
lunedì 14 ottobre 2013
J. Jnsulza: il punto di situazione sull'America Latina
Il Segretario Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), José Miguel Insulza, il 12 settembre 2013, ha tenuto una Conferenza per illustrare la situazione generale dei paesi dell’America Latina nella sede romana dell’Istituto Italo-Latino Americano (IILA). Insulza, che ha assunto l’attuale prestigioso incarico nel maggio 2005, è un politico cileno, esponente del Partito Socialista, laureato in legge all’Università di Santiago del Cile, che, dopo il colpo di stato militare di Pinochet, si era trasferito dapprima in Italia, poi in Messico ed infine negli Stati Uniti, dove si è specializzato in economia.
La conferenza ha avuto luogo alla presenza degli Ambasciatori rappresentanti i Paesi membri dell’IILA, di alcuni parlamentari italiani, di funzionari del Ministero degli Affari Esteri, di rappresentanti del mondo diplomatico, di giornalisti e di studiosi, tutti interessati all’America Latina, che hanno partecipato anche all’interessante dibattito seguito alla Conferenza. Il Segretario Generale dell’OSA, dopo i saluti del Segretario Generale dell’IILA Giorgio Malfatti di Monte Tretto e del Presidente dell’IILA S.E. l’Ambasciatore Miguel Ruìz-Cabañas, ha preso la parola esponendo una relazione sulle principali sfide, difficoltà e problematiche che oggi pone l’America Latina.
Secondo Insulza forse è un po’ esagerato sostenere – come ha fatto l’Economist – che il XXI secolo sia il secolo dell’America Latina. E’ vero, però, che il biennio 2010-2012 ha segnato un grande sviluppo economico di quest’area, sebbene la crisi globale del 2008 l’abbia comunque toccata. La crescita registrata, d’altra parte, è abbastanza eterogenea: nel 2010, ad esempio, il Paraguay ha avuto un enorme sviluppo economico (+15%); mentre la crescita del Centro America è stata più bassa a causa del problema del narcotraffico (una media del +3%); ed il Caribe ha segnato il passo con una crescita vicina allo zero. L’export dell’America Latina è cresciuto del 4-5% all’anno. C’è stata una sostanziale riduzione della povertà, con circa 60 milioni di persone uscite da questo difficile status nel primo decennio del 2000; circostanza che ha consentito una crescita generale dei consumi grazie al notevole incremento di persone che hanno avuto accesso alla classe media. D’altra parte la classe media latinoamericana, sostiene Insulza, è molto fragile per via della sua instabilità. E’ innegabile, però, che non c’è mai stata tanta democrazia – assoluta e diffusa – in America Latina come in questa prima decade del 2000: la democrazia non si costruisce in un giorno ed il grado di democrazia raggiunto non è paragonabile anche solo a quello del decennio precedente.

L’accesso all’educazione è ormai quasi universale in tutta l’America Latina. La disuguaglianza, invece, è ancora un problema che, però, non può essere affrontato nello stesso modo della povertà: infatti, per ridimensionare la disuguaglianza è necessario che chi cresce di meno cresca ad un ritmo superiore di chi cresce di più; e questa, specialmente in un periodo di crescita relativa com’è l’attuale, è una sfida assai difficile. Un’altra sfida da affrontare è l’accesso diffuso alla salute, come dimostrano ad esempio le recenti contestazioni sul tema in Brasile. Un problema grave è quello della sicurezza: basti pensare che in ciascun paese di quest’area per ogni polizia pubblica ci sono almeno 4 polizie private. Questione spinosa è, poi, la violenza, considerato che il tasso di criminalità dell’America Latina è il più alto del mondo (ad esempio il tasso di omicidi); il 96% degli omicidi è commesso da giovani tra i 10 ed i 24 anni, sicché si parla di un problema giovanile. Riguardo alla violazione dei diritti umani c’è ancora molto da fare: senza dubbio, secondo Insulza, l’OSA è stata un volano molto importante per la difesa di essi; ma deve far riflettere che la Convenzione Americana dei Diritti Umani (approvata dall’Assemblea dell’OSA nel 1969) non sia stata ancora ratificata dagli USA e sia stata addirittura denunciata dal Venezuela. Altro problema è la droga: l’America Latina, infatti, è il continente del mondo dove si svolge il maggior numero di attività collegate alla droga (coltivazione, raccolta, produzione, transito verso altri paesi etc.); ed è l’area in cui si consuma il 45% della cocaina ed eroina consumate nelle Americhe ed il 25% di marijuana.
