in mano a pochi proprietari, condizioni miserabili di buona parte delle popolazioni locali, nessuna prospettiva di miglioramento futuro. Le Farc non sono nate per caso. Né è un caso che esse abbiano resistito dal 1964, prosperando all’interno della foresta tropicale e sopravvivendo alla caduta del muro di Berlino e alla sconfitta ideologica mondiale del socialismo. Il conflitto in Colombia è stato una vera e propria guerra civile, combattuta sulla base di un astio ideologico apparentemente insanabile, in una regione del mondo, l’America Latina, dove il socialismo reale è ancora studiato sui banchi di scuola e nelle università come alternativa viabile. E senza limare queste differenze non è possibile ricucire una nazione che ha convissuto con una violenza brutale per oltre mezzo secolo. Le trattative con i campesinos e la questione rurale Infatti, la necessità di uno stato vigile, che mitighi le conseguenze più ruvide del sistema economico colombiano, è ben presente nell’accordo di pace tra governo e Farc. Il primo capitolo si concentra su una specie di riforma agraria che prevede, nello specifico, l’iniziativa di trattative dignitose con i campesinos. Un colombiano su tre vive nella Colombia rural, fattore che lo rende più povero, meno educato e più denutrito dei suoi compatrioti urbani. A mostrarlo è stata anche la relazione sullo Sviluppo Umano 2011 dell'Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. Nelle città colombiane la povertà estrema è del 7%, nei campi raggiunge il 29%. Più del 60% della popolazione rurale in età lavorativa ha concluso solo la scuola elementare e non è un caso che circa la stessa proporzione riceva un pagamento per il proprio lavoro inferiore al salario minimo. I guerriglieri delle Farc sono nati proprio come guerriglia rurale. Per questo motivo prendere di petto il problema della distribuzione fondiaria nell’accordo di pace non è una concessione del governo o un segno di debolezza, come molti hanno considerato, ma illogico riconoscimento della necessità di superare le condizioni socio-economiche squilibrate che hanno portato allo scoppio della guerra civile. Il rapporto con il business della droga In aggiunta, le Farc dovranno decidere che atteggiamento adottare nei confronti di quella economia nera, para-capitalista, che si concentra sul mercato della droga e si affida ai sui trafficanti. Il Rapporto 2015 dell’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) ha infatti confermato la Colombia come il principale produttore mondiale di cocaina. L’enorme massa monetaria che la cocaina garantisce ai trafficanti viene reinvestita in altre attività. Ad esempio, secondo l’agenzia Bloomberg, i narcos controllerebbero il mercato del cambio di valute in Colombia, un canale utilizzato anche per il riciclaggio di denaro. Attraverso una fitta rete di cambiavalute, presenti in centri commerciali di lusso, aeroporti internazionali e addirittura nello stesso palazzo della Banca Centrale colombiana, i trafficanti offrono un cambio con uno sconto del 10% rispetto a quanto offerto da banche e investitori. Anche le Farc utilizzerebbero questo sistema per finanziarsi. Ma da quando il Dipartimento del Tesoro Usa ha scoperto la cosa, ha bloccato gli attivi delle società coinvolte e ha praticamente proibito ai cittadini nordamericani di fare affari con loro. Le Farc dovranno quindi decidere come comportarsi con questo business. Il futuro partito di sinistra che rappresenterà l’eredità ideologica delle Farc dovrà quindi riuscire a presentare critiche concrete alle distorsioni della società colombiana, evitando di cadere nella fallimentare deriva del “bolivarianismo” del vicino Venezuela che tanti danni sta provocando alla popolazione del Paese. Dall’altro lato, dovrà rappresentare un’alternativa alle sinistre “rosa”, come quelle del Partido dos Trabalhadores (PT) in Brasile, che pur dopo 13 anni al potere non sono riusciti a modificare sostanzialmente l’iniquo status quo sociale, perdendo la battaglia contro le disuguaglianze economiche. Ma la sfida politica posta dalle Farc si estende non solo all’insieme delle sinistre latinoamericane, ma anche a se stesse. Come uscire dalla retorica condanna del “neoliberismo egemone”, dalla gabbia ideologica della dialettica marxista e presentare proposte concrete in grado di funzionare e conquistare i voti che i proiettili (veri e retorici) hanno perso. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. |
domenica 2 ottobre 2016
USA. Elezioni Primo confronto
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Il prossimo sarà peggio. E, forse, andrà meglio. Non è un gioco di parole: è questione di prospettiva. Il primo dibattito in diretta televisiva fra Hillary Clinton e Donald Trump, seguito da oltre cento milioni di americani, è stato grintoso, ma senza colpi bassi.
