I più sinceri Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo
lunedì 23 dicembre 2013
Auguri
A tutti gli amici e i lettori di questo blog
I più sinceri Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo
lunedì 16 dicembre 2013
Cile:confronto elettorale
Sarà il ballottaggio tra la progressista Michelle Bachelet (46,6 %al primo turno) e la conservatrice Evelyn Matthei (25,2%) a dirci effettivamente se il Cile - dopo la quadriennale esperienza con il presidente Miguel Pinero - ha compiuto una nuova svolta a sinistra. Stando all’aritmetica non ci dovrebbero essere dubbi, visto che per la prima volta dall’epoca Pinochet la coalizione di centro-sinistra a cui aderiscono - tra pentimenti e molte riserve - anche i democristiani vede la partecipazione dei comunisti e di vivaci movimenti studenteschi.
Timori
Tuttavia, per quanto il vantaggio della Bachelet sia schiacciante, prudenza vuole che si attendano i risultati finali. I fattori di incertezza derivano dal fatto che l’affluenza alle urne al primo turno è stata la più bassa nella storia del Cile democratico, raggiungendo solo il 56%.
La forte affermazione comunista potrebbe infatti aver scosso la massa degli astenuti, inducendo a qualche ripensamento una parte dei democristiani e dei socialdemocratici, timorosi che l’affermarsi di uno “stato sociale” in un contesto di crisi globale possa erodere quella crescita economica che negli ultimi anni si era mantenuta al tasso, considerato elevato, del 3,6%.
Alcuni potrebbero poi temere che una svolta a sinistra alteri il corso della politica estera, tradizionalmente orientata verso Occidente. Infatti il Cile, che assieme all’Argentina è forse il paese più “europeo” per cultura, tradizioni e mentalità del Sud America, si è sempre mantenuto “fuori dal coro” antioccidentale.
Come, per altri motivi, anche la Colombia, questo paese si è dimostrato refrattario a quella ventata ideologica che, nel giro di una quindicina d’anni, ha portato al potere nella maggioranza degli stati sudamericani governi, coalizioni, dittature o simil-dittature di sinistra.
Socialismi sfaccettati
Non tutti i “socialismi” sono uguali. A parte il vetero-comunismo castrista, in casa degli attori regionali di spicco bisogna distinguere tra il socialismo riformista (Brasile e Argentina) e quello populista di Venezuela e Bolivia. Di stile bolivariano sono il socialismo di Chavez e Maduro, di marcato sapore indigenista quello di Morales.
Per il Cile nulla di tutto ciò è valido, né questa contesa elettorale può essere considerata una competizione ideologica tra “pinochettiani” e “allendisti”. Il Cile è diverso, sebbene anche qui non sia il caso di parlare di Dottrina Monroe o di “giardino di casa” americano, concetti morti e sepolti.
Nel suo primo mandato, Bachelet si era mantenuta in una posizione di equilibrio, lontana sia dall’asse antiamericano (Venezuela, Bolivia e Nicaragua) che dai classici fiancheggiatori degli Stati Uniti (Colombia, Perù e Messico). Il suo successore, Pinero, aveva orientato il paese verso questo secondo polo. Ciò aveva contribuito ad attenuare lo storico contenzioso con il Perù che, assieme alla Colombia, ha sempre temuto, a ragione, una “definitiva” superiorità militare del Cile.
In effetti, il sistema militare cileno è di prim’ordine, probabilmente il più efficiente - in termini di addestramento, armamento, capacità operativa e controllo di una propria intelligence satellitare - di tutto il Sudamerica.
Militari
Equipaggiamenti, cultura, struttura e procedure sono ormai ben consolidate secondo un modello occidentale e tali rimarranno anche con Bachelet, allontanando ogni timore di virata in direzioni diverse. Nelle forze armate il pensiero occidentale è assai radicato. Il Comandante in capo è il presidente della Repubblica. La disciplina e addirittura la foggia delle uniformi sono di stampo germanico, mentre la dottrina operativa ricalca quella occidentale.
In epoca non sospetta, ormai lontana da Pinochet e vigente uno dei tanti governi di centro-sinistra, ho avuto la possibilità di volare sopra il deserto di Atacama con un gruppo da caccia del nord, di base vicino ad Antofagasta. Ho avuto la netta impressione di essere inserito, per analogia di lingua, di mezzi e di procedure, in un gruppo europeo della Nato. Anche con la socialista Michelle Bachelet, a meno che l’inusitata alleanza con i comunisti riesca ad imprimere una nuova deriva, lo sguardo dei cileni continuerà ad essere rivolto verso Occidente.
Chi, anche in Italia - condizionato dagli stereotipi sui militari sudamericani - intravede il sorgere di nuovi Pinochet, può tranquillizzarsi. Quelli cileni non sono affatto così. Bachelet, ritornando al potere dopo la parentesi del centro-destra, non avrà nulla da temere da loro. E nemmeno l’Occidente.
Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2477#sthash.GxxeAprp.dpuf
Timori
Tuttavia, per quanto il vantaggio della Bachelet sia schiacciante, prudenza vuole che si attendano i risultati finali. I fattori di incertezza derivano dal fatto che l’affluenza alle urne al primo turno è stata la più bassa nella storia del Cile democratico, raggiungendo solo il 56%.
La forte affermazione comunista potrebbe infatti aver scosso la massa degli astenuti, inducendo a qualche ripensamento una parte dei democristiani e dei socialdemocratici, timorosi che l’affermarsi di uno “stato sociale” in un contesto di crisi globale possa erodere quella crescita economica che negli ultimi anni si era mantenuta al tasso, considerato elevato, del 3,6%.
Alcuni potrebbero poi temere che una svolta a sinistra alteri il corso della politica estera, tradizionalmente orientata verso Occidente. Infatti il Cile, che assieme all’Argentina è forse il paese più “europeo” per cultura, tradizioni e mentalità del Sud America, si è sempre mantenuto “fuori dal coro” antioccidentale.
Come, per altri motivi, anche la Colombia, questo paese si è dimostrato refrattario a quella ventata ideologica che, nel giro di una quindicina d’anni, ha portato al potere nella maggioranza degli stati sudamericani governi, coalizioni, dittature o simil-dittature di sinistra.
Socialismi sfaccettati
Non tutti i “socialismi” sono uguali. A parte il vetero-comunismo castrista, in casa degli attori regionali di spicco bisogna distinguere tra il socialismo riformista (Brasile e Argentina) e quello populista di Venezuela e Bolivia. Di stile bolivariano sono il socialismo di Chavez e Maduro, di marcato sapore indigenista quello di Morales.
Per il Cile nulla di tutto ciò è valido, né questa contesa elettorale può essere considerata una competizione ideologica tra “pinochettiani” e “allendisti”. Il Cile è diverso, sebbene anche qui non sia il caso di parlare di Dottrina Monroe o di “giardino di casa” americano, concetti morti e sepolti.
