Master 1° Livello

MASTER DI I LIVELLO

POLITICA MILITARE COMPARATA DAL 1945 AD OGGI

Dottrina, Strategia, Armamenti

Obiettivi e sbocchi professionali

Approfondimenti specifici caratterizzanti le peculiari situazioni al fine di fornire un approccio interdisciplinare alle relazioni internazionali dal punto di vista della politica militare, sia nazionale che comparata. Integrazione e perfezionamento della propria preparazione sia generale che professionale dal punto di vista culturale, scientifico e tecnico per l’area di interesse.

Destinatari e Requisiti

Appartenenti alle Forze Armate, appartenenti alle Forze dell’Ordine, Insegnanti di Scuola Media Superiore, Funzionari Pubblici e del Ministero degli Esteri, Funzionari della Industria della Difesa, Soci e simpatizzanti dell’Istituto del Nastro Azzurro, dell’UNUCI, delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma, Cultori della Materia (Strategia, Arte Militare, Armamenti), giovani analisti specializzandi comparto geostrategico, procurement ed industria della Difesa.

Durata e CFU

1500 – 60 CFU. Seminari facoltativi extra Master. Conferenze facoltative su materie di indirizzo. Visite facoltative a industrie della Difesa. Case Study. Elettronic Warfare (a cura di Eletronic Goup –Roma). Attività facoltativa post master

Durata e CFU

Il Master si svolgerà in modalità e-learnig con Piattaforma 24h/24h

Costi ed agevolazioni

Euro 1500 (suddivise in due rate); Euro 1100 per le seguenti categorie:

Laureati UNICUANO, Militari, Insegnanti, Funzionari Pubblici, Forze dell’Ordine

Soci dell’Istituto del Nastro Azzurro, Soci dell’UNUCI

Possibilità postmaster

Le tesi meritevoli saranno pubblicate sulla rivista “QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO”

Possibilità di collaborazione e ricerca presso il CESVAM.

Conferimento ai militari decorati dell’Emblema Araldico

Conferimento ai più meritevoli dell’Attestato di Benemerenza dell’Istituto del Nastro Azzurro

Possibilità di partecipazione, a convenzione, ai progetti del CESVAM

Accredito presso i principali Istituti ed Enti con cui il CESVAM collabora

Contatti

06 456 783 dal lunedi al venerdi 09,30 – 17,30 unicusano@master

Direttore del Master: Lunedi 10,00 -12,30 -- 14,30 -16

ISTITUTO DEL NASTROAZZURRO UNIVERSITA’ NICCOL0’ CUSANO

CESVAM – Centro Studi sul Valore Militare www.unicusano.it/master

www.cesvam.org - email:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

America

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

America Centrale

America Centrale

Medoto di ricerca ed analisi adottato

Vds post in data 30 dicembre 2009 su questo stesso blog seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo
adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità dello
Stato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento a questo blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

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giovedì 27 novembre 2014

ISaG: 11 Dicembre Conferenza: 1965-2014 Cinquant'anni di Quebc in Italia

Alla Camera dei Deputati

l'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) è lieto d'invitarvi alla conferenza 1965-2015: Cinquant'anni di Québec in Italia, che si terrà giovedì 11 dicembre 2014, dalle ore 15.30 alle ore 18, presso la Sala della Mercede di Palazzo Marini, Camera dei Deputati, in Via della Mercede 55. L'evento è realizzato in collaborazione con la Delegazione del Québec in Italia in occasione dell'uscita dell'omonimoQuaderno di Geopolitica.


Nel 1965 il Québec, provincia del Canada, inaugurava un suo ufficio di rappresentanza a Milano, cui sarebbe poi seguita una Delegazione a Roma. Quello stesso anno, infatti, il ministro quebecchese Paul Gérin-Lajoie aveva lanciato la propria dottrina, secondo cui tutto ciò che è di competenza del governo provinciale in Québec, lo è anche all’estero. Oggi la provincia francofona del Canada ha numerose rappresentanze nel mondo, ma il rapporto con l’Italia rimane tra i più stretti, in virtù della vicinanza culturale e della vivacità degli scambi commerciali e ideali. Una nutrita comunità italo-canadese risiede in Québec, ottimamente integrata, e numerosi artisti e letterati quebecchesi (oltre a studenti e turisti) visitano l’Italia per ammirarne i retaggi culturali. Scienza, cultura e arte sono infatti dei focus politici del Québec, per sua natura particolarmente attento agli elementi che definiscono l’identità di un popolo.


La locandina col programma completo è disponibile cliccando qui. Interverranno: Amalia Daniela Renosto (Québec, Delegata in Italia), On. Stefano Dambruoso (Camera dei Deputati, Questore), On. Francesca Lamarca (Camera dei Deputati, Membro Commissione Esteri), Tiberio Graziani (Istituto IsAG, Presidente), Paolo Quattrocchi (NCTM Studio Legale, Associato), Daniele Scalea (Istituto IsAG, Direttore Generale).


Per prendere parte all'evento è necessario effettuare entro le ore 12 di lunedì 8 dicembre2014 laregistrazione all'indirizzo eventi@istituto-geopolitica.eu, comunicando nome, cognome, indirizzo e-maildi ciascun partecipante. Nei locali della Camera dei Deputati per i signori uomini sono obbligatori la giacca e la cravatta.


Distinti saluti,
Daniele Scalea




Roma, Camera dei Deputati

mercoledì 19 novembre 2014

Colombia: si allontana la soluzione diplomatica

La Colombia e le Farc: 
negoziati sospesi a causa del rapimento di un generale.

di

Giulia Dal Fiume*

I negoziati di pace avviati faticosamente nel 2012 tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, meglio conosciute come Farc, sono a rischio a causa del sequestro di un alto ufficiale dell’esercito, il generale Rubén Dario Alzate. Quest’ultimo è stato rapito ieri mentre visitava Las Mercedes, un villaggio a pochi chilometri da Quibdo, capoluogo della regione occidentale del Choco. Pare che insieme al generale siano stati sequestrati anche un altro militare e un consulente dell’esercito.
Il problema con le forze rivoluzionarie attanaglia lo stato colombiano da ormai una cinquantina d’anni; i primi segnali di distensione si sono avuti nell’ottobre 2012 quando, per la prima volta da dieci anni, vi è stato un incontro diretto tra esponenti del governo e del movimento rivoluzionario in Norvegia. Da allora non ci sono stati grossi passi avanti nelle trattative, ma nemmeno passi indietro, fino ad oggi. Il presidente Juan Manuel Santos, dopo una riunione con gli alti vertici militari di Bogotà, ha infatti annunciato la sospensione delle trattative che si tengono a Cuba. Le autorità ritengono quindi responsabili le FARC dell’accaduto, nonostante nella regione in cui è avvenuto il fatto operino anche altre varie bande criminali, tra cui l’Esercito di Liberazione Nazionale.

Nonostante il generale Alzate avesse “rotto tutti i protocolli di sicurezza, trovandosi in abiti civili in una zona rossa”, come afferma in un tweet il presidente Santos, non si riprenderanno i negoziati fino alla liberazione degli ostaggi. Inoltre, il sequestro è avvenuto poco dopo la cattura di altri due soldati durante i combattimenti nel nord del paese sempre ad opera del movimento rivoluzionario; sono stati dichiarati prigionieri di guerra ma le Farc si sono dichiarate pronte per trattarne la liberazione.

*Dott.ssa in Relazioni Internazionali.  

martedì 18 novembre 2014

Stati Uniti: approfondimento sulle elezioni di medio termine. Vieoarticoli

Video articoli su IAI CHANNEL. (CLICCARE SOPRA IL TITOLO ED ANDARE AL VIDEO)

Marta Dassù - Aspettando le elezioni Usa 2016

Sergio Fabbrini - La governabilità Usa post Mid term -

Pubblicato il 08/nov/2014
Intervista a Sergio Fabbrini - direttore della Luiss School of Government - sulle ripercussioni sociali e politiche del voto di mid-term di inizio novembre, sulla politica interna USA e i suoi riflessi in politica estera. A margine del seminario IAI sulle elezioni americane di mid-term in collaborazione con Aspenia e Centro Studi Americani.

Roma 06/11/2014

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Stati Uniti: il dopo elezioni di medio termine

Usa, Midterm
Obama ha perso, i repubblicani non hanno ancora vinto
Giampiero Gramaglia
11/11/2014
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Barack Obama ha perso il voto di Mid-term. Anzi, l’ha riperso perché gli era già accaduto nel 2010: i repubblicani si presero la Camera e la luna di miele del presidente con gli Stati Uniti, durata due anni, finì.

Ma non è affatto detto che i democratici perderanno le prossime presidenziali, che s’annunciano nel segno dell’alternanza di colore – sicuro - e di genere – possibile -, non forzatamente di partito. Il sito 270TOWIN, che tiene il conto giorno per giorno dei Grandi Elettori, ne dà ancora 332 ai democratici e 206 ai repubblicani, a due anni esatti dall’Election Day, l’8 novembre 2016.

Quella del voto di Mid-term è un’America ‘bipolare’. Elegge i candidati conservatori. E boccia sonoramente l’Amministrazione democratica, nonostante l’economia in crescita e la disoccupazione in calo.

Però, anche negli Stati più rossi, cioè più repubblicani, passano referendum per marijuana libera, aborto, unioni omosessuali, aumento del salario minimo, molti sono punti del programma di Obama.

È come se politica e società siano, in parte, dissociate. E, di questo, l’agenda del prossimo biennio dovrà tenere conto: è stato un voto contro il presidente più che di adesione alla linea dell’opposizione; un voto di delusione, disillusione, astensione, specie fra i giovani.

Non c’è dubbio però che l’America volta pagina e cambia agenda: l’ha ammesso lo stesso Obama, dopo la disfatta. Ma le pagine della nuova potrebbero restare tutte bianche, se gli Stati Uniti vivranno un ‘muro contro muro’ tra Amministrazione democratica e Congresso repubblicano: iniziative della Casa Bianca bloccate in Campidoglio; e veto del presidente apposto sulle leggi parlamentari.