Ora, il candidato repubblicano, uscitone sconfitto, promette che non darà quartiere alla rivale democratica nel secondo appuntamento, l’8 ottobre, a un mese esatto dall’Election Day: “Colpirò più duro”, annuncia il magnate, già pentitosi di non avere sollevato, questioni spinose per l’ex first lady, come le infedeltà del marito, ed ex presidente, Bill. “Mi sono frenato perché c’era Chelsea in sala” spiega, come se la figlia dei Clinton, madre due volte, fosse una fragile adolescente. L’imbarbarimento del dibattito, dunque, è garantito: sarà peggio. Ma pure l’audience è assicurata, magari in crescita, attratta dall’attesa di pruriginose rivelazioni: dunque, andrà meglio. Non è detto, invece, che il risultato cambi. La Clinton, che non nasconde la soddisfazione per com’è andata, dice: “Io non mollo … Il punto è la tempra, l’adeguatezza, la preparazione a ricoprire il ruolo più importante al Mondo”. E il presidente Obama, che ha seguito il primo dibattito nella Treaty Room della Casa Bianca, la sostiene: “Trump non può fare il presidente, non è preparato”, ribadisce, appena spenta la tv. E poi tweetta: "Non potrei essere più orgoglioso di Hillary. La sua visione e la sua padronanza mostrano che è pronta per essere il nostro prossimo presidente". Il verdetto del pubblico Lo confesso: a me, alla fine, pareva un match pari: non uno 0 a 0, per carità, ché gol ne avevano segnato entrambi, ma un bel 2 a 2 senza biscotto stile Svezia-Danimarca. E lo stesso giudizio avevo captato, via twitter o in presa diretta, da colleghi e commentatori autorevoli ed esperti. Invece, i sondaggi hanno inequivocabilmente indicato che il pubblico ha attribuito una larga vittoria a Hillary Clinton, forse abbacinato dal rosso vistoso del suo completo, non sufficientemente bilanciato dal blu elettrico della cravatta scelta da Donald Trump. Per la Cnn, che fa un sondaggio in tempo reale, Hillary ne esce meglio per il 62% degli intervistati, quasi i due terzi. La Monmouth University chiede se lo showman ha la stoffa per fare il presidente: il 61% risponde no, il 35% sì. E l'editorial board del Washington Post, già schieratosi contro Trump, commenta senza ambiguità: "Il primo dibattito televisivo ha mostrato ancora volta che c'è un unico candidato adatto alla presidenza", la Clinton, "non perfetta ma esperta e sicura". Il dibattito racconta il fallimento del processo di selezione repubblicano, "con la designazione di un candidato che, cinico o ignorante, vende una visione distorta della realtà, squalificandosi praticamente con ogni sua affermazione". Il primo round va, dunque, alla secchiona, che si presenta preparata e tiene a freno i nervi, e punisce l’istrione, che improvvisa e man mano va fuori giri. Ma la vittoria di Hillary è ai punti, non è un ko; Donald ha ancora due occasioni per rovesciare il verdetto, l’8, quando i due dovranno rispondere alle domande dei cittadini, e il 18, quando si tornerà alla formula d’esordio. Il 4 toccherà ai loro vice, Tim Kaine e Mike Pence. Botte e risposte e punture di spillo Lei parte sulla difensiva e finisce all’attacco; lui fa bene la fase di studio, ma poi cede un po’ alla distanza e almeno una volta farfuglia. Il match è regolare, l’arbitro - cioè il moderatore, Lester Holt, giornalista della Nbc - non fischia mai a sproposito. Lui la prende in giro perché s’è preparata al dibattito, ma lei reagisce: "Mi sono preparata a fare il presidente"; e riesce a innervosirlo. Partiti senza affondare i colpi, i due candidati alla Casa Bianca hanno finito con prodursi in attacchi anche personali. Trump dice che Hillary "non ha la tempra" per essere presidente; lei replica che lui "insulta le donne" e le minoranze. Hillary ricorda quello che lei ha fatto nella sua vita politica, lui ribatte "Lo hai fatto male". Trump le rimprovera di non avere pubblicato le sue mail di quando era segretario di Stato; Hillary suggerisce che lui nasconda qualche cosa, rifiutandosi di pubblicare la propria dichiarazione dei redditi. E ancora: "Manchiamo di leadership, colpa di gente come la Clinton" - Trump -; "Donald ha storie di pregiudizi razziali" - Hillary. Nuovo contro vecchio Lui la mette sul nuovo contro il vecchio; lei sull'esperienza contro l’approssimazione. Trump procede per affermazioni categoriche, Hillary cerca di stare ai fatti. In effetti, la verifica sulla veridicità delle affermazioni fatte - un esercizio serio, negli Stati Uniti - becca il magnate in fallo almeno 13 volte. Resta da vedere quanto e come il dibattito avrà cambiato le posizioni fra i due candidati, arrivati quasi in equilibrio al confronto, anche se un sondaggio della Nbc, pubblicato immediatamente prima dello show, dà la Clinton al 45% e Trump al 40%, davanti al libertario Gary Johnson al 10% e alla verde Jill Stein al 3%. Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI. | ||||||||
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