Nel suo primo mandato, Bachelet si era mantenuta in una posizione di equilibrio, lontana sia dall’asse antiamericano (Venezuela, Bolivia e Nicaragua) che dai classici fiancheggiatori degli Stati Uniti (Colombia, Perù e Messico). Il suo successore, Pinero, aveva orientato il paese verso questo secondo polo. Ciò aveva contribuito ad attenuare lo storico contenzioso con il Perù che, assieme alla Colombia, ha sempre temuto, a ragione, una “definitiva” superiorità militare del Cile.
In effetti, il sistema militare cileno è di prim’ordine, probabilmente il più efficiente - in termini di addestramento, armamento, capacità operativa e controllo di una propria intelligence satellitare - di tutto il Sudamerica.
Militari
Equipaggiamenti, cultura, struttura e procedure sono ormai ben consolidate secondo un modello occidentale e tali rimarranno anche con Bachelet, allontanando ogni timore di virata in direzioni diverse. Nelle forze armate il pensiero occidentale è assai radicato. Il Comandante in capo è il presidente della Repubblica. La disciplina e addirittura la foggia delle uniformi sono di stampo germanico, mentre la dottrina operativa ricalca quella occidentale.
In epoca non sospetta, ormai lontana da Pinochet e vigente uno dei tanti governi di centro-sinistra, ho avuto la possibilità di volare sopra il deserto di Atacama con un gruppo da caccia del nord, di base vicino ad Antofagasta. Ho avuto la netta impressione di essere inserito, per analogia di lingua, di mezzi e di procedure, in un gruppo europeo della Nato. Anche con la socialista Michelle Bachelet, a meno che l’inusitata alleanza con i comunisti riesca ad imprimere una nuova deriva, lo sguardo dei cileni continuerà ad essere rivolto verso Occidente.
Chi, anche in Italia - condizionato dagli stereotipi sui militari sudamericani - intravede il sorgere di nuovi Pinochet, può tranquillizzarsi. Quelli cileni non sono affatto così. Bachelet, ritornando al potere dopo la parentesi del centro-destra, non avrà nulla da temere da loro. E nemmeno l’Occidente.
Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
venerdì 13 dicembre 2013
La salute nel mondo. Le previsioni della banca Mondiale.
Mondo: I prossimi due decenni
5 Dicembre 2013
La relazione della Banca mondiale Global Health 2035 stabilisce alcune ambitions audaci per i prossimi due decenni, ma sono realizzabili con l'investimento giusto.
Venti anni fa, la Banca Mondiale ha prodotto la sua prima relazione sulla affrontare i problemi di salute globale, ponendo le basi per campagne di salute pubblica in cui erano più necessari. Due decenni e demografici ambienti globali economici, tecnologici e sanitari, sono cambiati. Ora, un "grande convergenza" in obiettivi di salute è raggiungibile nell'arco di una generazione, secondo la seconda relazione la salute della Banca Mondiale, Global Health 2035 , che è stato scritto da 25 esperti di salute globale e pubblicato nella rivista medica The Lancet il 3 dicembre.
Gli autori del rapporto sono il primo ad ammettere che i loro obiettivi sono "ambizioso". Eppure, essi sostengono che i tassi di malattie infettive e la mortalità da salute riproduttiva, materna, neonatale e infantile in stati-basso o medio reddito, sono destinati a calare drasticamente. Entro il 2035 dovrebbero rivaleggiare con gli attuali tassi dei più performanti paesi a medio reddito: Cile, Cina, Costa Rica e Cuba.
Il motivo principale per l'ottimismo è l'enorme progresso che è già stato fatto il raggiungimento degli obiettivi di salute negli ultimi 20 anni. I progressi tecnologici e scientifici continuano, e la crescita del PIL dei paesi più poveri significa che essi non sono più così dipendente da aiuti. Tuttavia, gli autori sostengono che una nuova spesa spinta è necessaria per evitare che intorno a 10 milioni di morti nei paesi a basso reddito e con reddito medio. Ciò significa scaling up sforzi per affrontare l'HIV / AIDS, tubercolosi, malaria, malattie tropicali trascurate e le condizioni di salute materna e infantile, e concentrandosi spesa povere, popolazioni rurali.
Per i 34 paesi a più basso reddito, dice il rapporto, tali iniziative costerà circa US $ 23 miliardi, 27 miliardi di un anno in totale, pari a circa US $ 24 a persona nel 2035, circa il 60-70% dei quali sarebbe sul miglioramento dei sistemi sanitari . Per i paesi a reddito medio-basse 48, sarebbe costato un altro US $ 38 miliardi, 53 miliardi di un anno, o circa US $ 20 a persona nel 2035. Per giustificare tali spese, in un momento in cui molti paesi stanno appena riprendendo dalla crisi finanziaria 2008-09, gli autori hanno calcolato un valore per ulteriori anni di vita (VLYs) e lo ha aggiunto alla crescita del PIL.
Se le economie a basso reddito crescono come previsto, in base al calcolo VLY, avrebbero bisogno di sborsare un ulteriore 3% di crescita annua del PIL, per i paesi a basso-medio reddito sarebbe 1%. Ma i benefici superano i costi di un fattore di circa nove, e la maggior parte dei costi possono essere soddisfatte nazionale. Sulla base di queste proiezioni, i paesi più ricchi potrebbero in gran parte auto-finanziare il pacchetto con alcuni prestiti non agevolati dalla Banca Mondiale. Per i paesi a basso reddito, una miscela di sovvenzioni esterne e prestiti agevolati sarebbe necessaria sulla parte superiore.
Lotta contro il cancro
La relazione si concentra anche sul modo di stroncare sul nascere una nuova e crescente minaccia nei paesi a basso e medio reddito: le malattie non trasmissibili (MNT). Cancro, diabete, ipertensione e malattie cardiache sono già più grandi assassini negli stati più ricchi, ma stanno diventando un peso crescente nei paesi poveri troppo come il fumo, cibo spazzatura e l'inattività fisica prendere piede.
Il rapporto dice che cresceranno misure preventive, tra cui la tassazione, regolamentazione e informazione, contribuirà ad alleviare l'onere delle malattie non trasmissibili. Si raccomanda inoltre di un numero selezionato di pacchetti essenziali per affrontare il cancro, come i vaccini contro l'epatite B per prevenire il cancro al fegato, anche se altri tipi di cancro potrebbe essere più difficile da affrontare. Più in generale, i paesi a basso e medio reddito dovrebbero stendere un piano di copertura sanitaria universale che si concentra sui poveri, sia coprendo solo le malattie essenziali o offrendo un piano più completo che mette i pazienti più ricchi per i servizi premium.