Insulza ha, inoltre, sottolineato:
Il rapporto dell’OSA da cui provengono i dati sopra citati, secondo Insulza, suggerisce di affrontare il problema da una prospettiva in cui la salute prevalga di fronte alla sicurezza, privilegiando prevenzione e trattamento, oltre a tracciare alcuni possibili scenari: in primis quello della depenalizzazione del consumo, che sta guadagnando consenso negli USA (Colorado e Washington), ma anche in Uruguay, Argentina e Brasile. Il concetto è stato ribadito dal Segretario Generale dell’OSA a margine della conferenza, quando il pubblico gli ha domandato se ritenesse utile alla lotta contro la droga in America Latina la recente legalizzazione della marijuana da parte dell’Uruguay. La Camera dei deputati uruguaiana, infatti, ha approvato la legalizzazione della marijuana con una norma che prevede la legalizzazione della coltivazione (fino a sei piante per persona) e compravendita della cannabis, attraverso la creazione di un organismo statale che regolamenterà ogni fase dell’attività: i consumatori, registrati in un’apposita banca dati, potranno acquistare fino a 40 grammi di marijuana al mese, attraverso una rete di farmacie autorizzate. La legge, fortemente voluta dal Presidente dell’Uruguay José Mujica, mira a regolare e controllare la produzione e la distribuzione per il consumo personale o per fini terapeutici, come avviene in altri Paesi, ed ha ottenuto il sostegno anche del segretario generale dell’OSA, che alla domanda di cui si diceva ha risposto, appunto:
José Miguel Insulza si è congedato sostenendo di non aver voluto dare ricette, ma di aver delineato uno scenario su cui discutere per poi trovarne una tutti insieme. Molti paesi latino americani hanno dimostrato in questi ultimi anni di aver saputo raccogliere questo invito. L’augurio è che la capacità di dialogare e di porsi in ascolto dimostrata da alcuni di essi sia contagiosa per tutti i paesi dell’area.
lunedì 7 ottobre 2013
Stati Uniti, ONU e Somalia
Nazioni Unite Se l’Onu torna in Somalia Andrea de Guttry 24/09/2013 |
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Dal 1950 a oggi
Le Nazioni Unite hanno avuto un ruolo importante nella storia recente della Somalia. Nel 1950 l’Onu istituì, in quella che veniva definita “Italian Somaliland”, un regime internazionale di amministrazione fiduciaria, la cui gestione venne affidata all’Italia (la British Somaliland rimase invece, un protettorato britannico) sino al 1960, anno dell’indipendenza somala e della riunificazione formale tra le due parti di territorio.
Tra il 1992 e il 1995 il Consiglio di sicurezza decise di dispiegare le missioni Unosom 1 (1992), Unitaf (a comando Usa) e Unosom 2 con il compito di fornire e di facilitare l’assistenza umanitaria necessaria per fronteggiare la terribile carestia che stava affiggendo il paese, nonché di monitorare il rispetto del cessate il fuoco promosso dalle Nazioni Unite al termine della lunga guerra civile.
Le due missioni Unosom non riuscirono a conseguire il mandato loro affidato e, anche a seguito dei ripetuti attacchi che subirono, furono chiuse in anticipo, obbligando le Nazioni Unite ad “abbandonare” la Somalia in maniera precipitosa.
In seguito, l’attività Onu in Somalia si è concentrata essenzialmente su quattro versanti: favorire una soluzione politica del conflitto somalo, anche mediante il dispiegamento della missione Amisom (l’operazione dell’Unione africana in Somalia); rafforzare la lotta alla pirateria nelle acque antistanti la Somalia (mediante l’adozione di una serie di risoluzioni assai innovative); rafforzare il sistema di sanzioni per prevenire ulteriori violazioni di diritti umani e della sicurezza internazionale (si veda, per tutte, la recente risoluzione del Consiglio di sicurezza 2111(2013) e, infine, la recente decisione di attivare la missione Unsom.
Ambizioni onusiane
La recente missione rientra tra le così dette “Political Missions” delle Nazioni Unite. Il suo mandato risulta assai ambizioso: fornire assistenza al governo federale somalo in materia di pacificazione e riconciliazione nazionale, governance, stato di diritto, riforma degli apparati di sicurezza e coordinamento degli aiuti internazionali.
Infine rientra nel mandato della missione anche il delicato compito di aiutare le autorità locali nelle indagini relative alle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, con particolare attenzione alle violazioni dei diritti dei fanciulli e delle donne.
L’architettura istituzionale della missione prevede che la stessa sia presieduta da un rappresentante speciale del Segretario generale, attualmente il diplomatico britannico Nicholas Kay. Questo sarà assistito da due vice. Uno avrà il compito di coordinare tutte le iniziative intraprese in Somalia dalle varie agenzie ed istituti Onu, l’altro si occuperà del coordinamento umanitario.