La prospettiva non spaventa Wall Street, che festeggia il successo dei conservatori, dopo averne abbondantemente foraggiato le campagne. Nessuno teme davvero che l’America resti paralizzata, prima delle presidenziali.

Non è interesse di nessuno: né dell’Amministrazione democratica, che non vorrà lasciare con un bilancio fallimentare; né dell’opposizione repubblicana, che non vorrà arrivare alle urne con una fama da ostruzionista.

Le trappole dell’onnipotenza
La sconfitta dei democratici era annunciata, ma è stata persino più larga del previsto. I repubblicani, che già controllavano la Camera, dove sfiorano il 250 seggi su 435, conquistano la maggioranza anche al Senato -52 seggi su 100-, facendo razzia di Stati in bilico, North Carolina e West Virginia, South Dakota e Iowa, Arkansas e Colorado e Montana. Ora, il Congresso è tutto loro.

Un successo che può provocare deliri di onnipotenza: Ted Cruz, uno da Tea Party, un nome citato per la nomination 2016, ha propositi bellicosi, “Cancelleremo l’obbrobrio della riforma sanitaria”. Ma i leader del partito, a iniziare dal senatore Mitch McConnell, prossimo leader della maggioranza al Senato, mettono la sordina: la trappola del partito che boccia tutto e paralizza l’Unione potrebbe trasformare la vittoria in un boomerang.

Il voto di Mid-term segna una battuta d’arresto dei progressisti e un’avanzata dei conservatori, che in America sono una galassia meno circoscritta che in Europa dove i progressisti, insieme ai vari cloni del presidente Usa sparsi in tutto il Mondo, temono di subire contraccolpi dalla sconfitta di Obama.

Sul piano personale, molti saranno meno inclini a sbandierare presente affinità; qualcuno potrebbe pensare di sostituire la propria leadership a quella declinante del presidente Usa: l’ambizione senza limiti sconfina nel ridicolo.

Con un’opinione pubblica tentata dall’anti-politica, i due maggiori partiti devono pure smarcarsi dalle spese sostenute per la campagna di Mid-term costata, la cifra record di 4 miliardi di dollari, oltre 50 dollari per ogni cittadino andato alle urne.

L’agenda Usa dei prossimi due anni
Obama ha davanti a sé il periodo più difficile alla Casa Bianca, due anni da ‘anatra zoppa’, un incubo che hanno già sperimentato, prima di lui, solo Eisenhower, Reagan, Clinton e Bush II – tre degli ultimi quattro presidenti: accade sempre più spesso, forse un segno della volatilità crescente dell’elettorato statunitense.

Quale sarà, dunque, l’agenda Usa dei prossimi due anni? In economia sembrano tutti: non intralciare la ripresa, anzi cercare di fare sentire i benefici alla classe media - una delle colpe di Obama è non esserci riuscito. Sulle riforme, improbabile che vada avanti quella dell’immigrazione, ma difficile che venga cancellata quella sanitaria, che inizia a funzionare e di cui si cominciano ad avvertire i benefici.

Sui temi dei diritti civili, la nuova frontiera del secondo mandato del presidente Obama, l’attenzione è alta. Se vogliono avere una chance di riprendersi la Casa Bianca nel 2016, i repubblicani non devono arroccarsi sulle posizioni ultra-tradizionali della loro estrema destra.

Le relazioni internazionali, dove il Senato ha potere, sono un terreno minato. Meno protezionismo, forse, sul fronte commerciale - difficile, però, che grandi progetti d’interesse transatlantico, come i negoziati per l’area di libero scambio Usa-Ue, vadano in porto in un contesto di conflittualità; ma anche più diffidenza verso la Cina e le potenze economiche emergenti.

E tentazioni d’interventismo nelle crisi: muso duro con la Russia di Putin; più vicinanza con Israele. Ma le truppe lasceranno l’Afghanistan entro fine anno; e non torneranno in Iraq, contro il Califfato, a meno che Obama non rinneghi se stesso. L’Europa, che ha criticato la guida incerta dell’America nelle Primavere arabe e nei loro risvolti, teme di doversi di nuovo confrontare con un eccesso d’interventismo degli Stati Uniti: non tanto ora, ma dopo un cambio della guardia alla Casa Bianca.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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Stati Uniti: il nodo nucleare iraniano

Accordo sul nucleare iraniano
Centrifughe e uranio, nodi irrisolti dell’accordo
Carlo Trezza
11/11/2014
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La scadenza della trattativa sul programma nucleare iraniano è ormai alle porte. Avvicinandosi alla data fissata - dal 18 al 24 novembre - fervono gli incontri preparatori.

Recentemente si sono riuniti a Vienna per sei ore consecutive il Segretario di Stato statunitense John Kerry, l'ex Alto Rappresentante per la Pesc Catherine Ashton e il Ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Sono tornati ad incontrarsi pochi giorni orsono in Oman.

Il fatto che statunitensi e iraniani si parlino direttamente è già di per sé un importante risultato. I Ministri degli esteri dei cinque paesi cui il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) concede il possesso dell'arma nucleare (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) più la Germania (E3+3) sono pronti a intervenire direttamente al momento cruciale.

Ad essi avrebbe dovuto unirsi Federica Mogherini che occupa ora la poltrona di Ashton, ma curiosamente è ancora quest'ultima a rimanere in scena.

Produzione di uranio arricchito
Il dibattito si concentra su come far uscire gli iraniani dal "pasticciaccio" in cui si posero nel 2003 con l'avvio di un programma clandestino di centrifughe per la produzione dell'uranio arricchito.

L'iniziativa si poneva nel quadro del più ampio disegno, che risaliva all'epoca dello Shah, di dotare il paese di una capacità nucleare a scopi energetici.

Tale progetto, inizialmente incoraggiato dagli Usa, venne ostacolato dopo la rivoluzione del 1979. La prima ed unica centrale iraniana, quella di Bushehr, completata dai russi dopo molte vicissitudini, è entrata in funzione nel 2011.

Temendo un possibile diniego all'accesso al mercato internazionale del combustibile necessario per le sue future centrali, Teheran adottò la rischiosa decisione di costruire un impianto autonomo di arricchimento dell'uranio.

Era prevedibile che l'acquisto di questa capacità, per quanto non contrario al Tnp, avrebbe incontrato la ferma opposizione del mondo occidentale e soprattutto di Israele. Per questo Teheran avviò clandestinamente il suo programma.

Il sospetto che esso mirasse anche a scopi bellici era corroborato dallo sviluppo in parallelo di un programma missilistico a scopi dichiaratamente militari.

Con il senno di poi, si può dire che l'Iran sopravvalutò gli ostacoli che avrebbe incontrato nell'approvvigionamento di uranio arricchito sul mercato internazionale. Oggi infatti Teheran riceve tranquillamente dai russi il combustibile necessario per la centrale di Bushehr. Una serie di meccanismi internazionali sono stati posti in essere proprio per garantire agli stati l'accesso a tali rifornimenti.

Quello che invece sottovalutò fu l'opposizione occidentale al suo programma. Le sanzioni del Consiglio di sicurezza, avallate anche da tradizionali sostenitori di Teheran come Mosca e Pechino, iniziano ad incidere seriamente sull'economia iraniana. La loro revoca è l'obiettivo prioritario perseguito da Teheran.

Numero delle centrifughe
Mentre si dibatte ancora sul "diritto inalienabile all'energia nucleare", sancito dal Tnp, chiedendosi se questo includa anche un vero e proprio diritto ad arricchire l'uranio, per uscire dall'impasse si sta cercando di rivedere a fondo l'intera questione.

Il lavoro sinora svolto dai negoziatori è molto buono. Il Piano di azione concordato nel novembre 2013 contiene già gli ingredienti per un'intesa definitiva. La questione principale da risolvere è quella del numero delle centrifughe che l'Iran potrà conservare.

Per dare un senso al suo programma di arricchimento a scopi energetici, l'Iran avrebbe bisogno di aumentare sensibilmente il numero delle centrifughe e degli stock di uranio. Al contrario l'obiettivo principale degli E3+3 è una loro consistente riduzione per allungare il tempo necessario per fabbricare un'arma nucleare ("breakout").

Per trovare una via di uscita da posizioni apparentemente inconciliabili, alcuni think tank statunitensi stanno escogitando la soluzione di adattare scorte e produzione alle effettive esigenze iraniane.

Tale approccio è stato suggerito da Robert Einhorn del Brookings Institute, ex consigliere speciale del Dipartimento di stato per la Non proliferazione e il controllo degli armamenti in un recente convegno.

Fortunatamente le esigenze iraniane sono attualmente alquanto limitate. La centrale di Bushehr deve, per contratto, essere alimentata da forniture russe fino al 2011 e nulla impedisce che l'intesa sia prorogata.

L'Iran non ha comunque ancora messo a punto la tecnologia per trasformare l'uranio arricchito in combustibile per la centrale. I piccoli reattori di ricerca di Teheran e Arak necessitano di scorte limitate. Si potrebbe congelare una buona parte delle centrifughe senza compromettere le future esigenze energetiche. Non sembra casuale l'annuncio di questi ultimissimi giorni di un'intesa russo-iraniana per la costruzione di due ulteriori centrali.

Trattato contro gli esperimenti nucleari e protocollo Aiea
L'Iran potrebbe riattivare le centrifughe ed eventualmente aumentarle quando avrà effettivamente bisogno di bruciare uranio arricchito per sviluppare energia e dovrà quindi smaltire costantemente le sue scorte senza accumularle. Questo darebbe anche il tempo per fugare i legittimi sospetti che suscita il suo progetto.