A livello internazionale, l'attenzione dovrebbe essere sul rafforzamento delle capacità, fornendo leadership politica, giuridica e tecnica, e la realizzazione di studi di implementazione per i pacchetti cliniche. Gli autori vogliono investimenti in farmaci, diagnostici e vaccini a salire da US $ 3 miliardi di US $ 6 miliardi all'anno entro il 2020, con la lotta contro i batteri resistenti alla droga una priorità, ma non dice chi assorbire questi costi. Nel complesso, gli aiuti esteri dovrebbe sostenere una transizione dal finanziamento diretto.
Questi sono tutti gli obiettivi realizzabili, dicono gli autori, in particolare dato i progressi già compiuti. Eppure calcoli finanziari del rapporto si basano su paesi a basso e medio reddito crescono a tassi costanti, senza crisi finanziarie, pandemie o disastri naturali. Anche se ciò accade, persuadere paesi a basso e medio reddito di destinare una fetta più grande dei loro bilanci per l'assistenza sanitaria può rivelarsi una sfida a lungo termine.
venerdì 29 novembre 2013
Messico Peace Index 2013
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martedì 26 novembre 2013
Stati Uniti: Bilateral Security Agreement BSA
Afghanistan
E’ stata convocata il 21 novembre la grande assemblea degli anziani (Loya Jirga), incaricata di discutere il testo del Bilateral Security Agreement (BSA), l’accordo tra Afghanistan e Stati Uniti che dovrebbe disciplinare la consistenza e lo status giuridico delle Forze Armate statunitensi nel Paese dopo il termine della missione ISAF, nel 2014. Se dovesse essere approvata la bozza proposta dal Presidente afghano Hamid Karzai, Washington potrà stanziare un contingente di circa 8.000-12.000 uomini, il quale godrà dell’immunità dalla giurisdizione locale e svolgerà funzioni prettamente di addestramento, assistenza e fornitura equipaggiamenti alle Forze Nazionali Afghane (ANSF). I colloqui tra Kabul e Washington riguardo il BSA si erano interrotti lo scorso giugno, in seguito all’impasse causato dall’apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha. La convocazione della Loya Jirga potreb! be ora portare alla stesura del testo definitivo, che dovrà, però, essere poi approvato dal Parlamento afghano. Nonostante Washington abbia espresso l’intenzione di concludere l’accordo entro la fine dell’anno, all’ultimo momento il Presidente Karzai ha avanzato l’ipotesi di posticipare la firma ad aprile, dopo le elezioni presidenziali, consegnando la questione, di fatto, alla nuova amministrazione.
sabato 23 novembre 2013
Messico. dal 28 novembre 2013 il nuovo Peace Index
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America Latina. Convegno Lunedi 25 novembre 2013 ore 09.00
La relazione strategica tra Italia e America Latina
Lunedì 25 novembre 2013 alle ore 9.00
Camera dei Deputati - Sala delle Colonne
Palazzo Marini, Via Poli 19, Roma
Le Conferenze Italia-America Latina, che si tengono con cadenza biennale, da dieci anni
rappresentano un rilevante momento di incontro e confronto, nonché un'occasione per il
consolidamento del forte legame sussistente tra le due parti, legame che affonda le proprie
radici in una variegata sfera di valori di ordine storico e culturale. Attraverso tale strumento di
politica estera l'Italia ha colto l'opportunità di trarre significativi benefici da una politica di
collaborazione con i Paesi dell'area latinoamericana e caraibica, e ciò non solo per le questioni
inerenti i rapporti politico-istituzionali, ma anche per la definizione di un quadro ancor più
favorevole allo sviluppo di rapporti economico-commerciali e di iniziative imprenditoriali.
La VI° edizione della Conferenza si terrà quest'autunno a Roma nelle giornate del 12 e 13
dicembre e avrà come tema centrale lo sviluppo territoriale sostenibile, declinato nella sua
dimensione economica, sociale e ambientale. L'appuntamento rappresenterà un'utile occasione
per garantire la giusta continuità ad un rapporto dal grande potenziale ancora inesplorato,
un'opportunità per la cooperazione con le piccole e medie imprese italiane, nonché il momento
per la presentazione dell’Expo 2015, cui è prevista la massiccia partecipazione dei partner
latino americani.
L'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), in vista di questo
significativo momento di grande interesse per la Politica Estera del nostro Paese, ha voluto
organizzare un incontro per fare il punto sulla relazione strategica tra Italia e America Latina.
Per partecipare all'evento è necessario registrarsi scrivendo a
eventi@istituto-geopolitica.eu,
indicando nome, cognome, indirizzo e-mail di ciascun partecipante. L'accettazione è subordinata
alla disponibilità di posti. Non saranno accettate registrazioni oltre le ore 12 del 21 novembre.
USA: il difficile rapporto con il Pakistan
Usa-Pakistan, alleanza a rischio sabotaggio Daniele Grassi 14/11/2013 |
Il recente avvicendamento ai vertici del gruppo terroristico “Tehreek-e-Taliban Pakistan” (Ttp) sembra allontanare l'ipotesi di negoziati con il governo. Tornano in discussione le relazioni con gli Stati Uniti, accusati di aver sabotato il nascente dialogo di pace, ma la crisi economica costringe Islamabad ad evitare la rottura.
Nuovi vertici
Il primo novembre, l'attacco di un drone americano ha provocato la morte di Hakimullah Mehsud, leader del Ttp dal 2009. Gli è subentrato il Mullah Fazlullah, a capo dei talebani nella valle dello Swat (Khyber Pakhtunkhwa), noto alle cronache per aver ordinato l'uccisione della giovane attivista Malala Yousufzai. Non trattandosi di un esponente della tribù Mehsud, zoccolo duro del movimento, la sua nomina ha destato sorpresa, evidenziando il persistere di profonde divisioni all'interno del Ttp.
Sebbene il movimento mantenga buone capacità operative - nel mese di settembre si è registrato un record di vittime per attacchi terroristici di oltre 490 - la nomina di Fazlullah potrebbe accelerare le dinamiche centrifughe già in atto. Ulteriori dubbi sulle capacità di Fazlullah di esercitare un effettivo controllo sul gruppo derivano dal fatto che non vive in Pakistan, ma nella provincia afghana del Nuristan. Questo potrebbe consentire ad altri elementi del Ttp di sottrarsi alla sua leadership, mettendo a forte rischio l'unità del gruppo.
Tale elemento rischia anche di complicare ulteriormente le relazioni tra Islamabad e Kabul. Le autorità pakistane, infatti, hanno già in passato accusato l'Afghanistan di sostenere il Ttp. Il rischio è di portare le tensioni tra due paesi su livelli molto elevati, riducendo ulteriormente le possibilità di successo dei negoziati con i talebani afghani.
