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L’Università di Ariel (ex “Ariel College”) è sita in un insediamento israeliano posto nel cuore dei territori occupati da Israele a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967.
Stando al quotidiano israeliano Calcalist, dal 2007 a oggi ha ricevuto fondi pari a 42 milioni di dollari dalle autorità israeliane, una cifra considerevole se paragonata ad esempio ai 600mila dollari elargiti nello stesso periodo all’Università Ben-Gurion del Negev (dove insegnano numerosi docenti critici delle politiche adottate nei territori occupati). Per collegare Gerusalemme con i maggiori insediamenti e con istituti come l’“Università di Ariel”, in questi mesi le autorità israeliane stanno investendo per lo sviluppo di una nuova fitta rete tranviaria e ferroviaria. A dispetto di quanto sovente sostenuto, queste politiche non porteranno (né sono finalizzate) alla creazione di un unico stato tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo in cui tutti i cittadini godano di pari diritti civili e politici. Risulteranno invece nell’annessione della sola percentuale dei territori occupati ritenuta “utile” (risorse naturali) e funzionale (in termini demografici e di sicurezza) alle politiche israeliane. Come accaduto, mutatis mutandis, nella Striscia di Gaza, milioni di palestinesi e di riflesso gran parte delle loro risorse naturali ne resteranno ermeticamente esclusi. Trump e il conflitto L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sembrerebbe rappresentare il tassello in grado di concretizzare i processi di “annessione selettiva” che si stanno delineando. Nelle parole del ministro dell’Economia Naftali Bennett, “Trump’s victory is an opportunity for Israel to immediately retract the notion of a Palestinian state in the center of the country”. Le dichiarazioni rilasciate dal candidato repubblicano nella parte finale della campagna elettorale sembrerebbero in effetti lasciare poco spazio a dubbi. Oltre a esprimersi in favore del trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme (Washington sarebbe a quel punto l’unico Paese al mondo ad avere un’ambasciata a Gerusalemme), Trump ha chiarito che gli “insediamenti non rappresentano un ostacolo alla pace”, esortando Israele a costruirne altri. Fino a marzo del 2016, Trump dichiarava di voler restare “neutrale” e di non volersi esprimere circa i torti e le ragioni delle due parti. Solo a seguito di enormi finanziamenti elargiti da maggio 2016 dal magnate dei casinò Sheldon Adelson, principale finanziatore della campagna di Trump, si è assistito a un cambiamento netto nel tenore delle dichiarazioni. La pratica e le dichiarazioni elettorali saranno dunque, ancora di più di quanto avviene abitualmente, tutte da verificare. Un approccio pragmatico Quanto sta avvenendo in ciò che anche il Dipartimento di Stato Usa indica come “territori occupati” è in parte ricollegabile a questioni connesse alla sicurezza di Israele. Esse possono tuttavia fare luce solo su un frammento di una realtà più complessa. È sufficiente ricordare che circa il 94% dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania è trasportato in Israele e che milioni di palestinesi - a differenza di quanto accade con i coloni, soggetti a legislazione israeliana - sono giudicati da corti militari israeliane: il 99,74% dei processi si conclude in condanne. Le autorità israeliane giustificano tale sperequazione di trattamento sostenendo che la Convenzione di Ginevra proibisce di alterare lo status legale di persone presenti in territori occupati. La medesima Convenzione - così come quella dell’Aja del 1907 in relazione allo sfruttamento delle materie prime - viene tuttavia ignorata per quanto concerne il divieto imposto a una potenza occupante di trasferire (ad esempio tramite enormi finanziamenti) parte della propria popolazione in un territorio da essa occupato. A ciò si sommano considerazioni di carattere più pratico. Caso unico al mondo, milioni di palestinesi sono sprovvisti da mezzo secolo tanto di uno stato quanto di una cittadinanza. Le “potenze occupanti” presenti in contesti come ad esempio il Tibet, Cipro del Nord o il Western Sahara - aventi caratteristiche politiche, economiche e legalipeculiari rispetto al contesto palestinese - mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono assunte anche alcune responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate. Visti da Washington Washington è consapevole di questi aspetti e, a dispetto di un sostegno sovente incondizionato, ha adottato alcune contromisure significative. Lo scorso 23 gennaio la U.S. Customs and Border Protection ha pubblicato ad esempio una dichiarazione ufficiale ribadendo che qualsiasi prodotto proveniente dalla Cisgiordania non può essere legalmente etichettato come “Israel”, o “Made in Israel”. Per l’occasione le autorità statunitensi, pur consapevoli che alcuni insediamenti possano essere mantenuti da Israele nell’ambito di un accordo tra le parti (dunque non stabilito ex ante), hanno citato una nota del Dipartimento del Tesoro del 1997 in cui veniva chiarito che i “goods produced in the West Bank or Gaza Strip shall be marked as originating from ‘West Bank,’ ‘Gaza,’ ‘Gaza Strip,’ ‘West Bank/Gaza”. Le politiche adottate dall’Unione europea e da Washington presentano in questo senso alcuni punti di contatto. È troppo presto per sapere se l’amministrazione Trump indebolirà o smantellerà questo approccio legale e normativo. Molti segnali lo lasciano supporre, inclusa la presenza di Steve Bannon come capo stratega della nuova amministrazione. Tuttavia, storicamente, a differenza di quanto si potrebbe presumere, alcuni degli approcci più pragmatici al conflitto sono stati registrati con amministrazioni a guida repubblicana. Per rimanere alle ultime tre decadi, nel 1991 George H.W. Bush fu il primo presidente a trattenere 400milioni di dollari come “rappresaglia” per le politiche israeliane legate agli insediamenti: per contro, nel febbraio 2011, l’amministrazione Obama ha posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che indicava gli insediamenti come “illegali” e ha accordato ad Israele una cifra mai toccata in precedenza in finanziamenti militari (3,8 miliardi di dollari l’anno). L’amministrazione di Bush padre avviò anche il “processo di pace” a cui fu ammessa a prendere parte l’Organizzazione di liberazione della Palestina (Olp). Quella di “Bush figlio” fu invece la prima amministrazione statunitense a riconoscere il diritto del popolo palestinese a costituirsi in Stato. L’amministrazione Trump e l’establishment repubblicano si muoveranno sullo stesso solco? Dopo la Brexit e l’elezione di Trump è forse più saggio evitare previsioni e trovare conforto nell’ironia di Churchill: “L’abilità in politica consiste nella capacità di prevedere ciò che accadrà domani, la settimana prossima, il mese prossimo, l’anno prossimo. E successivamente nell’essere in grado di spiegare perché non è avvenuto”. Lorenzo Kamel è responsabile di ricerca allo IAI e Marie Curie Experienced Researcher al Frias. Il suo ultimo libro, "Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in late Ottoman Times", ha vinto il Palestine Book Award 2016. |
mercoledì 30 novembre 2016
USA: la nuova presidenza si affaccia in M.O
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