Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

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America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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lunedì 21 novembre 2016

USA: tutti si chiedono il perchè. Ma non era il caso di pensarci prima?

Trump presidente
Un uomo senza diga al proprio potere
Giampiero Gramaglia
16/11/2016
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Due anni di tempo per realizzare due programmi: quello del presidente eletto Donald Trump e quello dei repubblicani. L’agenda del magnate è più fluida, funzione dell’umore e del momento; quella del partito è più prevedibile.

Ci sono punti di contatto: la revoca, almeno parziale, dell’Obamacare, la riforma sanitaria dell’Amministrazione democratica. Ci sono punti d’attrito: l’attuazione del ‘piano migranti’, l’erezione del muro e l’espulsione d’irregolari. Ci sono concessioni ai fondamentalisti: la restituzione agli Stati del potere di decisione sull’aborto, riportando indietro gli Stati Uniti di oltre quarant’anni - questo è compito della Corte Suprema, che deve correggere l’impatto di una sentenza del 1973.

Indicazioni che gli analisti esprimono con cautela, dopo che sondaggisti, esperti, giornalisti, tutti siamo stati persino peggio degli economisti, che non ci azzeccano mai, nel leggere l’orientamento degli americani in vista dell’Election Day l’8 Novembre: la vittoria di Hillary Clinton, largamente pronosticata, s’è tramutata in una disfatta, nonostante l’ex first lady abbia ottenuto più voti popolari del suo rivale - ma, nel sistema federale Usa, contano i Grandi Elettori.

Stavolta, gli elettori statunitensi hanno addirittura perso il loro senso dell’equilibrio paradigmatico: Trump e i repubblicani si trovano nelle mani tutto il potere, la Casa Bianca, il Congresso - Camera e Senato -, una netta maggioranza di governatori e di parlamenti statali; e possono inoltre imprimere alla Corte Suprema un orientamento decisamente conservatore – un giudice va nominato al più presto, per riempire il vuoto lasciato dalla morte di Antonin Scalia; e un altro posto sta per rendersi disponibile.

L’unico frangiflutti alla marea repubblicana è quello rappresentato da Yanet Yellen, che guida la Federal Reserve dal febbraio 2014 e che non può essere rimossa fino a fine mandato: nominata da Barack Obama, rispettata da tutti, la Yellen non è però una democratica d’ordinanza, ma piuttosto una tecnica.

Le proteste tardive di giovani (e donne) schizzinosi
Dopo il voto, l’America anti-Trump s’è messa in marcia e non s’è ancora fermata: ci sono state manifestazioni in decine di città e università, centinaia di arresti, un fiume in piena di giovani, donne, neri, ispanici che scandiscono lo slogan ‘Not My President’: sono reduci di Occupy Wall Street e militanti di Black lives matter, sono i Millennials, la cui neghittosità nel giorno del voto, però, è stata determinante, a favore del magnate. Ora vogliono smacchiarsi la coscienza. Ma è tardi.

Se i giovani - e le donne - l’8 Novembre avessero votato numerosi come nel 2008 e nel 2012, oggi Hillary sarebbe il presidente eletto e loro non sarebbero in strada. Invece, la schizzinosità di chi - certo che Trump non ce l’avrebbe fatta - non è andato alle urne perché orfano di Bernie Sanders o perché non in sintonia con l’ex first lady ha messo le sorti dell’America nella mani di baby-boomers ormai pensionati o quasi, bianchi e maschi, consegnando la vittoria allo showman e alla sua cerchia di familiari, lobbisti e razzisti.

New York e Los Angeles hanno registrato le contestazioni più numerose, Portland in Oregon quelle più virulente. Il movimento coinvolge meno il Sud, le Grandi Pianure, le Montagne Rocciose, l’America più conservatrice ed evangelica, che Trump presidente l’ha voluto o se n’è fatta subito una ragione.