Per conseguire gli obiettivi della missione, è previsto il dispiegamento di diverse centinaia di funzionari Onu la cui sicurezza fisica, che rimane uno dei problemi irrisolti in Somalia, viene affidata ad uno speciale contingente di oltre 300 soldati di Amisom.
Si tratta di un compito assai complesso anche perché è prevista l’apertura di uffici di Unsom sia a Mogadiscio che, appena possibile, a Hargeisa (Somaliland), Garowe (Puntland), Baidoa, Beledweyne e Kismaayo.
Sfide future
Tra le prossime sfide di Unsom devono essere ricordate quelle relative all’avvio di una proficua ed intensa collaborazione con Amisom e l’Unione africana (che spera molto che Unsom possa presto sostituire la missione Amisom), la gestione della sicurezza del personale delle Nazioni Unite (problema sicuramente prioritario), l’avvio di rapporti proficui con le autorità locali nel pieno rispetto del principio della local ownership, il rafforzamento delle collaborazioni con le amministrazioni del Puntland, Somaliland con la Jubba Interim Administration (nel sud del Paese).
E inoltre il pieno coinvolgimento dell’Igad, l’istituzione regionale che raggruppa i Paesi del Corno d’Africa, e degli stati limitrofi (ed in primis dell’Etiopia che ha svolto un ruolo importante nel processo di stabilizzazione della Somalia) ma soprattutto l’avvio, con l’aiuto dei donors internazionali, di programmi di sviluppo economico del paese.
Le difficoltà in cui la missione Unsom si trova ad operare, il mandato ambizioso ad essa affidato, le attese della popolazione locale e degli attori internazionali, richiedono che le Nazioni Unite non siano lasciate sole e che tutti i partner, ed in primis l’Europa, collaborino per il successo della missione.
La recente conferenza di Bruxelles, promossa dall’Unione europea e terminata il 16 settembre scorso con l’approvazione del “Somalia New Deal Compact” costituisce un primo passo importante di questa collaborazione che lascia presagire qualche speranza per il futuro del popolo somalo.
Andrea de Guttry è professore di diritto internazionale e vicedirettore della Scuola Superiore Sant’Anna. Direttore del Centro di ricerca internazionale sullo sviluppo dei conflitti e la politica globale della Scuola Superiore Sant’Anna.
mercoledì 25 settembre 2013
America Latina; rapporti interni tra i Paesi latino-americani
Alleanza del Pacifico e Mercosur America Latina a due velocità Carlo Cauti 25/08/2013 |
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Nel maggio di quest’anno, tuttavia, lo stesso Humala è stato immortalato al fianco del presidente colombiano, Juan Manuel Santos, del messicano Enrique Peña Nieto, e del cileno, Sebastián Piñera, nella cerimonia per l’entrata in vigore dell’Alleanza del Pacifico, Ap, un’area di libero scambio dove il 90% dei prodotti commercializzati tra i Paesi membri è esente da tariffe doganali, e di cui il Perù è fondatore.
La decisone del presidente peruviano di far parte di un accordo commerciale come l’Ap è essenzialmente dovuta alla constatazione degli ottimi risultati economici ottenuti negli ultimi anni dai Paesi partner. Messico, Cile e Colombia hanno attestato le loro rispettive economie nazionali su posizioni liberiste e liberoscambiste, beneficiando in questo modo di una solida crescita del Pil, superiore alla media regionale.
Il Cile è l’esempio lampante di questo successo. Grazie a politiche economiche di stampo liberista, unite ad una serie di accordi di libero scambio firmati con 60 Paesi e organizzazioni regionali, tra cui Stati Uniti e Unione Europea, negli ultimi vent’anni l’economia cilena è cresciuta in media de 5,2%, contro un indice regionale del 2,6%.
Allo stesso tempo sono stati ridotti i livelli di criminalità e di povertà, oggi tra i più bassi dell’America del Sud. Secondo diverse proiezioni, prima del 2020 i cileni raggiungeranno un Pil pro-capite superiore a 22 mila dollari, entrando a far parte del cosiddetto “primo mondo”.
Ricetta vincente
Applicando la stessa ricetta cilena, anche Messico e Colombia hanno registrato importanti progressi economici negli ultimi anni, e questa omogeneità di politiche e di risultati ha portato, quasi naturalmente, alla creazione dell’Alleanza. Nata con precisi obiettivi economici, l’Ap si proietta commercialmente verso l’Oceano Pacifico e in particolare verso i dinamici mercati asiatici, a cominciare dalla Cina.
Il rapporto percentuale delle esportazioni sul Pil mostra l’importanza del commercio estero nell’economia dei membri: Colombia 19%, Perù 29%, Messico 32%, Cile 38%, per un totale di circa 556 miliardi di dollari. Nessuna grande economia regionale può vantare valori più elevati.