Non si tratterebbe tanto di svelare eventuali passati tentativi di costruire l'arma nucleare, quanto di dare garanzie ferree che ciò non avverrà in futuro. A tal fine la prima misura da prendere dovrebbe essere l' adesione al Trattato che proibisce gli esperimenti nucleari (CTBT).

Teheran rimane tra i pochissimi paesi a essersi sottratti a questo fondamentale baluardo contro la diffusione dell'arma nucleare. Dovrebbe aderire inoltre senza indugio al Protocollo che permette all'Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica di ispezionare tutti gli impianti connessi con attività nucleari e non solo, come avviene ora, quelli che l'Iran dichiara di possedere.

Un'intesa con l'Iran è un'occasione da non perdere. La congiuntura politica vi è favorevole. Per il presidente Usa Barack Obama si tratterebbe di un'importante "legacy" di un mandato presidenziale che volge alla sua conclusione.

Sia a Washington che a Teheran siedono oggi amministrazioni interessate ad un compromesso. Non è detto che sarà così in futuro.

L'Ambasciatore Carlo Trezza è membro della Troika dei Presidenti del “Missile Technology Control Regime”.
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giovedì 13 novembre 2014

Brasile: in vista delle elezioni

nell'ambito delle discussioni in tema di preparazione alla tesi di Laurea, alcuni spunti di discussione per prendere mano alla rielaborazione.
All'indomani delle elezioni in Brasile, un confronto con quanto scritto in precedenza è un ottimo indicatore.
(www.studentiecultori.blogspot.com)



Manca poco all’appuntamento elettorale brasiliano, fissato il 5 ottobre per nominare il futuro presidente del paese, eppure i cittadini sembrano piuttosto combattuti in questa disputa del tutto insolita. Queste elezioni presentano una nota distintiva rispetto alle precedenti, dato che hanno sconvolto il tradizionale scenario bipolare osservato tra i due partiti maggioritari PT (partito dei lavoratori) e PSDB (partito della social democrazia brasiliana). Tale costanza venne brutalmente abbattuta dopo l’incidente aereo, che ebbi come vittima il candidato del PSB Eduardo Campos nel 13 agosto scorso. Il luto per il suo decesso provoco un forte sentimento di solidarietà nazionale che di certo, favori l’ascesa della cometa Marina sua vice, a seguito della dichiarazione di sostegno della vedova Campos .

     Ma a settimane dello sfortunato episodio, la candidata del PSB riscontra adesso delle difficoltà in mantenere una piattaforma coesa e intatta all’interno del suo stesso partito. Dopo diverse critiche riguardo il suo rapporto  politico con le sedi evangeliche del paese, la strategia “della parola di Dio” adottata sembra ormai una arma a doppio taglio. Ad aggravare la situazione, non sono mancati i recenti attacchi del PT attuale partito in carica, sferrati dal Presidente Dilma Rousseff. La leader ha sostenuto che la candidata Marina non avrebbe mantenuto i progressi e soprattutto i programmi di sostegno dell’era Lula. Programmi di ausilio come il “Bolsa Familia” e “Fome Zero”,  utilizzati per le famiglie disagiate, avrebbe insinuato verrebbero eliminati. Tali accuse hanno grosse ripercussioni in Brasile, un paese in cui al in circa 16,9 milioni di persone vivono in condizioni di strema povertà e altrettante in condizioni precarietà. Sarebbe questa una tattica del terrore? L’ipotesi che tale affermazioni potrebbero condizionare fortemente il risultato alle elezioni è reale, soprattutto in caso di ballottaggio. E le probabilità che ciò si verifichi sono alte, secondo le ultime stimative, Dilma godrebbe di 37% delle intenzioni dei voti contro il 30% di Marina*. La differenza esiste, ma è tuttavia insufficiente per assicurare una vittoria alla prima tornata elettorale.

Nota di Giorgia Licitra.

lunedì 10 novembre 2014

Stati Uniti: elezione di medio termine

Usa-Mid-term
Per Obama, la botola dell’inferno
Giampiero Gramaglia
27/10/2014
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Barack Obama pare avere fretta di lasciarsi alle spalle il voto di ‘mid-term’, che, il 4 novembre, potrebbe aprirgli sotto i piedi la botola dell’inferno: un ultimo biennio alla Casa Bianca con tutto il Congresso contro, la Camera, che già lo è, e pure il Senato nelle mani dei repubblicani.

Un’ipotesi non remota, per come vanno i sondaggi. Anzi, molto probabile.

Nelle elezioni di ‘mid-term’, i cittadini statunitensi rinnovano tutta la Camera - 435 seggi - e un terzo del Senato, oltre a eleggere numerosi governatori e loro vice. C’è poi il consueto corredo di una miriade di voti locali e di referendum.

I repubblicani hanno ampliato il loro vantaggio sui democratici da 5 a 11 punti. Lo rivela l’ultimo sondaggio di Wall Street Journal/ Nbc News: il 52% degli intervistati vuole un Congresso a maggioranza repubblicana, il 41% lo vuole controllato dai democratici.

Non è una situazione insolita, negli Usa, che Amministrazione e Congresso abbiano colori diversi: la sperimentò pure Bill Clinton; e Obama ha sempre avuto contro la Camera, tranne che nei suoi primi due anni.

Barack manda Michelle 
Il presidente ha già votato, in largo anticipo, il 20 ottobre, in un seggio di Chicago, dove partecipava a una raccolta di fondi per i democratici. Obama s’è fatto vedere relativamente poco, in questa campagna.

Di buone scuse, per restare a fare il comandante in capo alla Casa Bianca, ne ha: l’Ebola, per dirne una, che unisce l’America nell’ansia, e anche la guerra al terrorismo e all’autoproclamatosi Stato islamico. Ma, in realtà, il presidente, molti candidati non lo vogliono accanto sul palco: temono il contagio della sua bassa popolarità.

A un comizio in Maryland, per sostenere il candidato governatore democratico Anthony Brown, una parte del pubblico se n’è andata prima che Obama finisse di parlare, in segno di disappunto. Così, il peso della campagna è più sulla moglie, Michelle.

Anche Hillary, che gli fu segretario di Stato nel primo mandato, tiene le distanze e, almeno in politica estera, non gli risparmia critiche, come un altro ‘clintoniano’, l’ex segretario alla difesa Leon Panetta, o come l’ex presidente, e pure Nobel per la Pace, Jimmy Carter.

E proprio i Clinton, e persino il vice-presidente Joe Biden, sono testimonial elettorali più ambiti del presidente.

Disaffezione e freddezza
Gli Stati Uniti si avvicinano al voto di ‘mid-term’ in un clima di sfiducia e disaffezione alla politica che accomuna Congresso e Casa Bianca e che fa tanto Italia.

Solo il 9% di quanti intendono recarsi alle urne - saranno probabilmente il 50% dei potenziali elettori, non di più - sono "entusiasti" del presidente: siamo ben lontani dal fervore e quasi dall’entusiasmo che salutò, nel 2008, l’ingresso alla Casa Bianca del primo presidente nero degli Stati Uniti.

Il sondaggio che ha tastato il polso dell’emozione politica dell'elettorato statunitense è stato condotto da Ap-Gfk: alla domanda più scontata se approvassero o meno l’operato di Obama, il 17% ha risposto di sì con forza e il 44% di no con pari forza.

Ma davanti alla scelta che sollecitava l’entusiasmo o la delusione dell'elettorato solo il 9% s’è detto "entusiasta" di Obama, mentre il 34% ce l’ha con il presidente.

E nonostante il lavoro ci sia, con la disoccupazione su valori fisiologici, e la crescita sia robusta, anche la fiducia degli americani nelle capacità di Obama di gestire l'economia è ai minimi dal 2009.

In un sondaggio della Cnbc, solo il 24% degli intervistati si dice "estremamente o abbastanza soddisfatto" dai risultati ottenuti dalle politiche economiche dell’Amministrazione. Un crollo rispetto al già modesto 33% del gennaio 2013, all’insediamento di Obama per il secondo mandato, quando però la situazione economica era oggettivamente più incerta.

L’economia ‘tira’, ma non scalda
Il 44% degli intervistati dice, invece, di non avere fiducia nella leadership del presidente in economia. Un dato che preoccupa la Casa Bianca, già colpita anche da fuoco amico sul fronte della politica estera, per le incertezze e le mezze misure nella guerra al terrorismo, ma anche il partito democratico.

Il presidente ha fatto un tour elettorale per rivendicare i successi dell’Amministrazione in campo economico, dopo che lui prese il potere nel pieno della crisi.

Ma pare che gli statunitensi non gli riconoscano meriti e non riescano ancora a percepire i buoni risultati raggiunti, anche perché la crescita dei redditi delle famiglie non rispecchia ancora la ripresa.

Pure quando sono buoni, i sondaggi non sono necessariamente forieri di buone notizie per Obama e per i democratici: per la Gallup, il presidente, in crisi di popolarità nell’elettorato tradizionale, piace ai musulmani d’America - più dei 2/3 l’appoggiano - ed ha seguito pure tra gli ebrei. Ciò però, può alimentare più diffidenze che simpatie.

Effetto Obama, record candidati di colore
Destra o sinistra, una cosa che accomuna democratici e repubblicani, in questa vigilia, è il record dei candidati di colore: oltre cento, che gli esperti definiscono l’“effetto Obama”. Oltre 80 neri, democratici o repubblicani, corrono per la Camera; e almeno 25 per un posto da senatore o da governatore o da vice.

Il record precedente risaliva al 2012, in coincidenza con la rielezione di Obama: 72 candidati di colore alla Camera. Quando, nel 2002, se ne presentarono 17 fu un primato.

Cosa succederà dopo le elezioni, nella politica Usa? L’Ebola li mette d’accordo tutti (più o meno).