Ambiguità
All'indomani della sua nomina, il Mullah Fazlullah ha respinto ogni ipotesi di dialogo con il governo, in ragione della presunta subalternità delle autorità pakistane rispetto agli Stati Uniti.
Il raid del primo novembre ha creato non poche difficoltà all'esecutivo di Islamabad, la cui agenda politica conteneva i negoziati con il Ttp tra i suoi punti principali.
Esso inoltre, è giunto a poca distanza dalla visita alla Casa Bianca del premier Nawaz Sharif, evento in occasione del quale questi aveva chiesto agli Stati Uniti l’interruzione degli attacchi con i droni in territorio pakistano. La dura reazione del governo all'operazione Usa rappresentava, dunque, un atto necessario a salvaguardarne la legittimità e l'autorevolezza agli occhi dell'opinione pubblica, oltre che a mettersi al riparo dagli inevitabili attacchi di alcune forze di opposizione.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, sorgono, tuttavia, alcuni dubbi circa la reale posizione del governo di Islamabad. Con l’avvicinarsi delle operazioni di ritiro dall’Afghanistan riesce infatti difficile pensare che l’amministrazione Obama possa aver trascurato di considerare la chiusura dei valichi come possibile azione di rappresaglia da parte di Islamabad (come avvenuto nel 2011, in seguito all'uccisione di Osama bin-Laden).
Sebbene il Ttp sia considerato un potenziale rischio per la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti e si sia in passato reso protagonista di attacchi contro i suoi cittadini in Afghanistan, l’operazione del primo novembre non sembra paragonabile - in termini di ripercussioni sul piano operativo e, soprattutto, mediatico - al raid contro l’allora capo di al-Qaeda. La Casa Bianca, dunque, potrebbe aver ricevuto una qualche rassicurazione dalle autorità pakistane. Il silenzio dei militari - da sempre scettici di fronte all'ipotesi di negoziati con i talebani - sembrerebbe avvalorare tale ipotesi.
Toni propagandistici
In ogni caso, la dipendenza del Pakistan dagli aiuti economici internazionali appare attualmente troppo forte perché si possa prendere in seria considerazione l’ipotesi di una rottura dell’alleanza con gli Stati Uniti. Di recente, il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un accordo con il Pakistan per la concessione di un prestito di oltre sei miliardi di dollari, necessario al paese per alleviare la gravissima crisi economica che sta attraversando.
Un recente sondaggio mostra come la popolazione pakistana sia molto più preoccupata dalla crisi energetica (e dalle sue ripercussioni sul settore industriale) che dal terrorismo. Sembra, dunque, esserci ben poco spazio di manovra per il governo di Sharif.
L’attacco del primo novembre potrebbe offrire una importante opportunità alle autorità pakistane. Queste potrebbero optare per una generale ridefinizione della strategia di contrasto al terrorismo, ma dovrebbero rinunciare ai toni propagandistici sin qui utilizzati.
Ciononostante, la retorica affermatasi negli ultimi giorni (il leader defunto del Ttp è stato da più parti definito un martire) non è incoraggiante. Evidenzia piuttosto la debolezza di una classe politica ancora incapace di sganciarsi dai vecchi paradigmi strategici e di trovare nuove strade di sviluppo per il paese.
Daniele Grassi lavora come security analyst per Infocert.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2457#sthash.rOqrmH2g.dpuf
Nuovi vertici
Il primo novembre, l'attacco di un drone americano ha provocato la morte di Hakimullah Mehsud, leader del Ttp dal 2009. Gli è subentrato il Mullah Fazlullah, a capo dei talebani nella valle dello Swat (Khyber Pakhtunkhwa), noto alle cronache per aver ordinato l'uccisione della giovane attivista Malala Yousufzai. Non trattandosi di un esponente della tribù Mehsud, zoccolo duro del movimento, la sua nomina ha destato sorpresa, evidenziando il persistere di profonde divisioni all'interno del Ttp.
Sebbene il movimento mantenga buone capacità operative - nel mese di settembre si è registrato un record di vittime per attacchi terroristici di oltre 490 - la nomina di Fazlullah potrebbe accelerare le dinamiche centrifughe già in atto. Ulteriori dubbi sulle capacità di Fazlullah di esercitare un effettivo controllo sul gruppo derivano dal fatto che non vive in Pakistan, ma nella provincia afghana del Nuristan. Questo potrebbe consentire ad altri elementi del Ttp di sottrarsi alla sua leadership, mettendo a forte rischio l'unità del gruppo.
Tale elemento rischia anche di complicare ulteriormente le relazioni tra Islamabad e Kabul. Le autorità pakistane, infatti, hanno già in passato accusato l'Afghanistan di sostenere il Ttp. Il rischio è di portare le tensioni tra due paesi su livelli molto elevati, riducendo ulteriormente le possibilità di successo dei negoziati con i talebani afghani.
Ambiguità
All'indomani della sua nomina, il Mullah Fazlullah ha respinto ogni ipotesi di dialogo con il governo, in ragione della presunta subalternità delle autorità pakistane rispetto agli Stati Uniti.
Il raid del primo novembre ha creato non poche difficoltà all'esecutivo di Islamabad, la cui agenda politica conteneva i negoziati con il Ttp tra i suoi punti principali.
Esso inoltre, è giunto a poca distanza dalla visita alla Casa Bianca del premier Nawaz Sharif, evento in occasione del quale questi aveva chiesto agli Stati Uniti l’interruzione degli attacchi con i droni in territorio pakistano. La dura reazione del governo all'operazione Usa rappresentava, dunque, un atto necessario a salvaguardarne la legittimità e l'autorevolezza agli occhi dell'opinione pubblica, oltre che a mettersi al riparo dagli inevitabili attacchi di alcune forze di opposizione.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, sorgono, tuttavia, alcuni dubbi circa la reale posizione del governo di Islamabad. Con l’avvicinarsi delle operazioni di ritiro dall’Afghanistan riesce infatti difficile pensare che l’amministrazione Obama possa aver trascurato di considerare la chiusura dei valichi come possibile azione di rappresaglia da parte di Islamabad (come avvenuto nel 2011, in seguito all'uccisione di Osama bin-Laden).
Sebbene il Ttp sia considerato un potenziale rischio per la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti e si sia in passato reso protagonista di attacchi contro i suoi cittadini in Afghanistan, l’operazione del primo novembre non sembra paragonabile - in termini di ripercussioni sul piano operativo e, soprattutto, mediatico - al raid contro l’allora capo di al-Qaeda. La Casa Bianca, dunque, potrebbe aver ricevuto una qualche rassicurazione dalle autorità pakistane. Il silenzio dei militari - da sempre scettici di fronte all'ipotesi di negoziati con i talebani - sembrerebbe avvalorare tale ipotesi.