Senza contare gli accordi di libero scambio firmati con altrettanti Paesi o blocchi regionali, portati “in dote” da ogni membro dell’Ap e diventati automaticamente patrimonio comune di tutti i partner. Grazie all’entrata in vigore dell’accordo, le previsioni di crescita del Pil dei Paesi membri nel 2013 sono stimate intorno al 5%.
Diversi Paesi hanno mostrato forte interesse nei confronti del nuovo blocco regionale. Il Costa Rica è diventato da poche settimane il quinto membro pieno; Panama ha già presentato la sua candidatura e tra gli osservatori ci sono Spagna, Canada, Guatemala, Uruguay, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, Ecuador, El Salvador, Francia, Honduras, Paraguay, Portogallo e Repubblica Dominicana.

Cugini lontani
Sulla sponda atlantica del Cono Sud, al contrario, i “cugini” del Mercosur sembrano allontanarsi sempre di più da questi successi economici. A 22 anni dalla sua creazione, il Mercato Comune del Sud vanta una percentuale di prodotti esenti da dazi inferiore a quella della neonata alleanza: soltanto l’80%.
Da alcuni anni si registra una riduzione del libero scambio all’interno dello stesso Mercosur, a causa delle costanti scaramucce doganali tra i Paesi membri, in particolare tra Argentina e Brasile.
Il numero di accordi commerciali firmato dall’organizzazione con Paesi terzi è fermo a 3: Israele, Palestina e Egitto. Qualsiasi accordo commerciale deve essere necessariamente approvato unanimemente da tutti i Paesi membri, che ovviamente hanno strutture economiche molto diverse e impediscono di fatto qualsiasi intesa.
Infine, i continui interventi statali nell’economia hanno prodotto una minore crescita del Pil del blocco, fermo al 2,5%.

Identità opposte
L’Ap e il Mercosur presentano identità opposte perché già al momento della loro nascita i Paesi fondatori avevano alle spalle tradizioni economiche diametralmente opposte. Nell’Alleanza si trovano economie in cui il paradigma liberista era già un assioma consolidato. Nel Mercosur convivono Paesi protezionisti, dove lo stato non si trattiene dall’intervenire.
Il risultato è che nella classifica di libertà economica dell’Heritage Fundation, il Mercosur occupa la 133 posizione mentre l’Alleanza la 29. Per aprire un’azienda a San Paolo c’è bisogno di aspettare 119 giorni e spendere oltre 1000 euro, mentre a Santiago solo sette ed è gratis.
A queste condizioni è logico aspettarsi che le quote di mercato mondiali di questi Paesi si riassetteranno in poco tempo, così come i flussi di Investimenti Diretti Esteri e i livelli di produzione industriale.
Si sta dunque delineando una spaccatura ideologica e economica in America Latina, che porterà quasi sicuramente a un Cono Sud “a due velocità”, con una sponda pacifica economicamente in crescita ed una sponda atlantica stagnante, con conseguenze importanti nelle relazioni internazionali e negli equilibri dell’intera regione.
Brasile ago della bilancia
In Brasile l’opinione pubblica inizia a chiedersi apertamente se sia nell’interesse nazionale rimanere legati al Mercosur o se iniziare una politica commerciale indipendente, per aumentare la propria capacità di proiezione internazionale e agganciare in questo modo i grandi centri economici mondiali.
L’annuncio dell’inizio delle trattative per un accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti ha generato un forte interesse nella classe politica brasiliana, che ha ben chiara la necessità di trovare nuovi sbocchi e stimoli per un’economia che inizia a dare segni di stagnazione, se non di stagflazione.
Se in Brasile - che rappresenta da solo oltre due terzi di popolazione, Pil, e territorio di tutto il Mercosur - prevalesse l’idea di abbandonare l’organizzazione al proprio destino, probabilmente questa non avrebbe più senso di esistere.
I Paesi rimanenti sarebbero costretti a scegliere se continuare a seguire programmi politici bolivariani o aprirsi finalmente al libero mercato e all’economia mondiale.
Carlo Cauti è giornalista presso la sede Ansa di San Paolo del Brasile. Le opinioni espresse in questo documento sono personali dell'autore e non rappresentano necessariamente le opinioni dell'Ansa .
martedì 24 settembre 2013
Stati Uniti: rapporti con Al-Jazeera
Media Se Al-Jazeera sbarca nella Grande Mela Azzurra Meringolo 02/09/2013 |
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Ammiccando all’America
Secondo quello che ci dice il portavoce di Al-Jazeera America, Stan Collander, dietro questa mossa si nasconderebbe solo la fame di affari dell’emiro. Difficile credere però che l’operazione di mercato non sia l’ennesima mossa del soft-powerqatarense.
