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Il sostegno statunitense alla missione militare a guida saudita in Yemen non è un assegno in bianco. Con queste parole l’Amministrazione Usa ha voluto sottolineare il proprio crescente disappunto nei confronti non soltanto di una gestione del conflitto sempre più problematica da parte delle autorità saudite, ma anche di un trend che rischia di portare Washington a un coinvolgimento diretto nelle ostilità.
I recenti attacchi alla nave militare statunitense Mason che stazionava in acque internazionali nel Mar Rosso da parte dei ribelli Houthi rappresentano passi decisi in quella direzione. Nel frattempo, la Casa Bianca ha dichiarato di voler avviare un’immediata revisione del proprio sostegno all’Arabia Saudita in Yemen, aiuto che per il momento si è concretizzato in intelligence e training, nonché negli attacchi mirati compiuti da droni statunitensi contro i ribelli nemici di Riad. La guerra saudita in Yemen influenza la relazione con gli Usa Si tratta dell’ennesima crisi nei rapporti tra Washington e Riad, scatenata dall’uccisione di 140 civili durante una cerimonia funebre nella capitale Sana’a controllata dagli Houthi per la quale il dito è stato puntato contro l’Arabia Saudita. Riad nelle ultime settimane ha intensificato i bombardamenti a tappeto delle postazioni controllate dai ribelli e dalla popolazione civile a essi simpatizzanti. C’è da domandarsi se questa crisi porterà a un sostanziale cambiamento nelle relazioni tra i due partner strategici in un momento in cui gli Stati Uniti si trovano alle prese con una feroce campagna presidenziale e l’Arabia Saudita deve affrontare - a livello interno e regionale - le conseguenze del piano di riforma ‘Visione 2030’ , lanciato dal giovane vice principe ereditario Mohamed Bin Salman, e dell’impegno militare nel vicino Yemen che sta drenando ingenti risorse statali. Sulla scia del collasso dei prezzi del petrolio, l’Arabia Saudita aveva accumulato un deficit di 100 miliardi di dollari nel 2015, mentre le riserve del Paese in valuta straniera sono calate di un quarto negli ultimi due anni, obbligandolo a chiedere prestiti alle banche estere. Alcuni progetti infrastrutturali sono stati sospesi, creando malumori e proteste tra i lavoratori stranieri che mandano avanti i cantieri del Regno. La crisi economica è stata aggravata da due fattori, uno di natura strutturale e uno contingente alla specifica situazione regionale in cui si trova il Paese. Con il quasi raddoppio della popolazione saudita dal 1990 a oggi, circa la metà dei sauditi oggi ha meno di 25 anni e il settore privato - a fronte di un pubblico ormai più che saturato - non è in grado di assorbire i quasi 300 mila giovani che si affacciano al mercato del lavoro ogni anno. Ergo occorre cambiare il modello economico e provvedere a tagli per liberare risorse da impiegare in maniera più produttiva. Il secondo fattore è invece rappresentato dall’impegno militare in Yemen, proprio nel momento in cui esso rischia di divenire un elemento di frizione nelle relazioni con l’alleato strategico statunitense. Jasta: le famiglie delle vittime dell’11 settembre possono fare causa all’Arabia Saudita Tali relazioni sono in balìa di un altro dossier sensibile che ruota intorno al superamento del veto di Barack Obama nei confronti della legge votata dal Congresso che permetterebbe alle famiglie delle vittime e ai superstiti dell’11 settembre di citare in giudizio cittadini sauditi in quanto sponsor degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle. Un diretto coinvolgimento da parte del governo saudita o di personalità di spicco dell’establishment del Regno negli eventi che provocarono la morte di circa 3000 persone non è tuttavia finora emerso. Dopo l’approvazione unanime da parte del Senato e il passaggio alla Camera, il Justice Against Sponsors of Terrorism Act, Jasta, è stato temporaneamente bloccato dal Presidente attraverso il proprio potere di veto. Obama aveva addotto giustificazioni in merito alla sicurezza del Paese e dei propri cittadini di fronte alla possibilità che una simile forma di giustizia venga invocata a favore dei cittadini di altri paesi quali il Pakistan, lo Yemen o la Somalia, vittime di atti terroristici compiuti dagli Stati Uniti. Il superamento, il 28 settembre, del veto presidenziale a larga maggioranza ha rappresentato un colpo durissimo per la presidenza ormai agli sgoccioli di Obama che ha pubblicamente espresso disappunto in merito alla decisione del Congresso e del contrasto venutosi a creare tra esso e la Casa Bianca a meno di quattro mesi dallo scadere del proprio mandato presidenziale. Secondo alcuni membri del Congresso, l’Amministrazione Usa si sarebbe voluta piegare alle pressioni saudite che, per mano del proprio ministro degli Affari Esteri, Adel al-Jubeir, aveva dato avvio a una forte campagna per impedire il passaggio della legge a partire dal primo voto al Senato del maggio scorso. L’asse Washington-Riad non vacilla Alla luce dell’incertezza circa le conseguenze concrete del Jasta, da una parte, e del crescente malcontento da parte di Washington a proposito della condotta saudita in Yemen, dall’altra, sarebbe lecito aspettarsi una revisione o, quantomeno, un raffreddamento nei rapporti bilaterali tra i due partner strategici. Ciò in uno scenario ipotetico. Nella realtà, per quanto scomoda e difficile da giustificare agli occhi della propria opinione pubblica la relazione Stati Uniti-Arabia Saudita possa essere divenuta, i due alleati hanno bisogno l’uno dell’altro. E in questo spirito il Congresso statunitense - che ha lottato con successo per far passare la legge per permettere ai propri cittadini di citare in giudizio uno stato sponsor del terrorismo - ha trovato la forza, senza nemmeno troppo turarsi il naso, per impedire un emendamento volto a bloccare la vendita di un miliardo e mezzo di dollari di armi a vantaggio dello stesso stato in questione. Quwsto è il segno che vi è bisogno di molto di più per far vacillare l’asse Washington-Riad. Silvia Colombo è ricercatrice dello IAI. |
domenica 23 ottobre 2016
USA: politica in difficoltà nel Golfo
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