Sul resto, che vincano i democratici o i repubblicani i prossimi due anni avranno segni diversi, nel segno della corsa a Usa2016 per tenersi, o riprendersi, la Casa Bianca: la guerra al terrorismo e le relazioni con l’Europa, la Russia, la Cina; i negoziati per la zona di libero scambio transatlantica; la gestione dell’economia e, soprattutto, delle finanze pubbliche; la riforma dell’immigrazione e l’estensione dei diritti civili - sono appena saliti a 32 gli Stati che riconoscono i matrimoni fra persone dello stesso sesso.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (Twitter: @ggramaglia).
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lunedì 27 ottobre 2014

Brasile: sull'onda delle elezioni

America latina
Brasile alla ricerca di un presidente innovatore
Carlo Cauti
15/10/2014
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I finalisti brindano, ma non è il caso di celebrazioni premature. Non solo perché il nome del vincitore si conoscerà solo dopo il ballottaggio di domenica, ma anche perché le sfide che attendono il nuovo presidente brasiliano sono estremamente complesse.

Silva appoggia Neves
I risultati del primo turno hanno mostrato che le opposizioni, insieme, rappresentano l'ampia maggioranza del paese. Marina Silva, del Partito socialista brasiliano (Psb) ha deciso di appoggiare Aécio Neves, del Partito della social democrazia brasiliana (Psdb), andando contro la volontà di parte del suo partito.

Alla vigilia del ballottaggio, i sondaggi mostrano che il trasferimento di voti è riuscito solo in parte, provocando un pareggio tecnico di Aécio con il presidente in carica, Dilma Rousseff, del Partito dei lavoratori (Pt).

I numeri disegnano uno scenario molto netto: il Brasile è diviso tra chi vuole il cambiamento senza cambiare governo e chi vuole il cambiamento, cambiando il governo. Vincerà chi uscirà a convincere l'elettorato che le cose muteranno per davvero. Possibilmente alla brasiliana, ossia in forma indolore.

Volo della gallina per l’economia brasiliana
La realtà, tuttavia, è molto più amara. Il modello economico di successo del Brasile, lanciato da Fernando Henrique Cardoso e ampliato da Lula, è agli sgoccioli. La ricetta era semplice: stabilità della valuta, prevedibilità della politica economica, vendita di soia, ferro e commodities alla Cina a prezzi stratosferici, e, con il ricavato, realizzazione di politiche redistributive e sociali, come il "Bolsa Familia", l'elargizione di finanziamenti agevolati per il consumo privato e ai principali settori industriali.

L'apparentemente insaziabile appetito della Cina per le materie prime ha finanziato, attraverso le banche pubbliche brasiliane, la crescita di un dinamico mercato interno che ha attratto i capitali esteri necessari per alimentare il sistema.

Il mercato ultra-protetto brasiliano - con dazi che arrivano al 100% sul valore dei prodotti importati - ha fatto il resto, arginando la concorrenza internazionale e favorendo i produttori locali. La crescita è stata forte, senza doversi preoccupare della modernizzazione e della competitività dell'apparato produttivo e del paese.

Ma la crisi finanziaria globale, con il crollo dei prezzi di ferro e soia ha, di fatto, concluso questa bonanza. L’economia del Brasile sembra compiere l'eterno “voo da galinha”, il volo della gallina, e non il balzo della tigre. Quattro vigorosi colpi d’ala e poi di nuovo a terra.

Con Rousseff il Brasile non cresce più
Rousseff ha ereditato un Brasile in declino. Invece di cambiare rotta ha insistito con le stesse scelte economiche. Stavolta senza averne i mezzi finanziari. Risultato: inflazione alta, crescita asfittica - il cosiddetto "pibinho" - deindustrializzazione, conti pubblici in forte deficit, debito in aumento, bilancia commerciale in rosso e primi effetti negativi per l'occupazione.

Non ci sono più soluzioni indolori. Si dovrà investire nel miglioramento delle infrastrutture, nell'istruzione, nella sanità e nei trasporti, e anche nell'efficienza della pubblica amministrazione.

Con il paese fortemente indebitato, riforme strutturali del genere sono possibili solo dando più potere al settore privato e alla società civile, promuovendo una mentalità di competitività e di apertura alla concorrenza internazionale. Una terapia di shock economico che si traduce nella fine dei settori protetti, delle rendite di posizione e che si trasformerà inevitabilmente in una battaglia all'ultimo sangue per la sopravvivenza di poteri veramente forti, economici e politici.

Il Pt non ha vocazione al sacrificio. La visione per i prossimi quattro anni è sempre la stessa, miope e ideologica: rafforzare il capitalismo di stato, con aziende e banche pubbliche controllate da governo e partito. I finanziamenti, dicono, verranno con soldi del petrolio estratto in futuro dai giacimenti del Pré-Sal. Il problema è che l'oro nero arriva troppo tardi in Brasile e potrebbe non portare ai risultati sperati.

Aécio e il Psdb hanno, teoricamente, uomini preparati, idee giuste e una base politica sufficientemente forte per cercare di risolvere questo dilemma. Dovranno però fare i conti con il clientelismo fisiologico del sistema politico e la mentalità rapace delle élites economiche tradizionali del Brasile.

Per cercare di salvare il paese dal disastro, un eventuale governo Aécio dovrà fare leva sulle aspirazioni della "nuova classe media" brasiliana che non si accontenta più di ricette assistenziali o manovre populiste. Chi ha occupato le piazze nel giugno-luglio 2013 ha le idee molto chiare: vuole partecipazione, potere e un governo che dia risposte effettive ai problemi quotidiani della popolazione.

Partidos dos caciques
La buona gestione economica dovrà essere accompagnata da una vera riforma politica e da un cambiamento radicale nelle pratiche politiche. Per i manifestanti, non è solo il sistema politico brasiliano che deve cambiare, ma anche il modo di fare politica.

È la fine dei “partidos dos caciques”, i partiti politici senza la minima amalgama ideologica, comandati da ras locali che puntellano la loro base sulla distribuzione personalistica di fondi pubblici. L’interesse di questa classe politica nel cambiare realmente il paese è, ovviamente, nullo. Ed è ciò che fa infuriare la nuova borghesia urbana brasiliana.

Anche se dovesse vincere le elezioni, non è detto che il Psdb - che non è riuscito a rinnovare i suoi quadri dirigenti per oltre vent'anni - sarà in grado e dimostri la volontà politica di realizzare questo cambiamento radicale. Vincerà questo ballottaggio chi riuscirà a catturare e a rappresentare il cambiamento, la vera sfida del Brasile del futuro.

Carlo Cauti è giornalista del settimanale brasiliano “Veja”.
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Brasile: una scelta per il futuro

America latina
Brasile alla ricerca di un presidente innovatore
Carlo Cauti
15/10/2014
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I finalisti brindano, ma non è il caso di celebrazioni premature. Non solo perché il nome del vincitore si conoscerà solo dopo il ballottaggio di domenica, ma anche perché le sfide che attendono il nuovo presidente brasiliano sono estremamente complesse.

Silva appoggia Neves
I risultati del primo turno hanno mostrato che le opposizioni, insieme, rappresentano l'ampia maggioranza del paese. Marina Silva, del Partito socialista brasiliano (Psb) ha deciso di appoggiare Aécio Neves, del Partito della social democrazia brasiliana (Psdb), andando contro la volontà di parte del suo partito.

Alla vigilia del ballottaggio, i sondaggi mostrano che il trasferimento di voti è riuscito solo in parte, provocando un pareggio tecnico di Aécio con il presidente in carica, Dilma Rousseff, del Partito dei lavoratori (Pt).

I numeri disegnano uno scenario molto netto: il Brasile è diviso tra chi vuole il cambiamento senza cambiare governo e chi vuole il cambiamento, cambiando il governo. Vincerà chi uscirà a convincere l'elettorato che le cose muteranno per davvero. Possibilmente alla brasiliana, ossia in forma indolore.

Volo della gallina per l’economia brasiliana
La realtà, tuttavia, è molto più amara. Il modello economico di successo del Brasile, lanciato da Fernando Henrique Cardoso e ampliato da Lula, è agli sgoccioli. La ricetta era semplice: stabilità della valuta, prevedibilità della politica economica, vendita di soia, ferro e commodities alla Cina a prezzi stratosferici, e, con il ricavato, realizzazione di politiche redistributive e sociali, come il "Bolsa Familia", l'elargizione di finanziamenti agevolati per il consumo privato e ai principali settori industriali.

L'apparentemente insaziabile appetito della Cina per le materie prime ha finanziato, attraverso le banche pubbliche brasiliane, la crescita di un dinamico mercato interno che ha attratto i capitali esteri necessari per alimentare il sistema.

Il mercato ultra-protetto brasiliano - con dazi che arrivano al 100% sul valore dei prodotti importati - ha fatto il resto, arginando la concorrenza internazionale e favorendo i produttori locali. La crescita è stata forte, senza doversi preoccupare della modernizzazione e della competitività dell'apparato produttivo e del paese.

Ma la crisi finanziaria globale, con il crollo dei prezzi di ferro e soia ha, di fatto, concluso questa bonanza. L’economia del Brasile sembra compiere l'eterno “voo da galinha”, il volo della gallina, e non il balzo della tigre. Quattro vigorosi colpi d’ala e poi di nuovo a terra.

Con Rousseff il Brasile non cresce più
Rousseff ha ereditato un Brasile in declino. Invece di cambiare rotta ha insistito con le stesse scelte economiche. Stavolta senza averne i mezzi finanziari. Risultato: inflazione alta, crescita asfittica - il cosiddetto "pibinho" - deindustrializzazione, conti pubblici in forte deficit, debito in aumento, bilancia commerciale in rosso e primi effetti negativi per l'occupazione.

Non ci sono più soluzioni indolori. Si dovrà investire nel miglioramento delle infrastrutture, nell'istruzione, nella sanità e nei trasporti, e anche nell'efficienza della pubblica amministrazione.