Per conquistare il suo nuovo pubblico, sono mesi che gli altri canali di Al-Jazeera ammiccano agli americani. Basta pensare a quanto accaduto a Joseph Massad che a maggio ha visto sparire dalla home page di Al-Jazeera un suo articolo nel quale commemorava la Nakba, il giorno in cui i palestinesi ricordano la loro catastrofe. Nel suo The Last Semites, Massad scardina alcuni miti e contesta alcuni fatti storici considerati acquisiti sul sionismo, ponendo in dubbio anche il fenomeno dell’antisemitismo.
Meglio edulcorare i termini, pensa Ehab al-shihabi, il direttore esecutivo di Al-Jazeera America, timoroso di possibili ricadute in termini di immagine e di marketing per l’operazione di lancio del nuovo canale.
Non è la prima volta che Al-Jazeera decide di accordare la propria voce sulle tonalità americane. Già nel 2011, il direttore Waddah Khanfar era stato costretto alle dimissioni per un cable scoperto da Wikileaks nel quale veniva accusato di aver dato versioni di comodo della guerra in Iraq nel 2005 su pressione degli Stati Uniti.
Paladina della libertà di opinione
La nuova avventura americana influenza quindi la politica editoriale di un’emittente che fu creata nel 1996 dall’ex emiro del Qatar Hamad bin Khalifah al-Thani. L’idea originaria era di farne un canale indipendente e innovativo nel contesto regionale.Una televisione in grado di riplasmare i rapporti di forza all’interno del mondo arabo che puntasse sull’obiettività e sul pluralismo, piazzando anche il piccolo emirato del Qatar - Paese con il reddito pro capite più alto del mondo pari a oltre 100 mila dollari - sulla mappa delle relazioni internazionali.
Un’emittente che proponesse una narrativa delle dinamiche regionali alternativa rispetto a quella occidentale, ma rispettosa degli standard del giornalismo professionale.
Per fare del Qatar un Paese paladino della libertà di informazione, l’emiro fa scendere in campo anche sua moglie che nel 2008 fonda un centro per la liberà dei media nella regione. Il primo a guidarlo è Robert Ménard, fondatore di Reporters senza frontiere. Ménard non è però disposto a barattare il suo silenzio in cambio di uno stipendio dorato. Ménard critica le contraddizioni del sistema informativo qatarense e inizia a puntare il dito contro la leadership locale. Nel giro di poco però è lui a uscire di scena, dopo essere stato descritto come un pornografo amico di Satana.
Il messaggio è chiaro: tralasciare indagini su questioni interne come quella relativa all’ascesa al potere, nel ’95, dell’emiro Hamed. Nell’emittente nota per la sua libertà di opinione è ancora vietato affermare che in quell’anno c’è stato un colpo di stato. Meglio indagare i mali di Iraq e Afghanistan sulla cui copertura Al-Jazeera costruisce la sua credibilità.
Parabola discendente
La rivoluzione attraverso la quale Al-Jazeera plasma il giornalismo arabo inizia a scemare nel periodo delle primavere arabe, quando l’influenza del governo del Qatar nella linea editoriale dell’emittente diventa ancora più evidente. Il crollo arriva poco dopo, con l’ascesa nel mondo arabo di nuovi governi islamisti che tanto deludono le popolazioni.
Il Qatar investe nel nuovo Egitto di Mohamemd Mursi. Tutti i canali di Al-Jazeera esaltano le gesta del presidente islamista. Gli egiziani che tanto hanno ringraziato la prima satellitare panaraba per il sostegno alla loro rivoluzione contro Hosni Murbarak, iniziano però a cambiare canale. Lo stesso fanno in Tunisia e in Bahrein dove, secondo uno studio della Northwestern University in Qatar, solo il 4% della popolazione guarda la tv dell’emiro.
E così, nei dintorni di piazza Tahrir, l’Al-Jazeera megafono degli islamisti democraticamente eletti, ma illiberali, viene censurata dai militari poche ore dopo la destituzione, il 3 luglio scorso, di Mursi.
Per compensare la perdita di audience araba, Al-Jazeera sta puntando sui telespettatori del mercato a stelle e strisce. Ma sull’agenda del nuovo emiro Tamin, Al-Jazeera è ancora un’arma per vincere la sfida sull’equilibrio regionale. Con l’uscita di scena di Mursi, il campo di battaglia si è complicato e la Siria resta il punto nevralgico.
Qualora il regime di Bashar al-Asad vincesse, il Qatar vedrebbe cambiare a suo sfavore gli equilibri nella regione con il rafforzamento dell’asse Iran-Siria-Hezbollah. Ad Al-Jazeera quindi il compito di contribuire all’affossamento del regime più ostico della regione.