Toni propagandistici
In ogni caso, la dipendenza del Pakistan dagli aiuti economici internazionali appare attualmente troppo forte perché si possa prendere in seria considerazione l’ipotesi di una rottura dell’alleanza con gli Stati Uniti. Di recente, il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un accordo con il Pakistan per la concessione di un prestito di oltre sei miliardi di dollari, necessario al paese per alleviare la gravissima crisi economica che sta attraversando.
Un recente sondaggio mostra come la popolazione pakistana sia molto più preoccupata dalla crisi energetica (e dalle sue ripercussioni sul settore industriale) che dal terrorismo. Sembra, dunque, esserci ben poco spazio di manovra per il governo di Sharif.
L’attacco del primo novembre potrebbe offrire una importante opportunità alle autorità pakistane. Queste potrebbero optare per una generale ridefinizione della strategia di contrasto al terrorismo, ma dovrebbero rinunciare ai toni propagandistici sin qui utilizzati.
Ciononostante, la retorica affermatasi negli ultimi giorni (il leader defunto del Ttp è stato da più parti definito un martire) non è incoraggiante. Evidenzia piuttosto la debolezza di una classe politica ancora incapace di sganciarsi dai vecchi paradigmi strategici e di trovare nuove strade di sviluppo per il paese.
Daniele Grassi lavora come security analyst per Infocert.
mercoledì 13 novembre 2013
Stati Uniti: relazioni con l'Arabia Saudita
Arabia Saudita
Il viaggio del Segretario di Stato statunitense John Kerry in Arabia Saudita, nell’ambito di un lungo tour mediorientale, mira a riaffermare la natura strategica delle relazioni USA-Arabia Saudita, come dichiarato dal portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki. L’alleanza, infatti, si è incrinata negli ultimi mesi a causa della timida apertura di Washington a Teheran, storico nemico di Riyadh, e per la diversità di vedute sulla gestione del dossier siriano. La guerra civile in Siria, infatti, riflette le tensioni tra sauditi e iraniani, che dietro lo scontro confessionale tra wahhabismo e sciismo nascondono mire egemoniche regionali. L’Arabia Saudita,! delusa dall’abbandono del piano di un attacco militare contro Damasco da parte della Casa Bianca, continua a sostenere l’intervento armato in Siria e lo scorso 18 ottobre ha persino rifiutato il seggio di membro non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per l’incapacità della comunità internazionale di trovare una soluzione al conflitto siriano. I rapporti tra Washington e Riyadh si erano già raffreddati a causa del diverso atteggiamento dei due alleati verso il golpe militare in Egitto, appoggiato dai sauditi ma accolto con titubanza dagli statunitensi. Anche la telefonata del 27 settembre scorso tra il Presidente Obama e Rouhani, primo contatto USA-Iran dal 1979, non è stata gradita dall’Arabia Saudita, impegnata nel contenimento dell’espansionismo di Teheran. Obiettivo di Kerry, dunque, è quello di rassicurare lo storico alleato sull’impegno statunitense nel containment iraniano e sulla risoluzione della crisi siriana.
Kerry: una influenza positiva
Israele
Mercoledì 30 ottobre le autorità israeliane hanno rilasciato 26 prigionieri palestinesi detenuti nella prigione di Ofer, che erano stati condannati all’ergastolo per l’omicidio di cittadini israeliani compiuti tra gli anni ’80 e ’90. È stato il secondo gruppo di detenuti liberato nell’arco di tre mesi, come parte di un piano di più ampio respiro, iniziato ad agosto, che dovrebbe portare alla liberazione di 104 prigionieri nei prossimi mesi. Il progetto di scarcerazione, infatti, era stato deciso dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu lo scorso 30 luglio, in occasione dell’incontro con il Segretario di Stato John Kerry per il rilancio del processo di pace tra Israele e Palestina. Le aperture di Netanyahu hanno suscitato dure critiche tra le frange più conservatrici dello spettro politico israeliano, che hanno visto la decisione del Primo Ministro come una potenziale minaccia per la sicurezza di Israele. La liberazione dei prigioni! eri, infatti, era dovuta passare attraverso il rigetto da parte della Corte Costituzionale dell’appello presentato dai familiari delle vittime nelle scorse settimane. Nonostante il dichiarato interesse per portare avanti i preparativi per l’istituzione di un tavolo di trattativa, un effettivo progresso per la riapertura dei negoziati sembra scontrarsi con la necessità del Primo Ministro israeliano di mediare tra i gesti, seppur simbolici, di apertura nei confronti del governo palestinese e la strenua opposizione della destra conservatrice di Tel Aviv. L’annuncio di ulteriori 1.500 insediamenti nell’area di Rabat Shlomo, in Cisgiordania, giunto a poche ore dalla liberazione dei 26 prigionieri sembrerebbe, di fatto, rispondere ad una logica di compensazione delle concessioni fatte al governo palestinese che, sebbene sia necessaria a Netanyahu per non alienarsi il sostegno politico interno, rappresenta, di fatto, l’ostacolo principale ad una rapida ripresa del processo! di pace.
sabato 2 novembre 2013
Argentina: elezioni parziali
Elezioni in Argentina Cristina Kirchner come il suo futuro, malata e compromessa Carlo Cauti 23/10/2013 |
Il prossimo 27 ottobre gli argentini saranno chiamati alle urne per rinnovare un terzo del Senato e metà della Camera dei Deputati. Le elezioni si svolgeranno in un clima di apprensione per le condizioni di salute della presidente Cristina Kirchner, sottoposta l’8 ottobre ad un’operazione chirurgica per ritirare un ematoma celebrale, provocato da un trauma cranico.
Nessuna eternità
Quando Néstor Kirchner morì nel 2010, l’onda emotiva popolare favorì la rielezione alla presidenza di sua moglie Cristina, la cui popolarità in quel momento era piuttosto bassa. Questa volta, tuttavia, la preoccupazione per lo stato di salute della presidente non influenzerà il risultato delle consultazioni.
Secondo i sondaggi elettorali, la coalizione kirchnerista, il Fronte per la vittoria, dovrebbe subire una pesante sconfitta, attestandosi a circa il 26% delle preferenze. Meno della metà dei voti ottenuti nelle elezioni del 2011.
L’immagine della Kirchner è ormai compromessa. Tralasciando i continui scandali di corruzione, le proposte di modifiche della costituzione per permettere rielezioni illimitate (il progetto chiamato “Cristina eterna”) e lo stile irruente della presidente che hanno indisposto gli elettori, il principale problema per gli argentini è senza dubbio l’inflazione, provocata da scelte di politica economica quantomeno discutibili.
Mercato nero
L’aumento dei prezzi è stimato intorno al 30% annuo, un dato che il governo si ostina a negare, indicando “soltanto” un 10% di incremento. Questo tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto non cancella i pesanti effetti negativi sul reddito reale di cittadini, che riverseranno nelle urne la loro frustrazione.