Con il paese fortemente indebitato, riforme strutturali del genere sono possibili solo dando più potere al settore privato e alla società civile, promuovendo una mentalità di competitività e di apertura alla concorrenza internazionale. Una terapia di shock economico che si traduce nella fine dei settori protetti, delle rendite di posizione e che si trasformerà inevitabilmente in una battaglia all'ultimo sangue per la sopravvivenza di poteri veramente forti, economici e politici.

Il Pt non ha vocazione al sacrificio. La visione per i prossimi quattro anni è sempre la stessa, miope e ideologica: rafforzare il capitalismo di stato, con aziende e banche pubbliche controllate da governo e partito. I finanziamenti, dicono, verranno con soldi del petrolio estratto in futuro dai giacimenti del Pré-Sal. Il problema è che l'oro nero arriva troppo tardi in Brasile e potrebbe non portare ai risultati sperati.

Aécio e il Psdb hanno, teoricamente, uomini preparati, idee giuste e una base politica sufficientemente forte per cercare di risolvere questo dilemma. Dovranno però fare i conti con il clientelismo fisiologico del sistema politico e la mentalità rapace delle élites economiche tradizionali del Brasile.

Per cercare di salvare il paese dal disastro, un eventuale governo Aécio dovrà fare leva sulle aspirazioni della "nuova classe media" brasiliana che non si accontenta più di ricette assistenziali o manovre populiste. Chi ha occupato le piazze nel giugno-luglio 2013 ha le idee molto chiare: vuole partecipazione, potere e un governo che dia risposte effettive ai problemi quotidiani della popolazione.

Partidos dos caciques
La buona gestione economica dovrà essere accompagnata da una vera riforma politica e da un cambiamento radicale nelle pratiche politiche. Per i manifestanti, non è solo il sistema politico brasiliano che deve cambiare, ma anche il modo di fare politica.

È la fine dei “partidos dos caciques”, i partiti politici senza la minima amalgama ideologica, comandati da ras locali che puntellano la loro base sulla distribuzione personalistica di fondi pubblici. L’interesse di questa classe politica nel cambiare realmente il paese è, ovviamente, nullo. Ed è ciò che fa infuriare la nuova borghesia urbana brasiliana.

Anche se dovesse vincere le elezioni, non è detto che il Psdb - che non è riuscito a rinnovare i suoi quadri dirigenti per oltre vent'anni - sarà in grado e dimostri la volontà politica di realizzare questo cambiamento radicale. Vincerà questo ballottaggio chi riuscirà a catturare e a rappresentare il cambiamento, la vera sfida del Brasile del futuro.

Carlo Cauti è giornalista del settimanale brasiliano “Veja”.
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martedì 21 ottobre 2014

Brasile: sempre più lontano dal vecchio continente

Elezioni in Brasile
Europa assente dai programmi di Brasilia
Carlo Cauti
02/10/2014
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La politica estera è un argomento tradizionalmente latitante nelle campagne elettorali brasiliane. Dal ritorno alla democrazia ad oggi non si è mai creato un vero e proprio dibattito sulle scelte di politica estera di Brasilia.

Le ragioni sono diverse: la dimensione continentale del Brasile - che tende a guardare più al suo interno che all’estero; il disinteresse dell’elettorato brasiliano - che non percepisce la politica internazionale come direttamente rilevante per la propria vita quotidiana e l’assenza di minacce dirette o di legami politici stretti, come alleanze o blocchi economici regionali (il Mercosur è una struttura estremamente più blanda rispetto all’Unione europea, Ue).

Ciò nonostante, nei programmi depositati dai tre principali candidati alla Presidenza che correranno domenica - l’attuale presidente Dilma Rousseff del Partido dos Trabalhadores (Pt), Marina Silva del Partido Socialista Brasileiro (Psb), e Aécio Neves del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb), sono indicate linee e proposte di politica estera.

Nonostante le differenze, si nota una certa coincidenza sulle questioni più importanti: Mercosur e l’integrazione regionale, i Brics e i rapporti con Usa e Cina.

Mercosur e integrazione regionale
L’integrazione regionale è sempre stata una priorità della politica estera di Rousseff e del Pt che ha puntato sulla cooperazione “sud-sud” e su “un ordine mondiale multipolare e meno asimmetrico”. Dilma punta a fare del Mercosur un’area di libero scambio che permetta “una maggiore integrazione tra popoli, con la creazione di una cittadinanza comune”.

Per Silva invece, “il Mercosur non ha realizzato correttamente il disegno originale per cui era stato creato, ossia costruire una modalità di regionalismo aperto. A parte un paio di accordi di libero scambio con mercati inespressivi è stato contrassegnato dall’immobilismo”.

Per la candidata dell’ultima ora del Psb - è infatti scesa in campo solo dopo la morte di Eduardo Campos - sarebbe necessario contrastare con decisione la stagnazione del Mercosur, puntando su negoziati con altri paesi e blocchi, in particolare con l’Alleanza del Pacifico e con l’Ue.

Sulla stessa linea Aécio Neves, per il quale “il Mercosul è in piena crisi di identità”, il processo di integrazione sudamericano andrebbe urgentemente riformato e “il Brasile dovrebbe “partecipare attivamente alla comunità internazionale negoziando con tutti i continenti”.

Brics
Roussef punta sulla continuità e l’approfondimento dei rapporti tra i Brics come polo di stabilizzazione dell’ordine mondiale soprattutto dopo la creazione, ad agosto, della nuova Banca di sviluppo.

Per Silva, esistono differenze nei programmi economici, politici, culturali e ambientali tra i paesi Brics, così come nella questione dei diritti umani e libertà civili. Neves sottolinea la mancanza un profilo univoco del blocco, elemento che potrebbe limare le divergenze e influenzare la capacità di coordinamento del gruppo.

Usa e spionaggio della Nsa
Tutti i principali candidati considerano gli Stati Uniti come il “partner indispensabile” del Brasile. In tutti i programmi elettorali alla voce “Rapporti con gli Usa” spiccano le parole “dialogo”, “collaborazione” e “cooperazione”. L’episodio dello spionaggio americano nei confronti di Roussef e di altri esponenti del governo ha provocato forti tensioni tra i due paesi, ma dopo un primo momento di gelo i rapporti sono tornati alla normalità.

Cina
Tutti i candidati, tuttavia, sono perfettamente coscienti dell’importanza fondamentale che il mercato cinese ha per l’economia del Brasile, essendo il primo partner commerciale e il principale compratore di commodities. Tuttavia, esistono differenze sul futuro dei rapporti sino-brasiliani.

Rousseff punta sulla continuità e l’approfondimento dei rapporti esistenti. Mentre per Silva e Neves molti aspetti andrebbero rivisti. Primo tra tutti la diversificazione nel paniere di prodotti scambiati tra i due paesi, che vede il Brasile esportatore principalmente di beni a basso valore aggiunto e importatore di manufatti cinesi.

Per Silva è inoltre necessario discutere sui tassi di cambio della valuta cinese, la quale è mantenuta artificialmente bassa, penalizzando l’economia brasiliana.

Unione europea
Nessuno dei candidati ha considerato i rapporti con l’Ue come una priorità del futuro governo. Le relazioni tra il Brasile e l’Europa sono ancora del tutto basate su rapporti bilaterali tra i vari paesi, mentre l’Ue è vista da Brasilia come una entità ininfluente, quasi astratta.

Nessun candidato, altresì, cita apertamente l’ambizione del Brasile ad un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Un obiettivo che rimane tra le stelle polari della strategia diplomatica brasiliana, ma di cui si parla solo nei corridoi della diplomazia. A dimostrazione che la politica estera in Brasile continuano a farla i diplomatici, non i politici. 
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mercoledì 15 ottobre 2014

USA: una politica estera in difficoltà.

Negoziato sul nucleare iraniano
Crisi con Russia e Isis complicano l'intesa Usa-Iran
Riccardo Alcaro
22/09/2014
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Gli ultimi mesi sono stati avari di buone notizie dal fronte internazionale. La crisi in Ucraina e il Medio Oriente sconvolto dall’ascesa dell’autoproclamatosi Stato islamico (Isis) sono sufficienti per assegnare al 2014 la palma dell’annus horribilis del nuovo secolo.

Eppure al peggio non c’è mai fine: il fallimento del negoziato sul programma nucleare iraniano potrebbe avere implicazioni ancora più gravi.

Le trattative tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 – i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania e l’Unione europea (Ue) – appena riprese andranno avanti fino al 24 novembre per trovare un accordo che garantisca che il programma nucleare iraniano abbia una destinazione esclusivamente pacifica. Entrambe le parti hanno manifestato un genuino, forte interesse ad arrivare a un’intesa, ma la volontà da sola potrebbe non bastare.

Limiti all’arricchimento dell’uranio, sanzioni, Aiea
Le questioni più importanti sul tavolo negoziale sono: l’imposizione di limiti all’arricchimento dell’uranio, un procedimento estremamente sensibile perché necessario sia a produrre energia elettrica sia a fabbricare il materiale fissile per una bomba atomica; la revoca delle sanzioni; e l’ampliamento dei poteri ispettivi dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che verifica che non ci sia una diversione del programma a usi militari.

Il punto su cui c’è meno distanza è l’ultimo. L’Iran è disposto ad accettare che l’Aiea eserciti una stretta vigilanza sulle sue attività nucleari. In cambio si aspetta la revoca delle sanzioni e di poter continuare a sviluppare il programma, in particolare l’arricchimento dell’uranio.

Per i 5+1, questa posizione è irricevibile. Per quanto importanti, le ispezioni dell’Aiea da sole non costituiscono una garanzia sufficiente. L’elemento decisivo è che l’Iran riduca l’arricchimento dell’uranio a un livello ben inferiore a quello attuale. Le sanzioni verrebbero revocate gradualmente nel corso di anni, e soltanto in seguito alla certificazione da parte dell’Aiea che l’Iran sia adempiente ai termini dell’accordo.

A Teheran verrebbe concesso di riprendere l’arricchimento su scala industriale solo al termine di questo lungo processo – che potrebbe durare fino a vent’anni.