Azzurra Meringolo è dottoressa in Relazioni Internazionali presso l’Università di Bologna. È autrice di "I Ragazzi di piazza Tharir" e vincitrice del premio giornalistico Ivan Bonfanti 2012. Ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), è coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
sabato 20 luglio 2013
Stati Uniti: Putin volta le spalle a Obama
Riarmo e modernizzazione Andrea Fais 15/07/2013 |
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Guerra fredda 2.0
Le richieste statunitensi di estradare Edward Snowden, accusato di aver desecretato documenti riservati, vengono respinte dalla Russia. Il ministro degli esteri russo Sergeij Lavrov evidenzia come Snowden ha scelto un suo itinerario da Hong Kong a Mosca senza tuttavia oltrepassare la soglia della zona transito aeroportuale, considerata area internazionale. “Non vi è alcun fondamento legale che giustifichi il comportamento dei funzionari americani - ha insistito Lavrov - e non siamo coinvolti in alcun modo né con il signor Snowden e i suoi rapporti con la giustizia statunitense né con i suoi spostamenti in giro per il mondo”.
Lavrov considera inoltre “assolutamente infondati e inaccettabili i tentativi di accusare la parte russa di aver violato le leggi statunitensi”. In questa situazione il discorso recentemente tenuto da Putin durante le celebrazioni per il settantesimo anniversario della battaglia di Kursk assume una valenza significativa.
Affermando che Mosca continuerà “a sviluppare il suo arsenale di deterrenza nucleare”, il presidente russo ha annichilito la proposta di disarmo bilaterale lanciata poche settimane fa da Obama davanti alla porta di Brandeburgo, a Berlino. Beneficiando inoltre del rialzo dei prezzi degli idrocarburi, il Cremlino potrà destinare al suo programma di riarmo 22 mila miliardi di rubli (730 miliardi di dollari) a partire dal 2020. Per Putin si tratterebbe di una mossa obbligata dal momento che Washington non vuole abbandonare il programma dello scudo anti-missile europeo.
Armata Russa
Putin ha poi posto la priorità dello sviluppo di armi ad alta precisione. La modernizzazione era stata annunciata nell’aprile del 2012 con una pubblicazione ministeriale intitolata L’approccio concettuale dell’attività delle Forze armate della Federazione Russa nel cyberspazio: un documento profondamente innovativo per la dottrina strategica russa, dedicato esclusivamente allo sviluppo dei sistemi di sicurezza informatica.
Sebbene in ritardo rispetto a Usa e Cina, anche la Russia ha così recepito le priorità nel nuovo contesto internazionale dove, come recita il rapporto, “alti livelli di sviluppo per diverse applicazioni, reti di computer, come Internet e mezzi di comunicazione elettronici” hanno determinato “la presenza di uno spazio informatico globale”.
Quella informatizzazione militare che negli Usa fu introdotta nel 1999 col nome di full-spectrum dominance dagli strateghi Alberts, Garstka e Stein, e che in Cina fu presentata nel 2002 come xinxihua da Jiang Zemin, in Russia è mancata per tre ragioni: la crisi economica nell’era Eltsin bloccò molti programmi militar-industriali ereditati dal decaduto apparato sovietico; diversi tra i generali più anziani sono legati alle concezioni della Guerra Fredda, ormai obsolete; i conflitti nello spazio periferico dell’ex-Urss (Cecenia, Tagikistan e Ossezia) hanno impegnato le truppe in operazioni terrestri spesso gestite maldestramente e quasi mai risolutive.
Ora, invece, “con l'attuazione di questi concetti, le Forze armate della Federazione Russa cercheranno di massimizzare le opportunità dello spazio informatico per rafforzare la difesa dello Stato, il controllo e la prevenzione dei conflitti militari, la cooperazione militare e la formazione di una sicurezza informatica internazionale a beneficio della comunità mondiale”. L’obiettivo di fondo è l’acquisizione delle capacità C2W, ormai necessarie nella lotta al terrorismo e al narcotraffico che imperversano tra Asia Centrale e Caucaso.
Sergeij Shoigu non fa sconti
Lo scandalo legato alla società Oboronservice, emerso alla fine del 2012, ha costretto Putin a sostituire l’ex ministro Serdjukov con Sergeij Shoigu. Il suo staff comprende Valerij Gerasimov, capo di stato maggiore, Arkadij Bachin e Oleg Ostapenko, viceministri.
Nei primi sei mesi Shoigu ha rafforzato i partenariati del Brics e della Sco. Tra i principali incontri si segnalano quello del 21 novembre scorso con il vicepresidente della Commissione militare centrale cinese, Xu Qiliang, e quello del 14 dicembre con l’omologo brasiliano Celso Amorim.