Per cercare di domare l’inflazione, la Banca centrale argentina ha iniziato una politica di difesa artificiale del tasso di cambio del peso con il dollaro, dissanguando in questo modo le riserve valutarie, piombate a 34,7 miliardi di dollari, il valore più basso degli ultimi sei anni.
Allo stesso tempo il governo ha limitato rigidamente la capacità di acquisto e di circolazione di dollari da parte della popolazione, con la naturale conseguente nascita di un florido mercato nero valutario.
Infine, la credibilità dell’esecutivo è ulteriormente minata dalla mancanza di linearità dei provvedimenti adottati. Ad esempio, mentre i contribuenti argentini sono perseguitati dal fisco, il governo ha varato un’ampia amnistia tributaria per tutti i cittadini detentori di conti correnti esteri non dichiarati e denominati in dollari.
Superpoteri economici
In previsione della debacle elettorale, la coalizione kirchnerista ha già dato inizio alle grandi manovre per tentare di limitare i danni. Il 9 ottobre il Congresso ha infatti prorogato la “legge dei superpoteri economici” fino al 21 dicembre 2015, undici giorni dopo la fine del mandato presidenziale.
Questa norma aumenta considerevolmente il potere del governo, permettendogli, tra le altre cose, di creare nuove tasse, modificare la legge di bilancio senza consultare il Congresso e decidere il prezzo di svariati beni e servizi. Immediatamente dopo l’approvazione della legge, il prezzo del combustibili sono stati congelati per 45 giorni.
Oltre alla “legge dei superpoteri economici”, nella stessa seduta il Congresso ha approvato un aumento di 19,2% delle spese pubbliche. Un tentativo assai poco discreto di ammorbidire gli animi degli argentini e cercare di preparare il terreno per la campagna presidenziale del successore politico della Kirchner, peraltro non ancora individuato.
L’effetto immediato di queste decisioni di politica economica tipicamente argentina è stato spaventare la classe imprenditoriale, peraltro già molto preoccupata dall’assenza della Kirchner dalla Casa Rosada a causa dell’operazione chirurgica. L’assoluto riposo imposto dai medici alla presidente per 45 giorni ha portato il suo vice, Amado Boudou, al comando del Paese.
Con una fama di playboy e accusato di corruzione in cinque processi attualmente in svolgimento, il curriculum di questo ex-ministro dell’economia spicca per altre due ragioni: è stato lui a progettare la re-statalizzazione della previdenza sociale argentina - garantendo così ai Kirchner un “tesoretto” da 25 miliardi di dollari - ed è indicato da più parti come l’amante della presidente. Entrambi i fattori avrebbero permesso la sua repentina ascesa al potere, garantendogli peraltro, secondo i sondaggi, l’astio dell’80% degli argentini.
Opposizioni divise
Ma se i kirchneristi piangono, le opposizioni non ridono. I partiti che in teoria dovrebbero godere di una schiacciate maggioranza elettorale, non riescono tuttavia a organizzarsi in una coalizione compatta, continuando ad essere polverizzate in una miriade di sigle politiche.
I principali avversari del Fronte per la vittoria sono l’Unione civica radicale, il gruppo peronista dissidente e la Proposta repubblicana. Le previsioni di voto indicano che nessuna di queste dovrebbe arrivare al 25% dei voti.
Le elezioni legislative di ottobre porteranno probabilmente ad una sconfitta del kirchnerismo e ad un riassetto degli equilibri politici argentini. Allo stesso tempo, però, il rischio è che le urne generino un Congresso frammentato e ingovernabile.
Con una presidente indebolita politicamente e fisicamente, i due anni che mancano alla fine del mandato potrebbero risultare ancora più travagliati di quelli già trascorsi. Per un paese che da dodici anni vive in piena convulsione economica, non è un’ottima prospettiva.
Carlo Cauti è un giornalista della testata brasiliana O Estado de S.Paulo.
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Nessuna eternità
Quando Néstor Kirchner morì nel 2010, l’onda emotiva popolare favorì la rielezione alla presidenza di sua moglie Cristina, la cui popolarità in quel momento era piuttosto bassa. Questa volta, tuttavia, la preoccupazione per lo stato di salute della presidente non influenzerà il risultato delle consultazioni.
Secondo i sondaggi elettorali, la coalizione kirchnerista, il Fronte per la vittoria, dovrebbe subire una pesante sconfitta, attestandosi a circa il 26% delle preferenze. Meno della metà dei voti ottenuti nelle elezioni del 2011.
L’immagine della Kirchner è ormai compromessa. Tralasciando i continui scandali di corruzione, le proposte di modifiche della costituzione per permettere rielezioni illimitate (il progetto chiamato “Cristina eterna”) e lo stile irruente della presidente che hanno indisposto gli elettori, il principale problema per gli argentini è senza dubbio l’inflazione, provocata da scelte di politica economica quantomeno discutibili.
Mercato nero
L’aumento dei prezzi è stimato intorno al 30% annuo, un dato che il governo si ostina a negare, indicando “soltanto” un 10% di incremento. Questo tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto non cancella i pesanti effetti negativi sul reddito reale di cittadini, che riverseranno nelle urne la loro frustrazione.
Per cercare di domare l’inflazione, la Banca centrale argentina ha iniziato una politica di difesa artificiale del tasso di cambio del peso con il dollaro, dissanguando in questo modo le riserve valutarie, piombate a 34,7 miliardi di dollari, il valore più basso degli ultimi sei anni.
Allo stesso tempo il governo ha limitato rigidamente la capacità di acquisto e di circolazione di dollari da parte della popolazione, con la naturale conseguente nascita di un florido mercato nero valutario.
Infine, la credibilità dell’esecutivo è ulteriormente minata dalla mancanza di linearità dei provvedimenti adottati. Ad esempio, mentre i contribuenti argentini sono perseguitati dal fisco, il governo ha varato un’ampia amnistia tributaria per tutti i cittadini detentori di conti correnti esteri non dichiarati e denominati in dollari.
Superpoteri economici
In previsione della debacle elettorale, la coalizione kirchnerista ha già dato inizio alle grandi manovre per tentare di limitare i danni. Il 9 ottobre il Congresso ha infatti prorogato la “legge dei superpoteri economici” fino al 21 dicembre 2015, undici giorni dopo la fine del mandato presidenziale.
Questa norma aumenta considerevolmente il potere del governo, permettendogli, tra le altre cose, di creare nuove tasse, modificare la legge di bilancio senza consultare il Congresso e decidere il prezzo di svariati beni e servizi. Immediatamente dopo l’approvazione della legge, il prezzo del combustibili sono stati congelati per 45 giorni.