Perché si arrivi a un accordo, è quindi fondamentale che gli iraniani accettino una capacità di arricchimento vicina a quella indicata dai 5+1, ma anche che questi ultimi ammorbidiscano le loro richieste, consentendo tra l’altro all’Iran di continuare a investire in ricerca e sviluppo nel campo dell’arricchimento stesso.

La difficile stretta di mano tra Usa e Iran
Per quanto difficile sia il negoziato, non ci sono ostacoli ‘tecnici’ a un accordo. Esistono invece considerazioni e problemi di natura strategica e politica legati alla rivalità tra la Repubblica islamica e gli Usa e i loro alleati regionali (in primo luogo Arabia Saudita e Israele).

Mentre la logica della geopolitica spinge Usa e Iran verso un accordo, quella della politica li condanna a restare nemici irriducibili. Al di là dell’ovvio vantaggio di eliminare un forte elemento di tensione regionale, una risoluzione condivisa della disputa sul nucleare potrebbe aprire la strada a un riposizionamento delle relazioni Usa-Iran su basi pragmatiche.

In questo quadro non sarebbe inconcepibile pensare a limitate forme di cooperazione su questioni d’interesse condiviso come il futuro dell’Afganistan, l’Iraq, la Siria e la lotta all’estremismo sunnita di matrice qaedista.

Contro il buon senso strategico tuttavia agiscono potenti forze politiche: da una parte, il timore della leadership iraniana che un avvicinamento agli Usa possa compromettere la legittimità del regime, dal momento che l’antagonismo contro gli Usa è uno dei miti fondanti della Repubblica islamica; dall’altra parte, il fatto che l’ostracismo anti-iraniano, alimentato da Israele e Arabia Saudita (che godono entrambi di largo credito nell’establishment di politica estera di Washington) è parte integrante della politica mediorientale degli Usa.

Dinamiche geopolitiche contro il compromesso
Consapevole di queste difficoltà, a febbraio il presidente Usa Barack Obama aveva dato al negoziato una chance di successo non superiore al 50%. Questa stima ora sembra ottimista, perché oggi anche le dinamiche geopolitiche lavorano contro un compromesso. La competizione geopolitica regionale tra gli alleati degli Usa e l’Iran, e quella globale tra Russia e Occidente, ne ha ridotto lo spazio politico di manovra.

La prima ha prodotto un tale estraniamento tra Usa e Russia che la possibilità che Mosca si svincoli dai 5+1 e concluda accordi separati con l’Iran non può essere esclusa. Riducendo gli eventuali costi di fallimento, ciò costituisce un disincentivo per l’Iran a fare concessioni. La seconda ha spinto Obama a definire una strategia di contrasto che dipende dalla cooperazione degli alleati regionali dell’area, rendendo più difficile giustificare agli alleati un accordo con l’Iran (non a caso escluso dalla coalizione anti-Isis).

Il fallimento del negoziato potrebbe mettere in moto una disastrosa reazione a catena. Gli Usa spingerebbero per inasprire il regime internazionale di sanzioni; gli oltranzisti iraniani farebbero pressione perché l’Iran riavvii l’arricchimento dell’uranio in grande scala (a che pro non farlo, visto che sarebbe sotto sanzioni in ogni caso?).

A quel punto Israele, che considera un Iran nucleare una minaccia esistenziale, potrebbe decidersi a bombardare le infrastrutture nucleari iraniane – da solo o insieme agli Usa; in reazione, l’Iran potrebbe minare lo Stretto di Hormuz (dove passa buona parte del trasporto marino di petrolio mondiale), sostenere azioni contro Israele da parte del suo alleato libanese Hezbollah, o attaccarlo direttamente.

La peggiore notizia del 2014 potrebbe quindi essere la prossima.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello IAI e Visiting Fellow presso il CUSE della Brookings.
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Falckland: dove c'è discordia.....