A gennaio Shoigu ha fatto visita al presidente kazako Nursultan Nazarbayev per concordare la realizzazione di uno spazio aereo comune entro il 2016. Molti analisti considerano abbandonata la riforma avviata da Serdjukov. Tuttavia questa aveva introdotto novità per cui le strutture difensive non erano ancora pronte, lasciando insoddisfatti sia i “modernizzatori” sia i “nostalgici”.
Riaffermando l’inflessibilità nei confronti degli Usa e l’apertura alle Tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Ict), Putin e Shoigu sembrano voler accontentare tutti e consegnare al paese un esercito al passo coi tempi ma al tempo stesso ancorato ai “valori eroici” del passato.
Andrea Fais, giornalista e saggista, è collaboratore del quotidiano cinese “Global Times” e della rivista multimediale “Equilibri”, autore de L’Aquila della Steppa. Volti e Prospettive del Kazakistan (Parma, 2012) e coautore de Il Risveglio del Drago. Politica e Strategie della Rinascita Cinese (Parma, 2011) e La Grande Muraglia. Pensiero Politico, Territorio e Strategia della Cina Popolare (Cavriago, 2012).
Fonte Istituto Affari Internazionali.
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sabato 6 luglio 2013
Sud America: FARC :progressi nei negoziati
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Esercitazioni congiunte Giappone Stato Uniti
Stati Uniti e Giappone

A partire dal 12 giugno presso la base dei Marines di Camp Pendelton in California si è svolta l’esercitazione multinazionale anfibia “Dawn Blitz 2013” che ha visto coinvolti 5000 Marines della Ia Marine Expeditionary Brigade e l’Expeditionary Strike Group 3 della Marina americana insieme ad assetti multinazionali forniti da Giappone, Canada e Nuova Zelanda. L’esercitazione ha previsto scenari di sbarchi anfibi su larga scala, condotta di operazioni aeronavali, contromisure mine e utilizzo dell’ambiente marino come spazio di manovra al fine di liberare un’ipotetica isola conquistata da forze nemiche.
Le manovre Dawn Blitz, riprese dal 2010, hanno lo scopo di riaddestrare i Marines ai loro compiti “core” dopo anni di operazioni di counterinsurgency tra Iraq e Afghanistan che poco hanno a che vedere con la preparazione alla lotta anfibia. L’edizione 2013 però, sarà ricordata per la partecipazione massiccia delle Forze d! i Autodifesa giapponesi che, per la prima volta e con l’aiuto statunitense, hanno pianificato ed eseguito, singolarmente e insieme ai Marines, operazioni di sbarco anfibio di reparti delle Forze Terrestri di Autodifesa dalle loro unità Hyuga (Destroyer portaelicotteri) e Shimokita (LST). Nel corso dello stesso evento i militari giapponesi hanno avuto la possibilità di testare i convertiplani MV-22 Ospreys da bordo delle proprie navi. Il contributo numerico giapponese all’esercitazione è stato dichiarato in 250 uomini delle Forze Terrestri di Autodifesa, accompagnati da tre navi della Forza di Autodifesa Marittima, le già citate Hyuga e Shimokita, scortate dal cacciatorpediniere lanciamissili Atago per un totale complessivo di 1000 militari. Sebbene le autorità americane abbiano dichiarato che lo scenario simulato non aveva alcun richiamo a situazioni attuali, la Cina ha ritenuto, qualche giorno prima dell’inizio delle manovre, di inoltrare una formale protesta diplo! matica al Giappone sostenendo che la situazione ipotizzata fosse troppo aderente alla disputa esistente tra i due Paesi per le Isole Senkaku/Diayou. Nel complesso, le attività come la Dawn Blitz, oltre agli indubbi benefici in termini di addestramento delle forze, servono agli USA a rinsaldare le alleanze nell’area del Pacifico. Non è un caso che, negli stessi giorni dell’esercitazione, le Filippine abbiano annunciato la loro intenzione di offrire un migliore e costante accesso ai propri porti non solo alle navi americane, ma anche a quelle giapponesi, al fine di cautelarsi da eventuali iniziative ostili da parte cinese.