Oltre alla “legge dei superpoteri economici”, nella stessa seduta il Congresso ha approvato un aumento di 19,2% delle spese pubbliche. Un tentativo assai poco discreto di ammorbidire gli animi degli argentini e cercare di preparare il terreno per la campagna presidenziale del successore politico della Kirchner, peraltro non ancora individuato.
L’effetto immediato di queste decisioni di politica economica tipicamente argentina è stato spaventare la classe imprenditoriale, peraltro già molto preoccupata dall’assenza della Kirchner dalla Casa Rosada a causa dell’operazione chirurgica. L’assoluto riposo imposto dai medici alla presidente per 45 giorni ha portato il suo vice, Amado Boudou, al comando del Paese.
Con una fama di playboy e accusato di corruzione in cinque processi attualmente in svolgimento, il curriculum di questo ex-ministro dell’economia spicca per altre due ragioni: è stato lui a progettare la re-statalizzazione della previdenza sociale argentina - garantendo così ai Kirchner un “tesoretto” da 25 miliardi di dollari - ed è indicato da più parti come l’amante della presidente. Entrambi i fattori avrebbero permesso la sua repentina ascesa al potere, garantendogli peraltro, secondo i sondaggi, l’astio dell’80% degli argentini.
Opposizioni divise
Ma se i kirchneristi piangono, le opposizioni non ridono. I partiti che in teoria dovrebbero godere di una schiacciate maggioranza elettorale, non riescono tuttavia a organizzarsi in una coalizione compatta, continuando ad essere polverizzate in una miriade di sigle politiche.
I principali avversari del Fronte per la vittoria sono l’Unione civica radicale, il gruppo peronista dissidente e la Proposta repubblicana. Le previsioni di voto indicano che nessuna di queste dovrebbe arrivare al 25% dei voti.
Le elezioni legislative di ottobre porteranno probabilmente ad una sconfitta del kirchnerismo e ad un riassetto degli equilibri politici argentini. Allo stesso tempo, però, il rischio è che le urne generino un Congresso frammentato e ingovernabile.
Con una presidente indebolita politicamente e fisicamente, i due anni che mancano alla fine del mandato potrebbero risultare ancora più travagliati di quelli già trascorsi. Per un paese che da dodici anni vive in piena convulsione economica, non è un’ottima prospettiva.
Carlo Cauti è un giornalista della testata brasiliana O Estado de S.Paulo.
venerdì 25 ottobre 2013
Burasile: Alta Velocità, una occasione per le industrie italiane
Il Presidente del Brasile Dilma Rousseff ha lanciato il nuovo Programma federale per l’infrastruttura e la logistica che prevede di attrarre in 25 anni investimenti privati nei settori della costruzione di strade e ferrovie per un ammontare di 133 miliardi di Real (circa 53 miliardi di Euro), di cui 80 mld nei prossimi 5 anni e la restante parte fino al 2037.
Il Programma intende realizzare una pianificazione integrata del sistema dei trasporti e prevede la duplicazione di arterie stradali (7.500 km) e la costruzione di nuove linee ferroviarie (10.000 km). Col lancio del Programma di Infrastruttura e Logistica il governo brasiliano ha pubblicato il bando di gara relativo alla prima linea ferroviaria ad alta velocità – cosiddetto “Trem Bala” (treno proiettile) – che collegherà le città di Rio de Janeiro, San Paolo e Campinas.
Il TAV brasiliano risponde all’esigenza di collegare le due maggiori città del grande Paese sudamericano, quelle dove hanno sede le maggiori imprese nazionali e straniere e sono dislocati gli aeroporti internazionali col maggior numero di transiti annuali. In questo periodo, già battezzato decennio dello sport per via dei due importantissimi appuntamenti sportivi internazionali (campionati del mondo di calcio del 2014 ed olimpiadi del 2016 ), la scelta di potenziamento delle infrastrutture del Paese risulta davvero strategica anche per il suo futuro.
Il termine per la presentazione delle offerte doveva scadere il 16 agosto scorso ma l’asta è stata rinviata di almeno un anno. La motivazione ufficiale è che ci sarebbe l’assenza di concorrenza tra le imprese interessate: tra di esse (la francese Alstom, la tedesca Siemens e la spagnola Renfe), infatti, solo la compagnia transalpina ha finora formalizzato una proposta.
Il Presidente della società di Pianificazione e Logistica (EPL), Bernardo Figueiredo, ha sottolineato che la decisione di posporre il subappalto è stata presa dopo aver parlato con i paesi interessati. Infatti, mentre la Francia era già pronta a partecipare alla licitazione, la Spagna ha chiesto più tempo e la Germania che si rinviasse di un anno, secondo quanto ha reso noto lo stesso Figueiredo in un comunicato stampa. L’intento degli spagnoli è di costituire un unico grande gruppo per competere per questo contratto, cercando di ripetere il successo ottenuto in Arabia Saudita, dove alla fine del 2011 la Spagna – con un consorzio di imprese – si è aggiudicata l’AVE La Mecca-Medina, uno dei più grandi contratti mai stipulati all’esterno. Inoltre, le aziende spagnole in queste ultime settimane stanno lavorando alacremente per evitare che l’immagine internazionale dell’Alta Velocità spagnola sia offuscata dall’incidente di un treno Alvia occorso in Santiago de Compostela il 24 luglio scorso.
L’aggiudicazione della gara era stata fissata, prima del rinvio, al 20 novembre 2013. L’inizio delle opere sarebbe dovuto avvenire nel 2015, mentre l’operatività dei treni avviata entro il 2° semestre del 2020. Il progetto TAV Brasile prevede la costruzione e gestione, in concessione per 40 anni, di una linea ad Alta Velocità (per una velocità massima di 350 km/h) di circa 510 Km, di cui 90 in galleria, 108 in viadotto e 312 in superficie.
Varrà la combinazione di due criteri di aggiudicazione: la capacità di pagare il maggior valore per km/treno ed il minor costo proposto per la costruzione dell’opera. Sarà valutata di più la tecnologia proposta. L’ANTT ha reso disponibile le informazioni e la documentazione per il bando di gara anche sulla sua pagina web (http://www.antt.gov.br/). Intanto il ministro brasiliano dei Trasporti César Borges ha voluto assicurare che non impedirà al consorzio spagnolo Renfe di partecipare alla licitazione, dubbio che si era posto poiché tra i requisiti previsti dal concorso c’è quello di non aver avuto un “incidente fatale” negli ultimi cinque anni; il Ministero della Promozione spagnolo e le imprese implicate hanno assicurato che il tratto Ourense-Santiago non era di alta velocità.
Dopo l’incontro a Brasilia nel 2012 tra i vertici di ANTT e di FFSS, all’esito del quale il Governo brasiliano, secondo il comunicato stampa delle FFSS, aveva stimato che i passeggeri che avrebbero viaggiato sull’Alta Velocità sarebbero stati 46 milioni nel 2024, fino ad arrivare a 69 milioni nel decennio successivo, nessuna notizia è giunta riguardo all’intenzione di candidarsi sia da parte di FFSS che di altre imprese italiane.