Marco Flavio Scarpetta Americhe 0 commentI
Falkland: “Dove c’è discordia, che si possa portare armonia”
Fonte Isag
C’è chi ha commentato sarcasticamente l’unica soluzione possibile: “diamo le Falkland agli Inglesi e le Malvine agli Argentini”. Questo arcipelago ha infatti due nomi: Isole Falkland o Isole Malvine. Il primo nome è quello attribuito dagli Inglesi che comunemente le chiamano Falklands. Il secondo è quello usato dagli Argentini che le chiamano Malvinas. In realtà questo nome gli fu attribuito dai primi abitanti delle isole, i Francesi, che le diedero il nome di Malouines, da cui il termine moderno. Da allora le isole hanno cambiato più volte nazionalità. Nel 1766 divennero isole spagnole. Nel 1810, isole argentine. Nel 1833, inglesi.
Queste isole costituiscono uno tra i più inospitali arcipelaghi, posto nell’Atlantico meridionale, formato dall’isola di Falkland Occidentale (o Gran Malvina), dall’isola di Falkland Orientale (o Soledad), separate da uno stretto, e da centinaia di altre isole minori. Il territorio è collinare e non supera i 700 metri. Le fasce costiere sono articolate, pianeggianti e spesso paludose, un luogo difficile dove combattere, anche a causa del clima, misto tra quello atlantico e quello subartico e durante l’estate non si superano gli undici gradi. Può nevicare per gran parte dell’anno e il vento è forte, il sole è scarso e non crescono perciò alberi. Le isole sono talmente vicine all’Antartide da essere considerate talvolta parte di quel continente più che dell’americano.
Le isole godono però di una importante posizione strategica tra l’Atlantico e il Pacifico, sia dal punto di vista militare sia da quello commerciale, posizione strategica ben nota a tutti i governi sudamericani ed europei.
La capitale delle Falkland è Port Stanley, o Puerto Argentino. Nelle Falkland abitano poche persone, circa 3.000 abitanti, in massima parte di origine britannica, in particolar modo di origine scozzese. Le risorse delle isole sono la pesca e l’allevamento. L’esigua popolazione è benedetta da uno tra i redditi pro-capite più alti del pianeta, 50.000 dollari, dovuti agli introiti delle attività legate alla pesca e solo gli introiti delle licenze di pesca, ad esempio, fanno guadagnare fino a 200 milioni di dollari all’anno. I guadagni di questo settore hanno già attirato l’attenzione di diversi governi.
Immagine2
Figura 1: mappa delle Isole Falkland/Malvinas
Guerra sporca
Per capire cosa abbiano significato le Falkland a livello mondiale, bisogna prendere in analisi per iniziare il periodo che va dal 1976 al 1982.
Con l’espressione “Guerra Sporca” si è soliti indicare quanto accadde in Argentina dopo la morte di Juan Domingo Perón e precisamente il comportamento avuto dal nuovo governo verso gli oppositori che furono combattuti, come indica l’espressione, in un modo celato e ripugnante. Dopo la morte di Perón, infatti, i guerriglieri dei Montoneros e l’Ejército Revolucionario del Pueblo da un lato, gli squadroni di estrema destra dell’Alianza Anticomunista Argentina dall’altro, portarono il paese in uno stato di assedio. Già da questi anni, se non prima, l’esercito argentino dovette improntarsi a combattere contro la guerriglia, particolare che rivestirà molta importanza durante la guerra delle Falkland.
In questo stato di emergenza, il Ministero degli Interni fu affidato ad uomini provenienti dalla sfera militare. Venne istituito il Consiglio per la Difesa Nazionale, composto dal Ministro della Difesa e da altri tre alti ufficiali dell’esercito. Il generale Jorge Rafael Videla assunse prima la nomina di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e poi la presidenza del paese, con il colpo di stato del 24 marzo 1976 che destituì il governo democraticamente eletto di María Estela Martínez de Perón, la seconda moglie di Perón e sua succeditrice al governo. La costituzione fu sospesa e la Corte Suprema e la Procura Generale furono abolite e sostituite da una giunta militare formatasi contestualmente. Il generale Videla assunse la presidenza a vita dell’Argentina il 29 marzo dello stesso anno. Furono sospese le libertà civili e sindacali.
Tutto ciò ebbe un forte impatto nell’opinione pubblica nazionale e sarà forse l’elemento che maggiormente porterà alla guerra delle Falkland. Qualsiasi oppositore del governo, o presunto tale, qualsiasi persona sospettata di appartenere ad organizzazioni studentesche, sindacali o politiche, qualsiasi simpatizzante dell’opposizione ed anche qualsiasi persona ancora “indifferente o ancora indecisa” verso il regime furono massacrati. La Guerra Sporca combattuta contro di loro fu attuata arrestandoli, senza nessuna sentenza e senza nessun processo, nel cuore della notte. I soggetti furono poi privati di qualsiasi diritto e torturati selvaggiamente, loro e le loro famiglie, e poi segretamente uccisi. I cadaveri furono fatti scomparire e di loro il giorno dopo non restava già più traccia. Furono chiamati “desaparecidos” a causa della loro scomparsa improvvisa, unico effetto che la Guerra Sporca non poteva nascondere del tutto. In totale i desaparecidosfurono decine e decine di migliaia.
Sarà proprio la Guerra Sporca a portare alla Guerra delle Falkland, almeno secondo la maggioranza delle interpretazioni. Infatti, si stava alimentando sempre maggiormente in Argentina un acceso odio verso il nuovo governo e chi avesse preso il potere avrebbe dovuto trovare una soluzione per aumentarne la popolarità, ad esempio puntando sul nazionalismo. Effettivamente, dopo i primi successi riportati nelle Falkland, persino i Montoneros o alcuni parenti dei desaparecidos iniziarono a simpatizzare verso il governo argentino.
Il 29 marzo 1981 Jorge Rafael Videla fu deposto da un colpo di Stato, capeggiato dal generale Roberto Eduardo Viola, seguito poi da un ennesimo colpo di stato il 22 dicembre 1981 per opera del generale Leopoldo Galtieri. Sarà sotto il suo governo e in questo contesto che la guerra delle Falkland prenderà luogo. La crisi economica aveva intanto portato l’Argentina in una situazione molto pericolosa ed instabile. Il prodotto interno lordo era crollato tra il 1981 e il 1982 dell’11,45%.
Per quanto, inoltre, il governo avesse selvaggiamente distrutto ogni forma di opposizione, il malcontento nei suoi confronti era tangibile. La guerra delle Falkland, spacciata come un modo per liberare un territorio da una vecchia potenza imperialista, in realtà fu solo un tentativo goffo del governo argentino per distrarre l’attenzione negativa (nazionale ed internazionale) che lo stava investendo. Il generale Galtieri cercava un diversivo di natura militare senza rendersi conto che il suo esercito non aveva più combattuto guerre da quella contro gli Indios, più di cento anni prima.
Alle ore 23 del 1º aprile 1982, 84 membri di un commando della Armada Argentina guidati dal capitano di corvetta Guillermo Sánchez-Sabarots sbarcarono a Mullet Creek. Meno di dodici ore dopo, credendosi accerchiato, il Governatore Rex Masterman Hunt si arrese. Il governo argentino aveva previsto l’arrivo di mezzi anfibi AMTRAC per occupare l’isola e farsi accogliere come liberatori dalla popolazione locale. In realtà, la popolazione non fu particolarmente entusiasta di questo arrivo. Quando il governo argentino impose usi e costumi argentini alla popolazione, quest’ultima non prese mai seriamente in considerazione questa decisione. Ad esempio, nonostante l’imposizione di guidare come in Argentina, gli abitanti delle Falkland continuarono a guidare sulla sinistra, dimostrando forse già la volontà di rimanere britannici. Il governo inglese propose allora che gli abitanti delle Falkland avessero il diritto di autodeterminazione e scegliessero se restare nel Regno Unito o diventare Argentini. Il governo argentino però non accolse questa idea. Le trattative diplomatiche fallirono e si arrivò allo scontro militare.
Lo scontro ebbe come protagoniste le portaerei HMS Hermes e HMS Invincible comandate dall’ammiraglio John Woodward1, a capo di una flotta non pronta, improvvisata e quasi in decadenza. Le operazioni furono portate avanti dall’Ammiraglio Sir John Fieldhouse, Capo di Stato Maggiore britannico. L’Inghilterra aveva passato gli ultimi decenni ad allenarsi, in piena Guerra Fredda, pronta a combattere un nuovo conflitto di proporzioni mondiale. La NATO aveva posto dei target molto alti nell’allenamento dei soldati inglesi. Avevano a disposizione i BAe Sea Harrier FRS.Mk.1. Ad operazioni iniziate, arrivarono anche diversi Harrier Gr.Mk.3. Vi era una flotta di fregate e cacciatorpediniere e di sommergibili nucleari delle classi Churchill e Swiftsure. Infine era a disposizione un esercito professionista con varie unità di élite, dai Royal Marines ai paracadutisti, agli incursori del SAS e ai Gurkha. L’aviazione inglese puntò sull’effetto a sorpresa con oltre cinquecento incursioni. Fu imposto un blocco navale ed aereo contro gli occupanti. Le batterie antiaeree argentine erano antiquate e mancavano all’aviazione argentina moderni aerei da pattugliamento marittimo. I mezzi anfibi argentini furono sostituiti dalla Decima Brigata della provincia di Buenos Aires, composta da soldati di leva, molti diciottenni, abituati a combattere contro il terrorismo e la guerriglia, non contro un esercito di professionisti. L’esercito argentino era composto da più personale e bene equipaggiato ma restava di fondo non preparato. Le operazioni belliche durarono dal 19 aprile a metà giugno. Dopo 74 giorni di guerra, le ostilità terminavano definitivamente: 255 militari inglesi, 649 militari argentini e 3 civili falklandesi erano morti.
Leopoldo Galtieri si dimetterà dal governo di sua spontanea iniziativa dopo l’esito fallimentare della guerra e le conseguenze economiche negative su tutto il paese già dissestato. Al suo posto, prenderà il potere dal primo luglio 1982, il generale Reynaldo Bignone che si troverà costretto dall’opposizione nazionale e internazionale ad indire libere elezioni il 10 dicembre 1983 e a porre fine alla dittatura. Leopoldo Galtieri fu processato, condannato all’ergastolo ma liberato grazie ad un indulto. Nel 2000 fu nuovamente processato per rapimento di bambini.
1982: cronologia degli eventi
  • 1 Aprile: le forze argentine invadono le Falkland.
  • 5 Aprile: Oltre cento navi inglesi sono inviate nel Sud Atlantico.
  • 21 Maggio: 3.000 soldati di truppa inglesi sbarcano nelle Falkland.
  • 14 Giugno: Le forze argentine si arrendono.
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 Figura 2: particolare sugli spostamenti britannici
Da un lato, la Guerra delle Falkland è stata decisa dal governo argentino nel maldestro tentativo di sollevare la popolarità del governo stesso, puntando tutto sul nazionalismo, durante un periodo di dissesto economico e dopo anni di Guerra Sporca. Dall’altro lato, la guerra è stata accettata e per anni si sono date le più diverse interpretazioni delle ragioni per le quali l’Inghilterra si sia mossa a combattere contro l’Argentina invece di abbandonare semplicemente queste isole brulle e burrascose. La guerra, infatti, ha avuto costi elevatissimi per una nazione quale l’Inghilterra che già risentiva di forti difficoltà economiche. Alcuni hanno interpretato questa scelta come la volontà di una vecchia potenza imperialista di non perdere le proprie colonie. Altri, invece, hanno affermato che Margaret Thatcher, allora al capo del governo inglese, volesse tramite la guerra e il nazionalismo aumentare la popolarità del proprio governo.
Margaret Thatcher infatti era sempre stata rispettata ed apprezzata ma mai popolare e diversi episodi (dall’Irlanda a gli scioperi, non ultimo quello dei minatori) avevano posto il suo primo mandato in una cattiva luce. Solo recentemente si è scoperto che la realtà non è esattamente questa. Nel complesso, durante gli anni di governo di Margaret Thatcher, la speranza di vita media è aumentata sia per gli uomini sia per le donne; i divorzi diminuiti, i matrimoni aumentati; la disoccupazione era arrivata ai massimi livelli e, per una semplice legge dell’economia, l’inflazione andava calando; il prodotto interno lordo era altalenante; la manifattura in calo e la spesa pubblica globalmente sotto Margaret Thatcher diminuì drasticamente, sebbene proprio negli anni del combattimento e per questa ragione la spesa pubblica raggiunse il massimo livello, per poi calare subito dopo; i salari aumentarono (più per gli uomini che per le donne); aumentarono i prezzi delle case; nel 1982 il livello di povertà si era abbassato ma subito dopo iniziò velocemente a risalire in tutto il paese2. In generale, il prodotto interno lordo dal 1979 al 1989 aumentò del 23.3%, la spesa del governo si abbassò del 12.9, versando molto di più nel settore sanitario o della sicurezza, ad esempio, e meno nel commercio, nelle industrie e nella difesa. Prima della guerra i disoccupati erano aumentati da uno a tre milioni. Nei sondaggi Margaret Thatcher arrivava terza.
L’invasione delle Falkland prese Margaret Thatcher alla sprovvista.
“I never, never expected the Argentines to invade the Falklands head-on. It was such a stupid thing to do, as events happened, such a stupid thing even to contemplate doing… I thought that they would be so absurd and ridiculous to invade the Falklands that I did not think it would happen. I just say it was the worst I think moment of my life.”3.
Era chiaro che se si fosse combattuta una guerra e se si fosse persa, il governo inglese non sarebbe stato rieletto e la carriera politica di Margaret Thatcher e dei suoi colleghi si sarebbe così conclusa. Dover combattere una guerra, per di più per un territorio all’epoca considerato così limitato, era l’ultimo dei desideri del governo inglese. Non volendo combattere questa guerra – persino la diplomazia internazionale cercava la soluzione per vie diplomatiche – propose una semplice via di uscita: lasciare la scelta agli stessi abitanti delle isole Falkland. Se questi avessero deciso di entrare a far parte del territorio argentino a tutti gli effetti, allora il governo inglese sarebbe stato pronto a cedere le isole senza nessun combattimento e senza nessuna ritorsione.
Era ormai diventato chiaro, però, al governo argentino, che gli abitanti delle Falkland avrebbero votato con buona probabilità di rimanere nel Regno Unito. I cittadini erano di origine britannica in massima parte, come lo sono tutt’ora, e mantenevano saldi le loro usanze e i loro segni di appartenenza. Questo è un elemento che dopo più di trent’anni non è cambiato, anzi, è più forte che mai. I governi sudamericani ne devono tener conto da sempre.
Il governo argentino non poteva rischiare di perdere le Falkland e attestare davanti tutta l’opinione pubblica che i suoi abitanti preferivano essere Inglesi piuttosto che Argentini. Respinse allora ogni soluzione diplomatica. Pur non volendo ciò, al governo inglese non rimase altra scelta se non quella di difendersi militarmente, a qualunque costo.
Volveremos
Intanto, nella regione sudamericana, gli Argentini continuano a percepire le isole Falkland come di loro dominio. Per gli Argentini la questione resta aperta e dagli esiti già decisi: le Falkland dovranno tornare ad essere territorio argentino a tutti gli effetti. Nel sito del loro Ministero degli Esteri si può trovare scritto che
“la Nazione Argentina ratifica la sua legittima e imprescindibile sovranità sulle isole Malvinas [...] considerandole parte integrante del territorio nazionale. Il recupero dei territori e l’esercizio pieno della sovranità, nel rispetto del modo di vita dei suoi abitanti e dei principi del diritto internazionale, rappresentano un obiettivo permanente e irrinunciabile del popolo argentino”.
Forse la guerra delle Falkland non è stata davvero una guerra ma solo delle battaglie e, almeno per alcuni Argentini, la guerra ancora non è finita. Intanto, però, le Falkland restano suolo britannico. La questione sembra essere tutto fuorché risolta, tanto che il governo inglese, percependo l’instabilità della situazione, ha indetto un referendum per testare le volontà della popolazione delle isole Falkland. Il risultato è stato schiacciate: il 99,8% di votanti si è dimostrato favorevole a restare nel Regno Unito. L’Argentina ha fatto sapere di considerare illegale il referendum. A ragione, il referendum è stato propinato a una popolazione costituita quasi esclusivamente di Inglesi e Scozzesi, i quali difficilmente avrebbero preferito diventare sudamericani. Nella regione sudamericana, all’indomani del referendum, hanno commentato che “gli Argentini sono Italiani che parlano spagnolo e si credono Inglesi”.
Fino a pochi anni fa la situazione era rimasta immutata. Il governo inglese e una popolazione inglese erano instaurati in un territorio extra europeo. Il territorio rappresentava un importantissimo centro strategico per il mondo militare ed economico, sia per la regione sudamericana, sia per il continente antartico. Bisogna ricordare infatti che, per alcuni, le Falkland sono addirittura suolo antartico. Non solo: si è ipotizzato, secondo una teoria tutt’ora priva di ogni fondamento giuridico, che il governo che si sarebbe stabilito nelle Falkland avrebbe avuto un accesso diretto all’Antartide, altro territorio conteso.
Un fatto, però, è certo: le acque intorno alle coste spettano, secondo la legge internazionale, a chi risiede nelle Falkland. Nelle acque e nei fondali oceanici ci sono enormi risorse ed altre potrebbero essere scoperte. C’è la pesca che comporta fortissimi introiti. Ci sono risorse energetiche ancora non quantificate e di sicuro ancora molte non individuate finora. Altre risorse, invece, iniziano ad emergere e proprio queste hanno attirato negli ultimi mesi una enorme attenzione.
La situazione si è complicata, o arricchita, tre anni fa quando nell’arcipelago furono scoperti ricchi giacimenti petroliferi per opera della compagnia inglese Rockhopper Exploration che stima la sua scoperta intorno ai 50 milioni di barili di greggio. Da allora sono state eseguite diverse stime su quanto petrolio si possa ricavare da quelle zone e sebbene nessuna stima concordi con un’altra è sicuro che la quantità di petrolio presente è molto grande. Le estrazioni potrebbero iniziare già nel 2016.
Appena scoperto il petrolio, il governo britannico ha deciso di avviare una serie di esercitazioni militari e test missilistici nell’arcipelago. Il mondo militare britannico, però, non sembra essere l’unico a volersi preparare a combattere. In quasi tutto il Sudamerica, non solo in Argentina, i governi si sono spesi in acquisti di armamentari militari e intanto hanno più volte, nel giro di questi ultimissimi anni, dato il loro appoggio alla causa Argentina. Infatti, l’Argentina, nel 1982, ha combattuto una guerra fallimentare senza nessun appoggio, almeno ufficiale, e anzi in rotta contro il vicino Cile, ad esempio. Né l’Europa né il resto del Sudamerica hanno ufficialmente e concretamente aiutato il governo Argentino nella guerra delle Falkland.
Cosa succederebbe oggi se il petrolio galvanizzasse alcuni governi sudamericani contro il governo inglese? Si sospetta che l’esercito o l’aviazione britannica non sarebbero più in grado di vincere una guerra intercontinentale. L’unica certezza è che in quest’isola burrascosa è stato trovato un tesoro e sembra che da allora entrambi i contendenti, ed altri unitisi a loro, si stiano preparando a combattere.