Le manovre Dawn Blitz, riprese dal 2010, hanno lo scopo di riaddestrare i Marines ai loro compiti “core” dopo anni di operazioni di counterinsurgency tra Iraq e Afghanistan che poco hanno a che vedere con la preparazione alla lotta anfibia. L’edizione 2013 però, sarà ricordata per la partecipazione massiccia delle Forze d! i Autodifesa giapponesi che, per la prima volta e con l’aiuto statunitense, hanno pianificato ed eseguito, singolarmente e insieme ai Marines, operazioni di sbarco anfibio di reparti delle Forze Terrestri di Autodifesa dalle loro unità Hyuga (Destroyer portaelicotteri) e Shimokita (LST). Nel corso dello stesso evento i militari giapponesi hanno avuto la possibilità di testare i convertiplani MV-22 Ospreys da bordo delle proprie navi. Il contributo numerico giapponese all’esercitazione è stato dichiarato in 250 uomini delle Forze Terrestri di Autodifesa, accompagnati da tre navi della Forza di Autodifesa Marittima, le già citate Hyuga e Shimokita, scortate dal cacciatorpediniere lanciamissili Atago per un totale complessivo di 1000 militari. Sebbene le autorità americane abbiano dichiarato che lo scenario simulato non aveva alcun richiamo a situazioni attuali, la Cina ha ritenuto, qualche giorno prima dell’inizio delle manovre, di inoltrare una formale protesta diplo! matica al Giappone sostenendo che la situazione ipotizzata fosse troppo aderente alla disputa esistente tra i due Paesi per le Isole Senkaku/Diayou. Nel complesso, le attività come la Dawn Blitz, oltre agli indubbi benefici in termini di addestramento delle forze, servono agli USA a rinsaldare le alleanze nell’area del Pacifico. Non è un caso che, negli stessi giorni dell’esercitazione, le Filippine abbiano annunciato la loro intenzione di offrire un migliore e costante accesso ai propri porti non solo alle navi americane, ma anche a quelle giapponesi, al fine di cautelarsi da eventuali iniziative ostili da parte cinese.
Fonte C.E.S.I Weekly 119 per cotatti geografia 2013@libero.it
Stati Uniti: rafforzano la capacità militare di Giordania e Turchia
Siria

Il Generale dell’Esercito statunitense, Martin E. Dampsey, responsabile del Joint Chief of Staff, ha dichiarato, durante la conferenza stampa congiunta con il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, tenutasi al Pentagono il 26 giugno, che gli Stati Uniti stanno cercando di rafforzare la capacità militare dei propri partner, Giordania e Turchia, per scongiurare un possibile spill over delle violenze siriane. La presenza delle Forze statunitensi nella regione era stata confermata nei giorni scorsi dal Primo Ministro giordano, Abdullah Ensour, e dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, Gen. Mashal al-Zabin, e consterebbe di circa 700 uomini rimasti sul territorio giordano al termine dell’esercitazione congiunta Eager Lion di inizio giugno. A questi, si deve aggiungere una componente aerea di F-16, sul cui numero non vi è certezza, anch’essi ricollocati in Giordania al termine dell’esercitazione. Sempre ad Amman, inoltre, dovrebbero cominciar! e ad arrivare nelle prossime settimane i primi rifornimenti di armi leggere e missili anticarro come parte del programma di addestramento a gruppi di combattenti che, dal territorio giordano, dovrebbero poi unirsi alle Forze dell’opposizione siriana nei combattimenti contro le Forze lealiste di Assad. Al training dovrebbe partecipare anche l’Arabia Saudita. Inoltre, durante il summit del G8 tenutosi a metà giugno, Washington aveva intavolato trattative con Londra e Parigi sulla possibilità di imporre una no fly-zone sulla Siria. Nelle ultime settimane, infatti, la diplomazia occidentale è stata sempre più attraversata dalle pressioni provenienti da Washington e, sembra, anche da Tel Aviv, per coinvolgere quanti più alleati possibili nella creazione di una no fly-zone sulla regione meridionale della Siria. Su questa iniziativa rimane l’atteggiamento assolutamente contrario della Russia, nonostante Mosca abbia ritirato il proprio personale militare dalla base di Tartu! s, sulle coste siriane.
Il rinnovato impegno degli Stati Uniti nella regione, era stato annunciato nelle scorse settimane dal Presidente Obama, che, dopo mesi di incertezze, aveva dichiarato la disponibilità degli Stai Uniti ad iniziare un piano di forniture militari per i ribelli siriani. Nonostante l’intenzione di Washington sia rafforzare la capacità militare degli uomini leali al Gen. Salim Idris, l’Amministrazione Obama si trova a dover affrontare il rischio che il flusso di armi tra le fila dell’opposizione siano intercettate dai gruppi salafiti vicini ad al-Qaeda, Jhabat al-Nusra su tutti.
Il rinnovato impegno degli Stati Uniti nella regione, era stato annunciato nelle scorse settimane dal Presidente Obama, che, dopo mesi di incertezze, aveva dichiarato la disponibilità degli Stai Uniti ad iniziare un piano di forniture militari per i ribelli siriani. Nonostante l’intenzione di Washington sia rafforzare la capacità militare degli uomini leali al Gen. Salim Idris, l’Amministrazione Obama si trova a dover affrontare il rischio che il flusso di armi tra le fila dell’opposizione siano intercettate dai gruppi salafiti vicini ad al-Qaeda, Jhabat al-Nusra su tutti.
(Fonte C.E.S.I. Wheekly 118) per contatti: geografia2013@libero.it
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