In chi manifesta, e in chi ne condivide la protesta, c’è il timore che Trump possa tradurre in pratica la deriva xenofoba, razzista e sessista sventolata durante la campagna elettorale. Si teme anche che prendano ulteriore vigore i gruppi suprematisti bianchi: il Ku Klux Klan, esagerando, si attribuisce un ruolo decisivo nell’elezione del magnate e annuncia un meeting a Charlotte, North Carolina, mentre sui muri delle città compaiono scritte inquietanti, ma non sorprendenti: "Rendiamo l'America bianca grande di nuovo", versione razzista dello slogan presidenziale.

I repubblicani fanno bingo, i democratici senza leader
La stampa americana risale indietro nel tempo, anche di un secolo, chiedendosi se e quando, vi sia mai stato un tale allineamento partitico dei tre poteri, l’esecutivo, il legislativo, il giuridico. Va, però, detto che i confronti sono difficili ed aleatori: il numero degli Stati varia, le modalità elettive del Senato pure. Nel recente passato, è accaduto a tutti e tre gli ultimi presidenti di avere dalla loro, almeno per un biennio, tutto il Congresso.

Il partito repubblicano, che pareva a pezzi, condannato alla minoranza dall’evoluzione demografica e diviso al proprio interno fra moderati, Tea Party, evangelici si ritrova padrone di tutto: con Trump, che doveva esserne l’esecutore testamentario, è risorto e ha fatto bingo, raccogliendo consensi che non aveva mai avuto (e che forse non avrà mai più).

Il partito democratico, che pareva destinato a tenere la presidenza e a riprendersi almeno il Senato, si ritrova con zero potere e senza squadra dirigente, perché nessuno dei suoi leader sarà spendibile nel 2020: Hillary Clinton è bruciata, dopo i flop 2008 e 2016; John Kerry è bruciato dal 2004; Bernie Sanders sarà troppo vecchio, come Joe Biden. E, se il mantra è il cambiamento, bisogna trovare qualcuno che lo rappresenti: Elizabeth Warren ha il volto giusto, ma l’età è un handicap - avrà 71 anni, uno in più di Trump oggi.

Il New Yorker s’interroga su come il partito democratico possa uscire da questo incubo. La riscossa non potrà venire, se verrà, prima delle elezioni di mid term del 2018, quando le carte del Congresso potrebbero rimescolarsi.

Cambio di passo tra candidato e presidente?
Altroché cambio di passo, tra il candidato e il presidente: Trump, nella terra di mezzo tra l’elezione e l’insediamento, non abbandona il populismo. E l’ipotesi di un disimpegno degli Usa dagli accordi sul clima crea ansia e panico a livello planetario, proprio quando l’Onu diffonde i dati più allarmanti sul riscaldamento globale.

Preso in un vortice di interviste e telefonate, il presidente eletto annuncia che il suo stipendio sarà d’un dollaro l’anno, mentre anche i think tank conservatori s’interrogano su fattibilità ed efficacia d’alcune sue ricette, come il muro e le espulsioni.

Nel suo dire e fare post-voto, Trump fa il pendolo tra conferma della linea anti-establishment e ricerca di compromesso con i moderati: blandisce il presidente Obama, ma vuole smantellarne l’eredità; lusinga a modo suo Bill Clinton (“Ha talento”) e tranquillizza Hillary (l’inchiesta per sbatterla in carcere, minacciata nei dibattiti, non è una priorità); sceglie una colomba come capo dello staff alla Casa Bianca - Reince Priebus, uomo del partito - e un falco come “stratega e consigliere” - Stephen Bannon, un razzista.

Trump esce confortato da un colloquio telefonico con Vladimir Putin: rispetto reciproco e reciproca non ingerenza negli affari interni sarebbero i punti fermi del nuovo rapporto Usa-Russia. Invece, non dà eco ai messaggi dei leader dell’Ue e della Nato e riceve a casa sua il dandy euro-scettico Nigel Farage, l’artefice della Brexit, mentre il presidente Obama trova in Europa interrogativi cui non sa rispondere e inquietudini che non può stemperare.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

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