E sebbene tutto appaia ancora troppo incerto e molti osservatori ritengano che le opere non vedranno mai la luce, il Presidente della EPL brasiliana Figueiredo sostiene che “ l’iniziativa è ancora in piedi”. Staremo a vedere.
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lunedì 14 ottobre 2013
J. Jnsulza: il punto di situazione sull'America Latina
Il Segretario Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), José Miguel Insulza, il 12 settembre 2013, ha tenuto una Conferenza per illustrare la situazione generale dei paesi dell’America Latina nella sede romana dell’Istituto Italo-Latino Americano (IILA). Insulza, che ha assunto l’attuale prestigioso incarico nel maggio 2005, è un politico cileno, esponente del Partito Socialista, laureato in legge all’Università di Santiago del Cile, che, dopo il colpo di stato militare di Pinochet, si era trasferito dapprima in Italia, poi in Messico ed infine negli Stati Uniti, dove si è specializzato in economia.
La conferenza ha avuto luogo alla presenza degli Ambasciatori rappresentanti i Paesi membri dell’IILA, di alcuni parlamentari italiani, di funzionari del Ministero degli Affari Esteri, di rappresentanti del mondo diplomatico, di giornalisti e di studiosi, tutti interessati all’America Latina, che hanno partecipato anche all’interessante dibattito seguito alla Conferenza. Il Segretario Generale dell’OSA, dopo i saluti del Segretario Generale dell’IILA Giorgio Malfatti di Monte Tretto e del Presidente dell’IILA S.E. l’Ambasciatore Miguel Ruìz-Cabañas, ha preso la parola esponendo una relazione sulle principali sfide, difficoltà e problematiche che oggi pone l’America Latina.
Secondo Insulza forse è un po’ esagerato sostenere – come ha fatto l’Economist – che il XXI secolo sia il secolo dell’America Latina. E’ vero, però, che il biennio 2010-2012 ha segnato un grande sviluppo economico di quest’area, sebbene la crisi globale del 2008 l’abbia comunque toccata. La crescita registrata, d’altra parte, è abbastanza eterogenea: nel 2010, ad esempio, il Paraguay ha avuto un enorme sviluppo economico (+15%); mentre la crescita del Centro America è stata più bassa a causa del problema del narcotraffico (una media del +3%); ed il Caribe ha segnato il passo con una crescita vicina allo zero. L’export dell’America Latina è cresciuto del 4-5% all’anno. C’è stata una sostanziale riduzione della povertà, con circa 60 milioni di persone uscite da questo difficile status nel primo decennio del 2000; circostanza che ha consentito una crescita generale dei consumi grazie al notevole incremento di persone che hanno avuto accesso alla classe media. D’altra parte la classe media latinoamericana, sostiene Insulza, è molto fragile per via della sua instabilità. E’ innegabile, però, che non c’è mai stata tanta democrazia – assoluta e diffusa – in America Latina come in questa prima decade del 2000: la democrazia non si costruisce in un giorno ed il grado di democrazia raggiunto non è paragonabile anche solo a quello del decennio precedente.
L’accesso all’educazione è ormai quasi universale in tutta l’America Latina. La disuguaglianza, invece, è ancora un problema che, però, non può essere affrontato nello stesso modo della povertà: infatti, per ridimensionare la disuguaglianza è necessario che chi cresce di meno cresca ad un ritmo superiore di chi cresce di più; e questa, specialmente in un periodo di crescita relativa com’è l’attuale, è una sfida assai difficile. Un’altra sfida da affrontare è l’accesso diffuso alla salute, come dimostrano ad esempio le recenti contestazioni sul tema in Brasile. Un problema grave è quello della sicurezza: basti pensare che in ciascun paese di quest’area per ogni polizia pubblica ci sono almeno 4 polizie private. Questione spinosa è, poi, la violenza, considerato che il tasso di criminalità dell’America Latina è il più alto del mondo (ad esempio il tasso di omicidi); il 96% degli omicidi è commesso da giovani tra i 10 ed i 24 anni, sicché si parla di un problema giovanile. Riguardo alla violazione dei diritti umani c’è ancora molto da fare: senza dubbio, secondo Insulza, l’OSA è stata un volano molto importante per la difesa di essi; ma deve far riflettere che la Convenzione Americana dei Diritti Umani (approvata dall’Assemblea dell’OSA nel 1969) non sia stata ancora ratificata dagli USA e sia stata addirittura denunciata dal Venezuela. Altro problema è la droga: l’America Latina, infatti, è il continente del mondo dove si svolge il maggior numero di attività collegate alla droga (coltivazione, raccolta, produzione, transito verso altri paesi etc.); ed è l’area in cui si consuma il 45% della cocaina ed eroina consumate nelle Americhe ed il 25% di marijuana.
Insulza ha, inoltre, sottolineato:
Il rapporto dell’OSA da cui provengono i dati sopra citati, secondo Insulza, suggerisce di affrontare il problema da una prospettiva in cui la salute prevalga di fronte alla sicurezza, privilegiando prevenzione e trattamento, oltre a tracciare alcuni possibili scenari: in primis quello della depenalizzazione del consumo, che sta guadagnando consenso negli USA (Colorado e Washington), ma anche in Uruguay, Argentina e Brasile. Il concetto è stato ribadito dal Segretario Generale dell’OSA a margine della conferenza, quando il pubblico gli ha domandato se ritenesse utile alla lotta contro la droga in America Latina la recente legalizzazione della marijuana da parte dell’Uruguay. La Camera dei deputati uruguaiana, infatti, ha approvato la legalizzazione della marijuana con una norma che prevede la legalizzazione della coltivazione (fino a sei piante per persona) e compravendita della cannabis, attraverso la creazione di un organismo statale che regolamenterà ogni fase dell’attività: i consumatori, registrati in un’apposita banca dati, potranno acquistare fino a 40 grammi di marijuana al mese, attraverso una rete di farmacie autorizzate. La legge, fortemente voluta dal Presidente dell’Uruguay José Mujica, mira a regolare e controllare la produzione e la distribuzione per il consumo personale o per fini terapeutici, come avviene in altri Paesi, ed ha ottenuto il sostegno anche del segretario generale dell’OSA, che alla domanda di cui si diceva ha risposto, appunto:
José Miguel Insulza si è congedato sostenendo di non aver voluto dare ricette, ma di aver delineato uno scenario su cui discutere per poi trovarne una tutti insieme. Molti paesi latino americani hanno dimostrato in questi ultimi anni di aver saputo raccogliere questo invito. L’augurio è che la capacità di dialogare e di porsi in ascolto dimostrata da alcuni di essi sia contagiosa per tutti i paesi dell’area.
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