NOTE:
Marco Flavio Scarpetta è dottore in giornalismo, editoria e scrittura (Università di Roma «Sapienza»).

1.- Le portaerei Eagle, Bulwark e Ark Royal erano state già radiate e stessa fine sarebbe spettata anche alla Invincible e alla Hermes proprio nel 1982. Anche la componente anfibia era in procinto di essere smantellata con la cessione delle navi da assalto anfibio Fearless ed Intrepid.
2.- Fonte: The Guardian [On line] http://www.guardian.co.uk. Consultato il 12.08.2014
3.- Fonte: BBC [On line] http://www.bbc.co.uk. Consultato il 12.08.2014.

martedì 23 settembre 2014

USA: andiamo incontro ad un altra sconfitta?

Medio Oriente
I rischi della strategia di Obama contro lo Stato islamico
Roberto Iannuzzi
13/09/2014
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La strategia per combattere lo Stato islamico (Is) del presidente Barack Obama si fonda su tre pilastri: la creazione di una coalizione internazionale contro l’Is, l’appoggio a un governo inclusivo in Iraq, e un’azione mirata in Siria, volta a indebolire la presenza del Califfato e a rafforzare l’opposizione “moderata” al regime di Bashar Al-Assad.

Raid Usa e coalizione internazionale
L’ingrediente militare nella strategia Usa appare ancora una volta preponderante, sebbene non si preveda l’invio di truppe occidentali sul terreno. A combattere l’Is dovrebbero essere infatti forze regionali e locali: i peshmerga del Kurdistan iracheno, l’esercito e le milizie sciite del governo di Baghdad, le tribù sunnite irachene (attualmente in gran parte schierate con l’Is), e i ribelli “moderati” in Siria.

Tali forze saranno sostenute dai raid aerei statunitensi e sostenute a livello logistico da una coalizione internazionale formata da due componenti principali: una transatlantica (paesi Nato) e una mediorientale (dominata dalle monarchie del Golfo).

Un governo inclusivo a Baghdad, la cui formazione è stata recentemente ufficializzata, dovrebbe fornire una risposta soddisfacente alle rivendicazioni curde e sunnite. Dovrebbe in particolare incoraggiare le tribù sunnite irachene a ribellarsi all’Is, come già avevano fatto con Al-Qaeda in Iraq nel 2007.

Una simile strategia comporta però rischi molto elevati, poiché non tiene conto di numerosi fattori.

Tendenze centrifughe irachene
In primo luogo, il nuovo governo iracheno non costituisce una vera rottura con il passato. Molti dei suoi membri avevano già fatto parte dei precedenti esecutivi. Inoltre, i due ministeri chiave della difesa e degli interni sono rimasti per il momento vacanti, mentre i curdi hanno minacciato fino all’ultimo di boicottare il nuovo esecutivo. Ciò non lascia ben sperare per il futuro.

Malgrado le promesse di dialogo con sunniti e curdi enunciate dal nuovo premier sciita Haider Al-Abadi, il ricorso sul terreno a milizie sciite contro l’Is rischia di esacerbare le tensioni settarie invece di appianarle. Lo Stato islamico si è già dimostrato abilissimo nello sfruttare tali tensioni a proprio vantaggio.

Analogamente, la scelta occidentale di armare le milizie curde, in presenza di contrasti irrisolti fra Erbil e il governo di Baghdad riguardo agli introiti petroliferi e alla città contesa di Kirkuk, rischia di incoraggiare le tendenze centrifughe nel paese.

Coalizione fragile e contraddittoria
In secondo luogo, la coalizione che Obama sta mettendo insieme è costituita - soprattutto nella sua componente mediorientale - da paesi spesso accomunati unicamente dall’ostilità nei confronti dell’Is.

Il fronte sunnita è lacerato dal contrasto regionale che ruota attorno ai Fratelli Musulmani. Tale contrasto vede Qatar e Turchia, sostenitori della Fratellanza, opporsi ad Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto.

Ankara, unico paese musulmano che già durante il vertice Nato si è alleata alla colazione, nutre ambizioni “neo-ottomane” sul Kurdistan iracheno, attirata soprattutto dalle risorse energetiche di quest’ultimo, ed ha tacitamente appoggiato la ribellione sunnita in Iraq, pur dichiarandosi ufficialmente ostile all’Is.

Vi è poi la questione della “convergenza di fatto” fra Washington e Teheran nella lotta contro lo Stato Islamico. Tale convergenza alimenta la diffidenza dei paesi sunniti guidati dall’Arabia Saudita.

Questa tacita intesa è ad ogni modo destinata a breve vita, se Obama terrà fede alla sua promessa di rafforzare i ribelli “moderati” in Siria, in primo luogo contro l’Is, ma anche contro il regime di Damasco alleato di Teheran.

Essendo nota l’intenzione di rovesciare Assad da parte di Riyadh, la recente notizia che questi ribelli saranno addestrati in territorio saudita inevitabilmente susciterà la dura reazione di Iran e Russia. Ciò potrebbe aggravare ulteriormente il già drammatico conflitto siriano, e riacutizzare le tensioni internazionali che vi ruotano attorno.

A ciò si aggiunga che già in passato è stata dimostrata l’esistenza di un processo di “osmosi” - che include il passaggio di uomini e armi - fra ribelli “moderati” e gruppi estremisti come l’Is in Siria.

Medio Oriente fertile per gli estremisti
In generale, la strategia americana non sembra tener conto del fatto che l’Is è solo un sintomo, e non la causa, della situazione catastrofica in cui versa il mondo arabo. Tale situazione è il risultato di decenni di politiche fallimentari nella regione.

L’autoritarismo dei regimi arabi, la corruzione, l’assenza di libertà e di giustizia sociale, ma anche le ininterrotte ingerenze straniere e i continui conflitti regionali, hanno creato un terreno fertile per l’ascesa di gruppi estremisti come l’Is.

Sono queste le cause che devono essere affrontate, attraverso trattative diplomatiche regionali e riforme politico-economiche, prima ancora che con strumenti militari. Altrimenti, non solo la guerra allo Stato Islamico è destinata a fallire, ma il Medio Oriente sprofonderà sempre più in una spirale di crisi e di conflitti.

La posta in gioco è enorme: l’integrità territoriale di paesi come Siria e Iraq, gli approvvigionamenti energetici per l’Occidente e la stabilità politica ed economica del pianeta.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di recente pubblicazione.
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